CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 luglio 2021, n. 21493
Tributi – Accertamento – Indagini bancarie – Autorizzazione – Mancata esibizione di autorizzazione esistente – Nullità dell’accertamento – Esclusione – Analitica prova contraria del contribuente – Esame da parte del giudice
Rilevato che
Con avviso di accertamento per l’anno 2006, l’Agenzia delle entrate accertava, in capo a R.G., esercente attività di “studi di ingegneria” maggiori imposte ai fini Ires, Irap ed Iva, relative a maggiori redditi rispetto a quelli dichiarati; l’accertamento traeva origine da indagine bancarie che rilevavano che R.G. risultava intestatario di più conti correnti, sicché, a seguito di invito a fornire dati e notizie rilevanti sui prelevamenti e i versamenti, ritenuti insufficienti i chiarimenti addotti dal contribuente, l’Ufficio emetteva avviso di accertamento.
G.R. proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Napoli deducendo l’illegittimità e l’erroneità dell’avviso; in particolare, evidenziava che all’avviso non era allegata l’autorizzazione alle indagini bancarie e che la ricostruzione dei redditi era errata.
La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso ritenendo la piena legittimità dell’avviso.
Il contribuente impugnava la decisione dei primi giudici innanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania che, con la sentenza in epigrafe, accoglieva l’appello, con rideterminazione del reddito del contribuente.
L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale sentenza deducendo due motivi.
G.R. è rimasto intimato nonostante la ritualità della notifica del ricorso.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso – così rubricato: «violazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, nn. 2 e 7 e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 42 e dell’art. 21 octies della I. 241/1990, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.>> – la ricorrente Amministrazione erariale deduce il vizio di violazione di legge della decisione di appello per l’inosservanza dei principi che regolano il contraddittorio e il rapporto tra contribuente e amministrazione durante la fase di accertamento e di eventuale controversia; nello specifico, deduce che la Commissione regionale avrebbe violato i principi che regolano l’attività di accertamento in quanto ha ritenuto che, a fronte della specifica contestazione del contribuente, l’Agenzia delle entrate avrebbe dovuto provare, mediante esibizione, l’esistenza dell’autorizzazione alle indagini bancarie, senza considerare che l’autorizzazione esisteva (nota della Direzione n. 22619 del 25.6.2009) e che ne era stata fatta menzione nell’avviso. Richiama all’uopo alcune sentenze di questa Corte (Cass., 21 luglio 2009, n. 16874 e 26 settembre 2014, n. 20420) secondo cui l’illegittimità dell’avviso può essere dichiarato soltanto in mancanza dell’autorizzazione alle indagini bancarie ma non quando tale autorizzazione vi sia stata, anche se non esibita.
Col secondo mezzo, deduce la violazione degli artt. 32, primo comma, n. 2 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 2697, cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere mal applicato il criterio di riparto dell’onere probatorio nella parte in cui ha ritenuto giustificati i versamenti effettuati dal contribuente sui conti correnti oggetto di accertamento. Rispetto ai prelevamenti, invece, la ricorrente ha dichiarato di prestare acquiescenza stante gli esiti della sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014.
Dalla lettura dell’apparato motivazionale della sentenza di cui in epigrafe si evince che i secondi giudici dopo aver affermato che «l’assenza di autorizzazione determina l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato sia perché le indagini bancarie presupposte sono viziate da incompetenza e da eccesso di potere in violazione dell’art. 21-octies della I. n. 241 del 1990, sia perché carente di motivazione in ordine alle ragioni che hanno giustificato la verifica bancaria» (v. sentenza impugnata, pag. 2, quarto capoverso), non si sono spogliati della potestas iudicandi, ma hanno comunque affrontato il merito della controversia, ritenendo illegittimo l’avviso sia perché non aveva tenuto conto che per la determinazione dei redditi di un lavoratore autonomo (il R. esercita la libera professione di ingegnere) «non si può prescindere dall’esame dei registri degli acquisti (spese) e delle fatture (artt. 23 e 25 d.P.R. n. 633 del 1972) dei beni ammortizzabili (art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972) delle somme in deposito (art. 3 D.M. 31/10/1974), e dal confronto dei detti registri con le risultanze bancarie del contribuente stesso», sia sotto il profilo del mancato fondamento delle indagini compiute per i prelevamenti – essendo intervenuta la sentenza della Corte costituzionale – e per i versamenti, per i quali le giustificazioni addotte dal contribuente avevano superato la presunzione di cui all’art. 32 d.P.R. cit.
Il ricorso è ammissibile e fondato per i motivi di cui appresso.
Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta evidente che ciò che è in discussione è la mancata esibizione, a seguito di specifica contestazione del contribuente, dell’autorizzazione alle indagini bancarie. Alcun cenno è fatto in sentenza – né nella parte narrativa, né in quella motiva – di un’eventuale allegazione, da parte del contribuente, del pregiudizio subito dalla mancata esibizione di tale atto, anzi dalle argomentazioni rese in sentenza, è evidente che il contribuente si sia difeso ampiamente nel merito, arrivando a rimodulare le proprie doglianze e riconoscendo l’imponibilità di parte dei compensi (v. sentenza, pag. 2, terzultimo capoverso).
L’art. 32, n. 7, del d.P.R. n. 600 del 1973, attribuisce agli uffici finanziari il potere di richiedere, previa autorizzazione del direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, ovvero, per il Corpo della guardia di finanza, del comandante regionale, (anche) alle banche dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata ed analoga disposizione è prevista dall’art. 51, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, con riferimento alle attribuzioni e poteri degli uffici dell’imposte sul valore aggiunto.
Secondo l’orientamento di questa Corte, che qui si predilige e si fa proprio, la disposizione in commento subordina la legittimità delle indagini bancarie e delle relative risultanze all’esistenza dell’autorizzazione e non anche alla relativa esibizione all’interessato e che eventuali illegittimità, nell’ambito del procedimento amministrativo di accertamento, diventano censurabili davanti al giudice tributario a condizione che, traducendosi in un concreto pregiudizio per il contribuente, vengano ad inficiare il risultato finale del procedimento e, quindi, l’accertamento medesimo (cfr., Cass., 26 settembre 2014, n. 20420, Cass., 21 luglio 2009, n. 16874, richiamate dalla ricorrente; id. Cass., 15 giugno 2007, n. 14023). Tale orientamento (ribadito, di recente dalle pronunce di questa Sezione del 10 febbraio e 14 luglio 2017, rispettivamente, nn. 3628 e 17457, del 28 maggio 2018 n. 13353 e del 20 ottobre 2020 n. 22754), risulta maggiormente coerente non solo con la sequenza procedimentale prevista dalla disposizione in parola, che subordina la presentazione della richiesta al parere del dirigente ma soprattutto con l’interesse del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo, così come richiede, in via generale, l’art. 21 octies, legge 7 agosto 1990, n. 241. Come evidenziato dalle pronunce richiamate, va considerato, altresì, che «In materia tributaria, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio» (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27149; id. Cass. nn. 13353 del 2018 e 22754 del 2020).
Nella specie, pur a fronte della mancata esibizione dell’autorizzazione non risulta – come anticipato innanzi – alcuna doglianza del contribuente riguardante l’eventuale pregiudizio subito, che «non può esaurirsi nel mancato rilascio della autorizzazione da parte del dirigente, pena la svalutazione del requisito cui, secondo l’interpretazione della normativa preferita, è subordinata l’inutilizzabilità delle indagini bancarie compiute in assenza di rituale autorizzazione, né può ritenersi che il pregiudizio si possa fondare nell’azione di recupero dei tributi dovuti ed omessi» (così, Cass. n. 22754 del 2020).
Il primo motivo di ricorso va, pertanto, accolto.
Anche il secondo mezzo è fondato. Considerata l’acquiescenza della ricorrente sulla statuizione della CTR riguardante i prelevamenti, e delimitato l’oggetto del secondo mezzo alla questione della legittimità dell’accertamento riguardante i versamenti, appare opportuno riportare gli esiti della giurisprudenza di questa Corte sull’accertamento bancario e sul regime probatorio che ne consegue:
– la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari, giusta l’art. 32, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile ai soli titolari di reddito d’impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, primo comma, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei [ confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti (cfr., ex plurimis, Cass. 20 gennaio 2017, n. 1519; Cass. 16 novembre 2018, n. 29572);
– in caso di verifiche su conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (cfr. Cass. 04 agosto 2010, n. 18081; Cass., 29 luglio 2016, n. 15857; Cass., 05 ottobre 2018, n. 24422);
– a fronte dell’analiticità nella deduzione del mezzo di prova o comunque delle allegazioni difensive del contribuente, corrisponde speculare analiticità da parte del giudice nel dover esaminare quanto dedotto e documentato (cfr. Cass., 28 novembre 2018, n. 30786, con riferimento all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, cfr. Cass., 12 settembre 2012, n. 15217; Cass., 22 gennaio 2013, n. 1418; Cass., 15 marzo 2013, n. 6595; Cass., 18 settembre 2013 n. 21303; Cass., 01 ottobre 2014, n. 20668).
Applicando tali principi al caso in esame, benché in linea di principio parrebbe corretta la ripartizione operata dai secondi giudici, dell’onus probandi tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente (nella parte in cui ritengono che alla dimostrazione da parte dell’Agenzia della disponibilità da parte del contribuente delle somme ritrovate sui conti correnti, il contribuente aveva provato il fatto della provenienza delle rimesse sul suo conto corrente), ciò che risulta completamente omesso dalla CTR è la verifica analitica delle giustificazioni addotte dal contribuente circa l’irrilevanza fiscale delle operazioni bancarie oggetto di accertamento, anche alla luce della ricordata diversa incidenza, quanto ai prelevamenti, dell’attività svolta dal contribuente nell’applicazione della presunzione in parola (cfr., Corte Cost., sentenza n. 228 del 2014).
In effetti, i giudici di secondo grado, pur dando atto dell’esistenza delle giustificazioni addotte dal contribuente (v. sentenza: «tutte le movimentazioni acquisite agli atti erano di completa tracciabilità ragione per la quale l’Ufficio era in grado di stabilite quali dei proventi erano attribuibili ai compensi dell’attività professionale e quali ai ricavi dell’attività imprenditoriale») non hanno assolto al loro speculare dovere di specificare di quali giustificazioni si trattava, di esaminare i dati e gli elementi risultanti dall’accertamento fiscale sui conti predetti e, conseguentemente, di valutare la prova contraria, rispetto a ciascuno di tali dati, offerta dal contribuente e, conseguentemente, di valutare il superamento della presunzione di cui all’art. 32 d.P.R. cit.
8. In conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che statuirà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
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