CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 novembre 2020, n. 26965
Tributi – Accertamento – Attività finanziarie – Incrementi patrimoniali di diversa natura ritratti e/o depositati all’estero – Regime d’imposta sostitutivo – Esclusione
Rilevato che
1. L.M. ricorre con sei articolati motivi contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n.153/9/12 della Commissione tributaria regionale del Lazio (di seguito C.t.r.), pronunciata in data 23/2/2012, depositata in data 13/7/2012 e notificata il 20/7/2012, che ha accolto parzialmente l’appello dell’Ufficio e l’appello incidentale del contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione degli avvisi di accertamento per maggiore Irpef relativamente agli anni di imposta dal 1999 al 2003.
2. I giudici di appello esponevano in fatto che, da informazioni assunte dall’Agenzia delle entrate ai sensi della Direttiva del consiglio dell’Unione europea n.77/799/Cee del 19/12/1977, riguardante la reciproca assistenza fiscale fra le autorità competenti degli stati membri, era emerso che il contribuente era l’unico beneficiario della disponibilità del fondo Massago Etablissement, costituito in Vaduz (Liechtenstein), che, alla data del 31/12/2000, ammontava ad euro 2.381.015,00.
L’Ufficio aveva recuperato a tassazione, come redditi di capitale, gli incrementi che detto fondo aveva avuto negli anni 1999 e 2000, mentre, per gli anni successivi, aveva applicato la presunzione di redditività di cui all’art.6 d.l. n.167/1990.
Con la sentenza impugnata, la C.t.r. riteneva che le informazioni, su cui si basavano gli accertamenti fiscali, fossero legittimamente pervenute all’Agenzia delle entrate in base a convenzioni internazionali ed alla Direttiva del consiglio dell’unione europea n. 77/799/Cee del 19/12/1977, che regola lo scambio di informazioni in materia tributaria.
Il giudice di appello riteneva, inoltre, che la pretesa tributaria fosse fondata nel merito, ad eccezione del reddito da locazione dell’anno 2001, per il quale annullava il relativo avviso.
3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
4. Il ricorrente ha depositato memoria.
5. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio dell’8 settembre 2020.
Considerato che
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 39 d.l. 6 luglio 2011, n. 98, e 16 I. 27 dicembre 2002, n. 289, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod.proc.civ. Il ricorrente rileva che la C.t.r. avrebbe omesso di sospendere il procedimento, nonostante il contribuente si fosse avvalso della facoltà di definire la lite fiscale pendente per l’anno di imposta 2003, ex art. 39, comma 12, d.l. n. 98/2011, conv. dalla l. n. 111/2011.
1.2. Il motivo è infondato e deve essere rigettato.
Fermo restando che l’Agenzia delle entrate ha riconosciuto la regolare definizione della lite per l’anno 2003, limitatamente al quale il giudizio deve dichiararsi estinto per cessata materia del contendere, la mancata sospensione del giudizio di appello in ordine alle diverse annualità non comporta alcuna causa di nullità della sentenza, stante l’autonomia della definizione per il solo anno di imposta 2003.
2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.4, cod.proc.civ. la nullità della sentenza impugnata per l’acritica adesione alle tesi dell’Agenzia delle entrate, in violazione degli artt.112 cod. proc. civ., 111 e 24 Cost.
2.2. Il motivo è infondato e va rigettato, in quanto la sentenza impugnata, nella sua sinteticità, è idonea a palesare l’iter logico giuridico posto a base della decisione adottata, consistente nella legittimità dell’acquisizione delle informazioni, assunte dall’Agenzia delle entrate ai sensi della Direttiva del consiglio dell’Unione europea n.77/799/Cee del 19/12/1977 e delle convenzioni internazionali, e nella ritenuta fondatezza della pretesa tributaria, basata sulla documentazione acquisita dalle autorità britanniche.
3.1. Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt.10 e 111 Cost., 70 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 696, 729 e 191 cod. proc. pen., della Direttiva 19 dicembre 1977 n.77/799/Cee, art.27 della Convenzione contro la doppia imposizione tra Italia e Regno Unito del 5 novembre 1990 e dell’art.26 della Convenzione contro la doppia imposizione tra Italia ed Australia del 18 novembre 1984, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod.proc.civ.
3.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi in materia, esprimendo il principio secondo cui << in tema di accertamento tributario, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale » (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 8605 del 28/04/2015, che nella fattispecie al suo esame, ha ritenuto utilizzabili ai fini della pretesa fiscale, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari trasmessi dall’autorità finanziaria francese a quella italiana, ai sensi della direttiva 77/799/CEE, senza onere di preventiva verifica da parte dell’autorità destinataria, sebbene acquisiti con modalità illecite ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria; vedi anche Sez. 5 – , Sentenza n. 31779 del 05/12/2019).
Nei giudizi conclusi con le citate pronunce, il contribuente, proprio come l’odierno ricorrente, era stato sottoposto ad accertamento fiscale per aver investito capitali all’estero non avendoli dichiarati, e le somme risultavano detenute presso una banca svizzera. Come nel caso in esame, l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti del contribuente un avviso di accertamento, con il quale contestava l’omessa compilazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2006, in relazione alle movimentazioni di un conto esistente presso la banca Svizzera intestato al predetto. Gli elementi, sui quali si era fondata la contestazione, erano stati trasmessi dall’autorità finanziaria francese (nel nostro caso, invece, da quella britannica) attraverso i canali di collaborazione previsti dalla Direttiva n. 77/799/CEE e dalla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata da Italia e Francia (nel nostro caso Regno Unito).
Questa Corte, nella motivazione dei precedenti citati, ha individuato precisi indici normativi dai quali inferire la piena utilizzabilità del materiale del quale qui si discute. Ed infatti, tanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, che l’art. 41, comma 2, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 1, prendono esplicitamente in considerazione l’utilizzo di elementi “comunque” acquisiti, e perciò anche nell’esercizio di attività istruttorie attuate con modalità diverse da quelle indicate nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, e nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51. Tali disposizioni individuano, quindi, un principio generale di non tipicità della prova che consente l’utilizzabilità – in linea di massima – di qualsiasi elemento che il giudice correttamente qualifichi come possibile punto di appoggio per dimostrare l’esistenza di un fatto rilevante e non direttamente conosciuto.
Ciò in quanto nessun onere di preventiva verifica spetta all’autorità destinataria delle informazioni, che potranno essere poste a fondamento della pretesa fiscale secondo la disciplina propria dell’ordinamento in cui le stesse vengono utilizzate.
Dunque, nel caso di specie, non vi era alcun onere dell’amministrazione di comprovare l’autenticità e provenienza della documentazione, non potendosi in ogni caso ipotizzare un’invalidità della documentazione sulla base di elementi previsti dalla normativa interna in tema di rogatorie internazionali.
<<Del resto, Cass. pen. nn. 27336/12 e 24653/2009 hanno ritenuto, sia pure in ambito penale, che le acquisizioni documentali della Guardia di finanza attengono al procedimento di accertamento fiscale ed avendo natura di atti amministrativi acquisiti all’estero direttamente dalle amministrazioni competenti esulano dalla disciplina relativa alle rogatorie.
D’altra parte, non si evince dagli strumenti comunitari e convenzionali appena ricordati un obbligo di attestazione di conformità agli originali della documentazione trasmessa in copia, a differenza di altri strumenti previsti in tema di cooperazione penale. Ciò a dimostrazione dell’autonomia del sistema di accertamento della pretesa fiscale rispetto a quello penale. La giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio – sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20) ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 2010; Cass. n. 13121/2012)>> (Cass. ord. n.8605/2015 cit., in motivazione, che, inoltre, chiarisce come nell’ordinamento tributario non si rinvenga una disposizione analoga a quella contenuta all’art. 191 c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”).
4.1. Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia, in violazione dell’art.112 cod. proc. civ., in quanto i giudici di secondo grado avrebbero accolto l’appello erariale, senza esaminare le molteplici doglianze, originariamente poste con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e reiterate, in via subordinata, in appello, relativamente a: assenza di valore probatorio della documentazione trasmessa all’Italia; illegittimo uso della doppia presunzione nell’accertamento per l’anno di imposta 2003; decadenza dai poteri di accertamento per gli anni 1999 e 2000, per i quali non sarebbe applicabile il raddoppio del termine ex art. 43, comma terzo, d.P.R. n.600/1973; violazione dell’art.37 d.P.R. n.600/1973, degli artt. 1, 42, 16 bis e 20 d.P.R. n.917/86, dell’art.26 d.P.R. n.600/1973, dell’art. 6 d.l. n. 167/90, in relazione alla riferibilità dell’incremento patrimoniale della fondazione al contribuente, nonchè ai criteri di quantificazione del maggior reddito. Con la prima articolazione del quarto motivo (indicata al paragrafo 4.1. del ricorso), il ricorrente denunzia, ex art. 360, primo comma, n.5, cod. proc. civ., l’omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso, consistente nell’inattendibilità probatoria della documentazione ricevuta dall’Italia, sotto il profilo della verifica della provenienza ed autenticità della stessa e della mancanza di ulteriori riscontri probatori.
Con la seconda articolazione del quarto motivo (indicata al paragrafo 4.2. del ricorso), il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art.2700 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ., laddove il giudice di appello ha ritenuto che i documenti di fonte svizzera avessero il valore di una vera e propria prova legale.
La doglianza preliminare, relativa all’omessa pronuncia sulle eccezioni del contribuente, avanzate con il ricorso introduttivo del primo grado di giudizio e reiterate in appello, è infondata e va rigettata, in quanto il giudice di appello, pur omettendo una specifica motivazione su ognuna di esse, le ha implicitamente rigettate, affermando la legittimità e fondatezza della pretesa tributaria (ad eccezione di quella relativa ai redditi di locazione, non più in discussione), con un iter argomentativo incompatibile con le contestazioni suddette.
Anche le due articolazioni del quarto motivo (par.4.1. e 4.2 del ricorso) sono infondate e vanno rigettate.
Come sì è già visto, nessun onere di preventiva verifica spetta all’autorità destinataria delle informazioni, che potranno essere poste a fondamento della pretesa fiscale secondo la disciplina propria dell’ordinamento in cui la stessa viene utilizzata. Inoltre, questa Corte ha chiarito che «l’art. 2729 c.c. ammette solo le presunzioni che abbiano i connotati della gravità, precisione e concordanza, laddove: la “precisione” va riferita al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago, ma ben determinato nella sua realtà storica; la “gravità” va ricollegata al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto; la “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, dovendosi tuttavia precisare, al riguardo, che tale ultimo requisito è prescritto esclusivamente nell’ipotesi di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi» (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 2482 del 29/01/2019).
Secondo l’ormai costante indirizzo di questa Corte, tale principio generale ha trovato applicazione in ambito tributario, allorché si è detto che anche un solo indizio, preciso e grave, può risultare già di per sé idoneo a giustificare la pretesa fiscale, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevolezza e probabilità (cfr. Cass. n.3276/2018; Cass. n. 8506/2015; Cass. n. 656/2014; Cass. n. 12438/2007; Cass.n. 28047/2009; Cass. n. 27063/2006).
Nè può dubitarsi dell’utilizzabilità di informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative quali elementi di prova (Cass. 30 settembre 2011, n. 20032; Cass. 20 aprile 2007, n. 9402; Cass. 29 luglio 2005, n. 16032; Cass. 5 maggio 2011, n. 9876; Cass. 14 maggio 2010, n. 11785; Cass. n. 2916/2013;v. anche Cass. n. 3839/2009; Cass., 7 agosto 2008 n. 21271; Cass.n. 4612, 4613 e 4614/2014).
Deve, conclusivamente, ribadirsi il principio, riaffermato anche di recente da questa Corte, secondo cui «L’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale, può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, ancorché acquisito illegittimamente secondo l’ordinamento processuale penale, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale, stante la netta differenziazione tra processo penale e tributario, secondo un principio sancito non solo dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), ma anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ininfluente l’avvenuta distruzione, su ordine del giudice penale, dei documenti concernenti l’illegale raccolta di informazioni ai danni dell’indagato)» (Cass. Sez. 5 , Sentenza n. 31243 del 29/11/2019).
Nel caso in esame, il giudice di appello, facendo corretta applicazione dei principi sopra richiamati, non ha attribuito valore di prova legale alla documentazione pervenuta all’autorità italiana, ma, evidentemente, ha ritenuto che essa fosse attendibile e idonea, indipendentemente da ulteriori riscontri, a dimostrare la riferibilità dei maggiori redditi al contribuente.
5.1. Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, dell’art. 331 cod. proc. pen. , degli artt.16 bis e 42 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art. 6 d.l. 28 giugno 1990, n. 167., in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo il ricorrente, l’Ufficio aveva effettuato la verifica fiscale nel giugno 2008, quando ormai erano scaduti i termini per le suddette annualità.
La doglianza è infondata, in quanto, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, i termini per le annualità in oggetto scadevano rispettivamente in data 31 dicembre 2006 e 31 dicembre 2007 (considerata la proroga di due anni prevista dall’art. 10 l. n. 289/2002).
L’amministrazione finanziaria ha effettuato la denunzia penale e successivamente ha notificato gli avvisi di accertamento, in data 31 dicembre 2008, avvalendosi del raddoppio dei termini di cui all’art. 43, terzo comma, d.P.R. n.600/1973, applicabile, ai sensi dell’art.37, comma 26, d.l. n.223/2006, a partire dal periodo di imposta per il quale, alla data del 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore del decreto che ha modificato i termini di accertamento), i termini di cui all’art. 43, commi 1 e 2, d.P.R. n.600/1973 e 57 d.P.R. n.633/1972 (in materia di Iva) siano ancora pendenti.
Come è stato detto «in tema di accertamento tributario, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, come modificati dall’art. 37, comma 24, del d.l. n. 223 del 2006, conv. con modif. dalla I. 248 del 2006, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche con riferimento alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore (4 luglio 2006) del predetto decreto, tanto derivando non dalla natura retroattiva della novella, ma, secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, dalla circostanza che, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del detto decreto, essa incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, nel rispetto del principio cristallizzato dall’art. 11, comma 1, disp. prel. al c.c.» (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 27629 del 30/10/2018).
Secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011 e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (tra cui, in particolare, dalle pronunce n. 20043 e n. 9974 del 2015; da ultimo n. 26037/2016 e n.27629 cit.), il “raddoppio” del termine deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia (in specie, Cass. n. 1171 del 2016), dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (dato anche il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento e processo tributario, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000).
Detto obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di un’eventuale attività illecita. Il medesimo obbligo opera in base a condizioni obiettivamente rilevabili, considerato che anche il pubblico ufficiale non potrebbe liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente, pena la commissione del reato di cui all’art. 361 cod. pen. per il caso di ritardo od omissione nella denuncia; il giudice tributario, a sua volta, è tenuto a controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Alla luce degli esposti principi, deve ritenersi l’irrilevanza delle contestazioni del ricorrente, relative alla prescrizione del reato ed all’archiviazione del procedimento penale a suo carico, nonché l’infondatezza della doglianza relativa all’inapplicabilità del raddoppio del termine ai poteri di indagine, in quanto appare evidente che la sussistenza dei requisiti per il raddoppio del termine debba essere valutata con riferimento al momento dell’emissione dell’avviso di accertamento all’esito delle necessarie verifiche fiscali.
5.2. Rimane da esaminare la contestazione relativa alla determinazione dell’imposta evasa, con riferimento alla soglia di punibilità prevista dall’art.4 d.lgs. n.74/2000 ed alla conseguente insussistenza dei presupposti di cui all’art.43, comma terzo, d.P.R. n.600/1973. Secondo il ricorrente, l’Ufficio, per le annualità 1999 e 2000, avrebbe erroneamente omesso di applicare la presunzione di fruttuosità di cui all’art. 6 d.l. n.167/1990, illegittimamente recuperando a tassazione, con l’imposizione dell’aliquota ordinaria progressiva, la mera variazione del valore del patrimonio della fondazione.
Con la prima articolazione del quinto motivo (par.5.1 del ricorso), il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 bis e 42 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art.6 d.l. 28 giugno 1990, n. 167, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ. Secondo il ricorrente, per le annualità 1999 e 2000, erroneamente la C.t.r. avrebbe ritenuto che le somme accertate vadano considerate imponibili, quali <<interessi e proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, come previsto dall’art. 44 lett. d) T.u.i.r.».
Sostiene il contribuente che l’Ufficio avrebbe sottoposto ad imposizione, quale redditi di capitale, tassabili esclusivamente in base al principio di cassa, gli incrementi di valore del patrimonio della fondazione, costituito da un portafoglio titoli e da una modesta liquidità, senza accertare se tali redditi fossero stati percepiti nel periodo in contestazione.
In ragione delle difficoltà di appurare l’an ed il quantum dei redditi di capitale esteri effettivamente percepiti dal contribuente, l’Ufficio avrebbe, invece, dovuto fare riferimento alla presunzione di fruttuosità di cui all’art.6 d.l. n.167/1990, ed applicare ai redditi così presunti l’imposta sostitutiva, con l’aliquota del 27%, prevista dall’art.16 bis (vigente 18) T.u.i.r., in luogo dell’ordinaria aliquota progressiva.
Con la seconda articolazione del quinto motivo (par.5.2 del ricorso), il ricorrente denunzia, ex art. 360, primo comma, n.5, cod. proc. civ., l’omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso, consistente nella effettiva percezione dell’incremento patrimoniale della fondazione per gli anni 1999 e 2000.
Secondo il ricorrente, la documentazione posta a fondamento degli atti impositivi aveva un contenuto meramente descrittivo del valore del portafoglio titoli, che costituiva il patrimonio della fondazione, che non era stato realizzato, né percepito negli anni 1999 e 2000.
Le doglianze sono complessivamente infondate.
L’art.4, comma 1, d.l. n. 167/1990, vigente ratione temporis, prevedeva « Le persone fisiche, gli enti non commerciali, e le società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, residenti in Italia che al termine del periodo d’imposta detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia, devono indicarli nella dichiarazione dei redditi. Agli effetti dell’applicazione della presente disposizione si considerano di fonte estera i redditi corrisposti da non residenti o soggetti alla ritenuta prevista nel terzo comma dell’art. 26 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre, n. 600, nonché i redditi derivanti da beni che si trovano al di fuori del territorio dello Stato ».
L’art.6 d.l. n.167/1990, a sua volta, prevedeva:«Per i soggetti di cui all’art. 4, comma 1, le somme in denaro, i certificati in serie o di massa od i titoli trasferiti o costituiti all’estero, senza che ne risultino dichiarati i redditi effettivi, si presumono, salvo prova contraria, fruttiferi in misura pari al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nel relativo periodo d’imposta, a meno che nella dichiarazione non venga specificato che si tratta di redditi la cui percezione avviene in un successivo periodo d’imposta. La prova contraria può essere data dal contribuente entro sessanta giorni dal ricevimento della espressa richiesta notificatagli dall’ufficio delle imposte».
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che «l’obbligo di dichiarazione, previsto dall’art. 4 del d.l. n. 167 del 1990, conv., con modif., in l. n. 227 del 1990 (applicabile “ratione temporis”), relativo agli investimenti ed alle attività di natura finanziaria all’estero riguarda tutte le somme di denaro depositate su conti correnti di banche estere, importi che, in assenza di prova contraria, si presumono fruttiferi e pertanto tassabili» (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 15608 del 14/06/2018).
Nel caso di specie, l’Ufficio, sulla base della documentazio ne in suo possesso, ha recuperato ad imposta gli incrementi che il fondo ha avuto per gli anni di imposta 1999 e 2000, applicando ad essi la tassazione ordinaria, mentre per gli anni di imposta successivi (dal 2001 al 2003) ha applicato la presunzione di fruttuosità di cui all’art.6 d.l. n.167/1990.
In relazione al reddito presunto per le annualità dal 2001 al 2003, trattandosi di interessi su capitali detenuti all’estero, l’amministrazione finanziaria ha applicato l’imposta sostitutiva, in quanto prevista anche per i corrispondenti redditi di fonte interna, secondo la ratio della disposizione di cui all’art.46 T.u.i.r., che tende ad evitare la disparità di trattamento tra i redditi della stessa natura di fonte interna, assoggettati ad imposta sostitutiva o a ritenuta d’imposta a titolo definitivo, e di fonte estera.
Per quanto riguarda, invece, le prime due annualità (1999 e 2000), l’amministrazione ha computato gli incrementi del fondo (relativamente alle voci “contanti” e “partecipazioni/titoli”) nel periodo in oggetto ed effettuato il recupero ai sensi dell’art. 46 Tuir, applicando l’aliquota ordinaria progressiva, considerato che l’art. 26, comma 5, d.P.R. n.600/1973 prevede solo una “ritenuta d’acconto” da parte del sostituto per i redditi e proventi aventi ad oggetto l’impiego del capitale.
Inoltre, deve rilevarsi che nel paragrafo 4.1 delle istruzioni per la compilazione del quadro RM del Mod.UNIC0-2000 (anno 1999) si legge: «In questo quadro devono essere indicati i redditi soggetti a tassazione separata indicati negli artt. 7, comma 3, 13-bis, comma 1, lett. f), e 16 del Tuir, nonché alcuni redditi di capitale percepiti all’estero, ai quali si applica la disposizione dell’art. 16-bis del Tuir, introdotta dall’art. 21, comma 1, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e i redditi di capitale di cui all’art. 4 del Dlgls. 10 aprile 1996, n. 239, sui quali non è stata applicata l’imposta sostitutiva». Nel successivo paragrafo 4.9 si legge: «Nella Sezione VIII vanno indicati i redditi di capitale di fonte estera, diversi da quelli che concorrono a formare il reddito complessivo del contribuente (che vanno dichiarati nel quadro RI), percepiti direttamente dal contribuente senza l’intervento di intermediari residenti. Tali redditi sono soggetti ad imposta sostitutiva nella misura della ritenuta alla fonte a titolo di imposta applicata in Italia sui redditi della stessa natura (art. 16-bis del Tuir come introdotto dall’art. 21 della legge 27 dicembre 1997, n. 449). Il contribuente ha la facoltà di non avvalersi del regime di imposizione sostitutiva e in tal caso compete il credito d’imposta per le imposte pagate all’estero».
Dunque se non si tratta di redditi di capitale di fonte estera, ma d’incrementi patrimoniali di diversa natura ritratti e/o depositati all’estero, non si applica il regime del quadro RM (che prevede l’imposta sostitutiva).
Pertanto, nel caso di specie, non potendo considerarsi quali redditi di capitale di fonte estera gli incrementi che il fondo ha avuto per gli anni di imposta 1999 e 2000, ne consegue che ad essi non era applicabile l’imposta sostitutiva, che non era prevista per tali redditi dalla normativa italiana.
6.1. Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt.37 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, 4 d.l. 28 giugno 1990, n. 167, 1 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nonchè 1, 2, 3 d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo il contribuente, la documentazione posta a fondamento della pretesa tributaria dimostra che le attività finanziarie sono di pertinenza della fondazione Massago Etablissement, soggetto distinto dal ricorrente, al quale non sarebbe possibile riferire i redditi accertati.
6.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Il giudice di appello ha rilevato che, dalla documentazione in atti, risulta che il contribuente, residente in Italia, è l’effettivo beneficiario dei redditi in questione.
Tale valutazione non può essere oggetto di revisione in sede di legittimità, laddove non ne sia denunziata l’omissione, l’insufficienza o la contraddittorietà in punto di motivazione, e non può portare ad una nuova pronuncia sul fatto.
Né si ravvisa la dedotta violazione di legge, poiché il giudice di appello, sul presupposto che, dalla documentazione acquisita, risultava che il ricorrente era l’unico beneficiario delle disponibilità della fondazione, ha correttamente ritenuto che quest’ultimo fosse obbligato alla dichiarazione del relativo reddito ed al pagamento dell’imposta.
A ciò si aggiunga che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, «l’obbligo di dichiarazione di cui all’art. 4 del d.l. 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titolo e valori), convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 1990, n. 227, riguarda non solo l’intestatario formale e il beneficiario effettivo di investimenti o attività di natura finanziaria all’estero, ma anche colui che, all’estero, abbia la disponibilità di fatto di somme di denaro non proprie, con il compito fiduciario di movimentarle a beneficio dell’effettivo titolare, atteso che, tenuto conto della “ratio” della previsione, rileva una nozione onnicomprensiva di detenzione, che include anche le situazioni di detenzione nell’interesse altrui>> (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26848 del 18/12/2014; vedi anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10332 del 07/05/2007; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9320 del 11/06/2003).
Per quanto fin qui detto, il ricorso va complessivamente rigettato, ed il ricorrente va condannato al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
dichiarata cessata la materia del contendere in relazione all’anno di imposta 2003, rigetta il ricorso nel resto e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.