CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 ottobre 2018, n. 27201
Risoluzione del suo rapporto di lavoro – Inidoneità al servizio di impiegata amministrativa – Impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e compatibili con le residue capacità lavorative
Rilevato
che la Corte di Appello di Messina confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da G. F. diretta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento con cui il 30/8/2010 era stata disposta la risoluzione del suo rapporto di lavoro con P. s.p.a. per inidoneità al servizio di impiegata amministrativa addetta prevalentemente a mansioni di videoterminalista;
che la Corte poneva a fondamento della decisione l’assenza di controindicazioni all’uso dei terminali, nonché di qualsiasi evoluzione peggiorativa della condizione fisica della lavoratrice, accertate da numerosi medici legali nelle diverse fasi della controversia;
che i giudici di merito osservavano, inoltre, che il recesso per inidoneità fisica, da adottare con estrema cautela per il pregiudizio che arreca al lavoratore, poteva dirsi legittimo solo quando fosse provata l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e compatibili con le residue capacità lavorative, non potendo l’impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso, essere ravvisabile nella sola ineseguibilità dell’attività usualmente svolta dal prestatore, ove ravvisabile la possibilità di svolgimento di altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o equivalenti o inferiori, purché utilizzabili dall’impresa;
che avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione !a società sulla base di due motivi;
che la controparte si è costituita con controricorso;
che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;
che con il primo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 punto 3 c.p.c., violazione dell’art. 25, c. 1 lett. C) del D.lgs. 81/08 e art. 41 c. 5 del D.lgs. 81/2008 in relazione all’art. 414, 416 e 420 c.p.c., per avere la Corte ritenuto che le risultanze della cartella sanitaria del lavoratore non acquisite al processo fossero frutto di un’omissione della società. Osserva che aveva chiesto che la consulenza medica si svolgesse anche in relazione alle risultanze formate dal Medico aziendale all’atto della visita ed agli esami diagnostici e strumentali dallo stesso svolti e presenti nella cartella sanitaria del lavoratore, che la richiesta di acquisizione della documentazione medica era stata formulata nel ricorso e ribadita in appello, non potendo la società produrre la cartella medica perché impedita dalle norme sulla tenuta e custodia della medesima da parte del medico competente. Che, di conseguenza la Corte territoriale erroneamente aveva attribuito la mancata produzione della suddetta documentazione ad omissione dell’appellante, la quale per le ragioni indicate della stessa non poteva disporre;
che con il secondo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione di norma di diritto in relazione agli artt. 414, 416 e 420 c.p.c., per non avere i giudici del merito ammesso i capi di prova articolati e per aver ritenuto che la società non abbia provato l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e compatibili, laddove erano state formulate ampie richieste istruttorie, tese anche a dimostrare tale impossibilità;
che il primo motivo di ricorso è infondato ove si osservi che entrambi i consulenti nominati nei successivi gradi di giudizio hanno confermato l’idoneità della lavoratrice alle mansioni svolte, talché il licenziamento era risultato illegittimo per manifesta insussistenza del motivo posto a suo fondamento;
che, a fronte di tali risultanze, non assume alcuna decisività la circostanza attinente alla produzione o mancata produzione della cartella del medico aziendale, essendo la stessa inidonea a modificare l’esito del giudizio, a fronte delle risultanze concordi delle plurime c.t.u.;
che il rigetto del primo motivo conferma la ratio decidendi attinente all’idoneità fisica della lavoratrice posta a fondamento della decisione e rende superfluo l’esame del secondo, correlato ad ulteriore ed autonoma ratio decidendi, attinente alla prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e compatibili;
che, pertanto, il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 3.000,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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