CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 novembre 2020, n. 27078
Demansionamento – Risarcimento del danno alla professionalità – Difetto di prova contraria da parte della società
Rilevato che
– con sentenza del 20 aprile 2015, la Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello principale e quello incidentale proposti avverso la decisione del locale Tribunale che aveva parzialmente accolto il ricorso proposto da L.F., per il riconoscimento del demansionamento posto in essere nel Febbraio 2001 dalla R. S.p.A. e per la condanna al risarcimento del danno alla professionalità, pari a euro 3.337,00 mensili, corrispondenti alla metà della retribuzione mensile percepita;
– in particolare, la Corte ha ritenuto adeguatamente provata la dequalificazione sulla base delle allegazioni del F. ed in difetto di prova contraria da parte della società e corretta la determinazione del danno cagionato e, respingendo l’appello incidentale, ha escluso la ricorrenza del danno morale;
– per la cassazione della sentenza propone ricorso la R. – S.p.A., affidandolo a due motivi articolati, tuttavia, in tre censure;
– resiste, con controricorso, L.F.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697, 2087, 1218, 1230 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ. e 10 L. n. 604 del 1966;
– si deduce la nullità della sentenza per difetto di motivazione in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.;
– si lamenta, infine, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti;
– le prime due censure, da esaminarsi congiuntamente, per l’intima connessione, sono infondate;
– deduce parte ricorrente, al riguardo, di non condividere la lettura offerta dal giudice di merito della norma di cui all’art. 2103 cod. civ. in particolare con riferimento alla ritenuta irrilevanza del conferimento dell’incarico di vice dirigenza;
– osserva la Corte, al riguardo, che pur nell’attribuzione dell’incarico di vice dirigenza, non risultava affatto mantenuta la professionalità del F. sia quantitativamente “per l’assenza totale di incarichi direttivi ovvero per l’attribuzione del tutto sporadica degli stessi” sia qualitativamente, in relazione al concreto esercizio dei poteri di delega in ordine ai quali non era risultato, dall’istruttoria espletata, l’esercizio di poteri effettivi direttivi;
– osserva in merito la difesa ricorrente come la lettura offerta dalla Corte territoriale dell’art. 2103 cod. civ. apparirebbe “datata”e, soprattutto, “inidonea a cogliere la necessità di un’interpretazione evolutiva con riguardo alla peculiarità della categoria dirigenziale” e, in particolare, del c.d. Top Management, più che apicale;
– la piana lettura del motivo, come proposto, induce ad affermare, con tranquillante certezza, che pur essendo la censura veicolata sotto il profilo della violazione di legge, essa, in realtà, mira ad ottenere una rivisitazione nel merito dell’accertamento, addirittura propugnando una “lettura evolutiva” dell’art. 2113 cod. civ. con riguardo alla figura dirigenziale ma, in concreto, facendo valere un diverso iter argomentativo fattuale, contrapposto a quello percorso dalla Corte territoriale;
– il motivo, d’altro canto, non coglie la sostanza della situazione venutasi a creare e cioè, come accertato dal giudice di appello, la inattività del F. (e non un diverso rapporto con i vertici aziendali); va poi considerato che non vengono richiamati precedenti di legittimità a sostegno della proposta interpretazione, asseritamente “evolutiva”, senza che essa possa comunque trovare supporto nella modifica dell’art. 2103 cod. civ., a seguito del d.lgs. n. 81/2015, modifica inapplicabile ratione temporis.
– d’altra parte, va ribadito che, che in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una asserita erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).
– relativamente, poi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 cod. civ., va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. IlI, n. 15107/2013) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma;
– nel caso di specie, la Corte ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, qualora da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 cod. civ., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cfr., sul punto, Cass. n. 4211 del 03/03/2016);
– con diffusa motivazione, infatti, la Corte ha richiamato le specifiche dichiarazioni del F. di non essere adibito ad alcuna attività confacente il proprio inquadramento, sottolineando come gravasse sulla R. S.p.A. l’onere di dimostrare l’assegnazione del dipendente a mansioni corrispondenti al profilo professionale e, in particolare, in ordine al proficuo uso della procedura a contrarre, unico elemento addotto dalla R. S.p.A. come corretto adempimento degli obblighi di cui all’art. 2103 cod. civ.;
– come risulta evidente dalla lettura della articolata motivazione del giudice di secondo grado, nessun difetto di pronunzia può ravvisarsi nella specie, nella quale, anzi, si da compiutamente conto di tutti i passaggi dell’iter argomentativo seguito dal giudice di secondo grado;
– d’altro canto, va rilevato che perché possa parlarsi di omessa pronuncia, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cfr., ex plurimis, fra le più recenti, Cass. n. 5730 del 03/03/2020), occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti;
– il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti integra un vizio di natura diversa, relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio, sicuramente presente nel caso di specie;
– con il secondo motivo di ricorso, anch’esso articolato in tre censure, si denunzia con riguardo al ritenuto danno da demansionamento, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697, 2087, 1218, 1230 cod. civ., 414, 115 e 116 cod. proc. civ.;
– si deduce, altresì, la nullità della sentenza per difetto di motivazione in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.;
– si lamenta, infine, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti;
– anche in questo caso le prime due censure possono essere esaminate congiuntamente per l’intima connessione;
– tale esame conduce ad escludere che si sia verificato il radicale vizio motivazionale lamentato e, invece, ad evidenziare come la Corte territoriale abbia ampiamente motivato in ordine al fatto che, contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente, in alcun modo il giudice di primo grado avesse ritenuto configurabile un danno in re ipsa …avendo, invece, egli ritenuto dimostrato il danno in questione in concreto mediante la prova per presunzioni (sulla prova indiziaria, con particolare riguardo al danno non patrimoniale, dopo SSU n. 6572/2006, si veda, fra le più recenti Cass. n. 24585 del 02/10/2019).
– in particolare, la Corte territoriale ha posto l’accento sulla rapida evoluzione delle tecnologie e la necessaria conoscenza da parte del top manager delle informazioni non strettamente tecniche ma correlate alle complesse problematiche relative all’organizzazione e produzione dei principali programmi televisivi richiedenti costante aggiornamento professionale, venuto meno per effetto del demansionamento;
– secondo la Corte, conformemente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, che ha legittimamente applicato il metodo presuntivo, le stesse allegazioni contenute nel ricorso introduttivo relative allo stato di piena inoperosità in cui il ricorrente era stato mantenuto soprattutto dal 2004, con la posizione di dirigente “a disposizione” del Direttore Generale, non avendo la R. esplicitato in alcun modo quali fossero le attribuzioni di tale figura professionale;
– a tali aspetti ha, poi, aggiunto la Corte la questione relativa all’immagine nell’ambito del contesto aziendale, essendosi il F. trovato improvvisamente e inopinatamente, dopo una folgorante ascesa, in un confinamento privo di qualsivoglia attività gestionale anzi, di qualsivoglia attività tout court);
– passando ad esaminare, congiuntamente, i due motivi inerenti all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non può non rilevarsi come gli stessi siano affetti da inammissibilità poiché appare evidente come la parte, mediante i motivi in questione, miri, in realtà ad ottenere una inammissibile rivisitazione del merito della vicenda mentre, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile);
– per quanto concerne, infine, l’esame della censura afferente la violazione dell’art. 360, n. 5 cod. proc. civ., va rilevato che in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017);
– nel caso di specie, appare evidente che la società mira ad ottenere una diversa valutazione di merito, inammissibile in sede di legittimità;
– alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto;
– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso.
Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 6000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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