CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 dicembre 2018, n. 33382
Tributi – IRAP – Professionisti – Praticanti – Compensi – Autonoma organizzazione – Verifica
Motivi della decisione
Agenzia delle Entrate ricorre avverso una decisione della Commissione tributaria regionale di Bologna, che, in parziale riforma del primo grado, ha tenuto esente dal pagamento dell’Irap il dott. S., commercialista.
Quest’ultimo aveva chiesto il rimborso dell’imposta pagata per gli anni dal 2003 al 2009, e versata a titolo di Irap per la presenza in studio e la relativa remunerazione, di due praticanti.
Agenzia delle Entrate aveva negato il rimborso dell’Irap, dal presupposto che i compensi pagati ai praticanti dimostravano una certa loro capacità di contribuire al reddito del commercialista, ed erano indice di effettivo lavoro svolto a favore del contribuente.
Avverso tale diniego il professionista ha proposto ricorso, deciso infine dalla commissione regionale, la cui decisione è oggi oggetto di impugnazione. Agenzia delle Entrate fa valere un solo motivo di ricorso, con cui denuncia violazione falsa applicazione dell’art. 2 D.lvo n. 446 del 1997 e dell’art. 2697 c.c.
La tesi del Fisco è che essersi avvalso per alcuni anni di un praticante, per altri anni di due o tre, ed aver loro corrisposto compensi elevati (per un totale di circa 40 mila euro) è indice della circostanza che questi ultimi non fossero praticanti, ma collaboratori in grado di incidere sulla capacità produttiva.
Il contribuente si è costituito ed ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, oltre alla sua infondatezza nel merito.
Il ricorso appare fondato.
Intanto è da respingere l’eccezione fatta dal controricorrente di inammissibilità del ricorso; eccezione basata sulla tesi che il Fisco chiede un nuovo e diverso esame dei fatti, e dunque un accertamento inammissibile in Cassazione. In realtà, la ricorrente dà per pacifici i fatti, ossia il ricorso a praticanti di studio, limitandosi a censurare la decisione di appello nella parte in cui ritiene che i compensi pagati a tali ultimi non sono indici di capacità contributiva.
Nel merito il motivo di ricorso è fondato, alla luce della giurisprudenza di legittimità ormai prevalente.
Agenzia delle Entrate denuncia, oltre che violazione delle norme sull’Irap, altresì violazione dell’art. 2697 c.c., ritenendo che la prova del fatto che il praticante non contribuisce al reddito spetti al professionista che se ne avvale.
L’Irap presuppone il ricorso ad una struttura organizzativa che contribuisca alla produzione del reddito.
In astratto, è vero che, nel caso di utilizzazione di praticanti si deve presumere che la loro utilizzazione non è fatta in vista di un aumento del reddito, ma in vista della loro formazione.
Ed è altresì vero che la finalità del ricorso a praticanti è di impartire loro istruzione professionale piuttosto che di avvalersi della loro opera per incrementare il reddito (in tal senso anche Cass. n. 22705 del 2016).
E’ però altrettanto vero che questa regola vale, per l’appunto, in astratto e che non esime il giudice di merito dalla necessità di verificare se, in concreto, anche in ragione della consistenza dei compensi corrisposti al praticante, quest’ultimo abbia contribuito alla produttività del professionista, incrementandone il reddito (v. da ultimo Cass. 24.1.2018, n. 1723). E ciò a maggior ragione ove si consideri che la questione del concreto contributo fornito dal praticante alla produzione del reddito era stata sollevata da Agenzia delle Entrate, la quale aveva ritenuto la prova di tale contributo presumendola dai compensi elevati (per un semplice praticante) corrisposti dal professionista.
Il ricorso va dunque accolto con rinvio al giudice di merito che dovrà procedere alla verifica suddetta.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romana.
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