CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 agosto 2021, n. 23541
Licenziamento – Contestazione disciplinare – Lesione del principio di tempestività – Rilevanza penale dei fatti contestati
Rilevato che
Il Tribunale di Firenze ha respinto l’opposizione, ai sensi dell’art. 1, commi 51 e ss., della legge nr. 92 del 2012, proposta da S. S.p.A. avverso l’ordinanza che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a D.C., per tardività della contestazione;
la Corte di appello di Firenze, con sentenza nr. 139 del 2020, ha respinto il reclamo;
per quanto qui solo residua, la Corte territoriale, condividendo le argomentazioni del Tribunale, ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare in quanto avanzata a distanza di oltre sei anni dal fatto, dopo che si era concluso il procedimento penale a carico del C. e lo stesso era stato condannato dal giudice penale;
la Corte di merito ha osservato come il datore di lavoro avesse avuto la compiuta conoscenza della condotta del lavoratore a prescindere dal giudizio penale, già pochi giorni dopo il fatto, in ragione delle dichiarazioni di altro dipendente e di un video dal quale emergeva chiaramente che il C. fosse intento a frugare nella giacca del collega denunciante, posta all’interno del suo armadietto;
per i giudici, dunque, la società disponeva di elementi sufficienti per stabilire, con ragionevole certezza, la responsabilità del lavoratore e, pertanto, la contestazione, nel dicembre del 2017 rispetto ai fatti del 2011, era lesiva del principio di tempestività;
avverso la decisione, ha proposto ricorso per cassazione la S. SPA con due motivi, cui ha opposto difese, con controricorso, D.C.;
la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis cod.proc.civ.;
parte ricorrente ha depositato memoria;
Considerato che
con il primo motivo è dedotta la violazione dell’art. 7, comma 2, della legge nr. 300 del 1970 e degli artt. 1335 e 2087 cod.civ., per avere la sentenza impugnata trascurato di considerare l’obbligo aziendale di tutelare non solo l’affidamento del lavoratore incolpato ma anche l’affidamento del lavoratore incolpante e il suo diritto all’integrità fisica ed alla personalità morale;
con il secondo motivo è dedotta la violazione dell’art. 7, comma 2, della legge nr. 300 del 1970 e dell’art. 2119 cod.civ., per avere la Corte di appello ritenuto illegittima la scelta della datrice di differire la contestazione disciplinare, pur in assenza di un pregiudizio del lavoratore;
i motivi possono congiuntamente trattarsi, arrestandosi ad un medesimo rilievo di inammissibilità;
essi (id est: i motivi), infatti, piuttosto che evidenziare violazioni puntuali di norme di diritto rinvenibili nella sentenza impugnata, si risolvono in una critica dell’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione, così schermando, vizi riconducibili all’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ., in una ipotesi chiaramente preclusa, ai sensi dell’art. 348 ter cod.proc.civ., a tenore del quale il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. «doppia conforme», come nella fattispecie di causa. La disposizione, ratione temporis applicabile, per essere il giudizio di impugnazione introdotto nel 2019, è riferibile anche alla sentenza che definisce il procedimento di reclamo ex art. 1 legge Fornero, come ripetutamente affermato da questa Corte (sentenza nr. 23021 del 2014 e successive conformi);
è il caso, comunque, di aggiungere che il giudizio di tardività espresso dai giudici di merito risulta condotto conformemente all’insegnamento di questa Corte secondo cui «in tema di licenziamento disciplinare, la rilevanza penale dei fatti contestati, e la conseguente denuncia all’autorità inquirente, non fanno venire meno l’obbligo d’immediata contestazione […] sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore […]» (v. Cass. nn. 7410 del 2010 e 4721 e 13955 del 2014; in motiv., tra le tante, v. Cass. nr. 10565 del 2019 anche per i richiami ai precedenti di legittimità);
il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
sussistono, altresì, i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove il versamento risulti dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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