CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 febbraio 2020, n. 5376

Cessione d’azienda – Tfr – Fallimento – Insinuazione al passivo – Inammissibilità – Esigibilità del credito – Cessazione del rapporto di lavoro

Fatti di causa

Rilevato che:

1. F. s.p.a. impugna il decreto Trib. Bergamo 14.10.2014, n. 6608/14, R.G. 3597/2014 che ne ha rigettato il reclamo avverso il decreto di solo parziale ammissione al passivo del suo credito nel fallimento L.T. s.p.a., escluso per la parte vantata avendo riguardo al TFR, ceduto alla società (finanziatrice) da dipendenti-lavoratori della fallita per i quali il rapporto di lavoro non era ancora cessato, senza quindi maturazione del relativo diritto e nemmeno sussistendo i presupposti per un’ammissione con riserva;

2. ha ritenuto il tribunale la eccezionalità dell’art. 96 co. 2 l.f., equivalendo invero l’ammissione, sia pur con riserva di avveramento della condizione, al riconoscimento del credito, mentre nella specie il TFR ceduto dai lavoratori a F. non poteva dirsi sorto, avendo gli stessi cedenti continuato a lavorare, senza soluzione di continuità, con un terzo, affittuario d’azienda della società fallita; precisava così il tribunale che la statuizione d’inammissibilità dell’insinuazione al passivo, per come emessa dal giudice delegato e condivisa, non avrebbe comunque precluso al creditore, ricorrendone le condizioni, di riproporre la domanda in via tardiva, anche oltre il termine dell’art. 101 l.f.;

3. il ricorso è su cinque motivi, ad esso resiste il fallimento con controricorso e ricorso incidentale su un motivo, cui a sua volta resiste F. con controricorso; il fallimento ha poi depositato memoria.

Ragioni della decisione

Considerato che:

1. con il primo motivo, è dedotta la violazione dell’art. 93 l.f., ove la declaratoria di inammissibilità della domanda, per come decisa, fuoriesce dai casi tipizzati nella norma, mentre poi l’unico rimedio anche avverso simile pronuncia non può che essere l’opposizione, per tale ragione erroneamente dichiarata inammissibile anche ove si sia chiesta l’ammissione del credito con riserva;

2. Il secondo motivo censura la violazione dell’art. 2120 c.c., ove il tribunale ha configurato il credito per TFR non ancora maturato poiché relativo a rapporti di lavoro pendenti con il cessionario d’azienda, posto che solo la concreta esigibilità e l’ammontare deriverebbero dalla citata cessazione;

3. Il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 1186 c.c., per la parte in cui il decreto ha ritenuto la risoluzione dei rapporti di lavoro elemento costitutivo del credito della ricorrente, sussistendo le condizioni di esigibilità stante la insolvenza ovvero peggiorata situazione patrimoniale dei debitori-lavoratori;

4. Il quarto motivo deduce la violazione degli artt. 95-96 l.f. avendo riguardo all’erroneo differimento dell’accertamento del credito ad un’epoca futura e indeterminata, in contrasto con il principio di tempestiva cristallizzazione del passivo;

5. Il quinto motivo censura il decreto ove avrebbe violato l’art. 96 co. 2 l.f., posto che il credito, benché di natura condizionale, non sarebbe stato ammesso, mentre la sua insorgenza si darebbe già con l’instaurazione del rapporto, tant’è che il titolare ne può disporre; il tutto in contraddizione con quanto avvenuto nella procedura, ove ben tre posizioni su quattro (dei cedenti) sarebbero state ammesse al passivo, senza riserva;

6. con il motivo di ricorso incidentale, il controricorrente, dopo aver eccepito la sopravvenuta mancanza d’interesse del ricorrente essendo stata l’azienda definitivamente ceduta all’affittuario con accollo anche dei debiti di causa, contesta il decreto ove non avrebbe pronunciato la inammissibilità dell’impugnazione di F., per essere stata la stessa attuata mediante opposizione ex art. 98 l.f. e non invece reclamo ex art. 26 l.f.;

7. ritiene il Collegio, in via preliminare, che non possa affermarsi la invocata cessazione della materia del contendere, posto che la definitiva cessione d’azienda all’affittuario, benché accompagnata dall’accollo dei debiti di lavoro tra cui il TFR dei lavoratori “transitati”, non muterebbe la pretesa autonoma per come prospettata da F., già cessionaria di quei crediti, nei confronti del debitore ceduto (la società fallita); risulta invero del tutto pacifica la opponibilità a questi (e, per esso, al fallimento) dell’originaria cessione e di conseguenza l’operatività del principio per cui – come si anticipa rispetto alla trattazione dei motivi – alla cessazione del rapporto il datore di lavoro cessionario risponderà per l’intero TFR, mentre il datore di lavoro cedente risponderà verso il terzo per la quota maturata prima della cessione;

8. ritiene il Collegio di dover trattare congiuntamente i motivi di ricorso, giustapponendo al primo di essi (l’unico fondato) il ricorso incidentale, e così dichiarando, per il resto, la contestuale e complessiva infondatezza di tutti; il decreto del tribunale bergamasco procede invero da due affermazioni in stretta interdipendenza e consequenzialità, in particolare negando l’ammissibilità con riserva del credito (dunque nell’ambito di un giudizio in cui la questione della relativa insinuazione al passivo gli risulta devoluta integralmente) e peraltro pronunciando altresì l’infondatezza dell’opposizione per essere stata promossa contro una declaratoria d’inammissibilità, senza esame nel merito e come tale non preclusiva di una riproposizione della medesima domanda, venendo ad esistenza i requisiti del credito, ritenuti allo stato insussistenti;

9. orbene, proprio tale complessa decisione giustifica la correttezza dell’originario mezzo impugnatorio esperito da F. che, contro il rigetto della propria domanda volta a conseguire l’inserzione al passivo almeno con riserva del credito per TFR cedutole da lavoratori già alle dipendenze della fallita, ha indicato, in primo luogo, il vizio di una pronuncia che ha comunque avuto come esito la mancata considerazione preliminare della concorsualità della propria pretesa, cioè la sua stessa esaminabilità; al di là dunque della (ed anzi contro la) veste formale assunta dal “decreto di inammissibilità” assunto dal giudice delegato, F. ha impugnato la relativa statuizione di conferma perché direttamente incidente sullo stato passivo, nell’esatto presupposto – sottolineato da questa Corte – che in quella sede dovesse in realtà porsi ogni «questione relativa all’esistenza, qualità e quantità dei crediti e dei privilegi, in quanto riservata in via esclusiva al procedimento dell’accertamento del passivo» (Cass. 12732/2011);

10. anche dunque la doglianza avverso l’erronea qualificazione siccome inammissibile di una domanda di insinuazione al passivo con riserva, perché giudicata estranea alle tre ipotesi tipiche di cui all’art. 96 co. 2 l.f., risulta parte della statuizione assunta dal giudice delegato in sede di formazione ed esecutività dello stato passivo; ne consegue che, intendendo la parte avversare il relativo decreto, essa avrà a disposizione – diversamente da quanto le è stato non correttamente negato dal tribunale – proprio le impugnazioni di cui all’art. 98 l.f., alle condizioni di esperimento ivi previste e potendosi in quella sede dolere che la propria domanda non sia stata accolta anche solo in parte ovvero respinta, e cioè che il credito non sia stato ammesso allo stato passivo;

11. l’art. 96 co. 1 l.f.riferisce infatti alla domanda la declinazione decisoria dell’atto del giudice delegato che la “respinge” o “dichiara inammissibile”; e al contempo la formula della riproponibilità ancora della domanda, non preclusa benché (e solo quando) oggetto di dichiarazione di inammissibilità, non determina in alcun modo, per la parte che dissenta da tale decisione, un limite negativo all’impugnabilità (ai sensi dell’art. 98 l.f.) ovvero la deviazione verso un modello impugnatorio alternativo, discendente dalla veste formale attribuita dal giudice delegato alla decisione (nella prospettazione – infondata – del controricorrente, l’art. 26 l.f.); va invero ripetuto il giudizio, secondo indirizzo cui va prestata adesione, che «la declaratoria di inammissibilità della domanda … non fosse tale, in senso stretto, ai sensi dell’art. 93, comma 4, legge fall., ma integrasse un sostanziale rigetto per preclusione da giudicato endofallimentare che non consentiva riproposizione» (Cass. 23723/2019);

12. nella fattispecie, è invero proprio accaduto che il creditore non abbia condiviso la qualificazione di estraneità già in astratto della propria domanda di credito ad una delle tipologie di ammissione con riserva dello stesso e che, per l’effetto, la corrispondente statuizione gli conferisse uno statuto di estraneità al contraddittorio concorsuale fra creditori; nel merito, la mancata ammissione al passivo con riserva di un credito del quale si neghi il requisito della condizionalità ex art. 96 co. 2 n. 1 l.f., non integra alcuna delle ragioni di “inammissibilità” del ricorso tipizzate all’art. 93, co. 4 l.f.; esse infatti sono tassative, riferendosi solo ai casi di omissione o assoluta incertezza di uno dei requisiti di cui ai numeri 1, 2 o 3 del co. 3 art. cit., mentre ove si ritenga insussistente il fatto costitutivo del diritto, ordinatamente allegato, e per somma determinata, unitamente agli elementi giuridici che ne integrano il titolo, il relativo provvedimento sostanzia un rigetto della domanda; va conseguentemente ribadito che reale oggetto della fase impugnatoria dinanzi al tribunale fallimentare – ovviamente nei limiti dei vizi denunciati – non è il provvedimento assunto dal giudice delegato nella prima fase sommaria, bensì la stessa pretesa del creditore (Cass. 25594/2019);

13. l’accoglimento, per questa parte, del ricorso, permette allora la cassazione del decreto del tribunale, con decisione nel merito della originaria domanda di ammissione al passivo che va rigettata ai sensi dell’art. 384 co. 2 c.p.c.; non sussiste infatti la necessità di ulteriori accertamenti di fatto, integrando a propria volta la restante parte del ricorso una censura complessiva infondata ed in particolare inidonea a far conseguire al credito prospettato il rango di credito concorsuale; come convincentemente deciso dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di impugnazione dell’INPS avverso le decisioni di ammissione al passivo del credito per TFR, spettante al lavoratore ancora pendente il relativo rapporto, dunque avuto riguardo all’operatività del Fondo di tutela, «il richiamo all’art. 2120 cod. civ. … costituisce l’oggetto dell’obbligo assicurativo pubblico mediante rinvio alla disciplina contenuta in tale disposizione e rende palese la necessità, affinché sorgano i presupposti per l’intervento del Fondo, che: a) sia venuto ad esistenza l’obbligo di pagamento del t.f.r. fissato dall’art. 2120 cod. civ. in capo al datore di lavoro; b) egli, in tale momento, si trovi in stato di insolvenza. Dunque, sempre ai sensi del disposto dell’art. 2120 cod. civ. …è necessario, innanzi tutto, che sia intervenuta la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò, non solo perché il t.f.r. non può essere preteso se non alla cessazione del rapporto di lavoro… ma anche in quanto è la stessa fattispecie di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982 che include la risoluzione del rapporto, espressamente, fra i presupposti di applicazione della tutela» (Cass. 19277/2018, 2827/2018, 9695/2009 e poi 23775/2018); si tratta di indirizzo consolidato, il quale si è anche dato carico di sottrarre equivoci attorno a precedenti (come Cass. 19291/2011) che, con riferimento all’ipotesi della cessione d’azienda, hanno sì affermato che il diritto al trattamento di fine rapporto matura progressivamente in ragione dell’accantonamento annuale, ma nel senso che l’esigibilità del credito è rinviata al momento della cessazione del rapporto;

14. ne consegue che il credito per TFR in generale non è ancora esigibile, «tant’è che neppure comincia a decorrere il termine di prescrizione» ; e addirittura «il fatto che (erroneamente) il credito maturato per t.f.r. fino al momento della cessione d’azienda sia stato ammesso allo stato passivo nella procedura fallimentare del datore di lavoro cedente non può vincolare l’Inps, che è estraneo alla procedura e che, perciò, deve poter contestare il credito per t.f.r. sostenendo che esso non sia ancora esigibile, neppure in parte, e quindi non opera ancora la garanzia dell’art. 2 legge n. 297 del 1982»; alla cessazione del rapporto, come premesso, il datore di lavoro cessionario «risponderà per l’intero t.f.r. (in via diretta quanto alla quota di t.f.r. maturata dopo la cessione; in via solidale quanto alla quota maturata precedentemente); invece il datore di lavoro …risponderà solo per la quota … maturata prima della cessione»; ne deriva che proprio in quanto il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) sorge con la cessazione del rapporto di lavoro ed è credito non esigibile al momento della cessione dell’azienda in sé e per sé se il rapporto stesso continua, quello avente ad oggetto il t.f.r. fino a quel momento maturato non può essere ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente, in continuità del rapporto di lavoro (conf. Cass. 26021/2018, 23775/2018); quanto si allega sia avvenuto nella procedura di causa appare privo di rilevanza nella presente controversia, trattandosi di decisioni estranee all’oggetto del giudizio e verso soggetti non di necessità implicati in questo;

15. la stessa Cass. 19277/2018 permette di rispondere anche all’ulteriore interrogativo posto dal ricorrente, ove ricorda che «per sostenere il contrario, si dovrebbe applicare estensivamente l’art. 1186 cod. civ. sulla decadenza dal termine: “il creditore può esigere immediatamente la prestazione se it debitore è divenuto insolvente”, ma il credito avente ad oggetto il t.f.r., maturato prima della cessazione del rapporto, non è un credito assoggettato ad un termine di esigibilità poiché la struttura della prestazione vede il decorso del tempo ed il correlato obbligo di accantonamento quali fattori costitutivi interni alla fattispecie e non quali elementi, eventuali, condizionanti soltanto il momento di esigibilità della prestazione stessa»;

16. quanto infine alle speciali ipotesi di disponibilità anticipata di singole porzioni del t.f.r., la loro configurazione nel sistema non incrina la struttura civilistica dell’istituto, posto che, in senso conforme ai precedenti, anche Cass. 23775/2018 ricorda come «ancora più problematica la percorribilità della tesi della scomponibilità del t.f.r. anteriormente alla data di cessazione del rapporto» tenuto conto della sua deduzione nel contesto della previdenza complementare, e dunque – anche qui si ribadisce – a marcata connotazione pubblicistica e protezione eurounitaria per le situazioni di vecchiaia e diritti di pensione senza reazione nei rapporti interprivatistici, qual si connota la vicenda di causa;

Il ricorso va dunque accolto nei limiti della sola contestazione del primo motivo, con rigetto del ricorso incidentale, mentre è infondato nei motivi restanti; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, si dispone la cassazione del decreto impugnato e, decidendo nel merito, il rigetto della domanda di F. s.p.a. di ammissione al passivo con riserva, con liquidazione delle spese secondo le regole della soccombenza e come meglio da dispositivo quanto al giudizio di opposizione allo stato passivo, nonché la compensazione di quelle del giudizio di legittimità (in ragione della soccombenza parziale reciproca), oltre alla dichiarazione di esistenza dei presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a carico di entrambi i ricorrenti.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso principale, ai sensi di cui in motivazione; rigetta il ricorso incidentale; cassa e, decidendo la domanda di ammissione al passivo di F. s.p.a., la respinge; condanna F. s.p.a., in favore del fallimento, al pagamento delle spese del giudizio di opposizione allo stato passivo davanti al tribunale liquidate in euro 4.000 per compensi, euro 200 per esborsi, oltre al 15% a titolo di rimborso forfettario ed accessori di legge; dichiara la compensazione delle spese del procedimento di legittimità; ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, d.P.R. 115/02, come modificato dalla I. 228/12, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e, rispettivamente, incidentale, a norma del co. 1-bis dello stesso art. 13.