CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 maggio 2021, n. 14755

Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico – Redditometro – Beni indice di maggiore capacità contributiva – Allegazione di prove contrarie – Esame analitico da parte dell’organo giudicante

Rilevato

Il contribuente esercitava attività di acconciatore per signora in Arese ed era attinto da distinti avvisi di accertamento in forma sintetica sulla base di indici di capacità contributiva (“redditometro”) con cui veniva rideterminato il suo reddito per gli anni di imposta 2002 e 2004. In sede di confronto endoprocedimentale, che non sfociava comunque in accertamento con adesione, l’Ufficio riduceva in autotutela la duplice pretesa erariale, riversando il risultato in due nuovi provvedimenti impositivi per un importo minore di circa un 1/6 su ciascun anno.

Il contribuente avversava gli atti con ragioni apprezzate in entrambi i gradi di merito.

Ricorre per cassazione l’Ufficio affidandosi a due motivi di doglianza, cui replica la parte contribuente con tempestivo controricorso.

In prossimità dell’udienza la parte privata ha depositato memoria.

Considerato

Vengono proposti due motivi di ricorso.

0) Occorre preliminarmente esaminare la censura di inammissibilità del ricorso erariale per carenza di autosufficienza, sollevata dalla parte contribuente.

La questione è stata affrontata più volte da questa Corte di legittimità, ma giova riprenderne le fila per ribadire alcuni punti fermi acquisiti nella questione. Ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366, comma 1, n. 3) e 4), c.p.c., il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, dovendo il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; l’inosservanza di tale dovere […] pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui (cfr. Cass. V, n. 8425/2020).

Il ricorso erariale assolve agli oneri di cui sopra e può dunque essere scrutinato.

1) Con il primo si protesta violazione di cui all’art. 360 n. 4 c.p.c. per motivazione meramente apparente, in contrasto con l’art. 132 c.p.c. e 36 d.lgs. n. 546/1992. Nella sostanza, la difesa pubblica lamenta che non vi sia reale motivazione, quanto piuttosto una sequenza di osservazioni tautologiche in cui non si estrinseca alcun ragionamento percettibile o comunque verificabile.

Deve premettersi che è ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (Cass. VI – 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014, seguita da Cass. VI – 5, n. 5209/2018).

In termini si veda anche quanto stabilito in altro caso (Cass. Sez. L, Sentenza n. 161 del 08/01/2009) nel quale questa Corte ha ritenuto che la sentenza è nulla ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., ove risulti del tutto priva dell’esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (cfr., recentemente, Cass V, n. 24313/2018).

Ora, la sentenza è un unicum in cui parte espositiva e parte motiva si sostengono l’una con l’altra, per cui le affermazioni della seconda debbono essere lette nella loro interezza e poste in relazione con la ricostruzione dei fatti, in uno con i principi enunciati. Nel caso in esame, le espressioni censurate dal patrono erariale in ordine alla mancata considerazione da parte dell’Ufficio di alcuni elementi offerti in prova dal contribuente si iscrive nel più ampio ragionamento circa le condizioni per cui possa ritenersi operate ai fini probatori (relativi) il meccanismo del redditometro, espressi nei paragrafi precedenti.

Il motivo è pertanto infondato e va disatteso.

2) Con il secondo motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 3 c.p.c., per violazione dell’art. 38 d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 2697 c.c., nella sostanza affermandosi che la norma tributaria richiede all’Ufficio solo la verifica della sussistenza di determinati beni – indice, tali costituendo presunzione di maggior ricchezza che dev’essere superata con apporto probatorio a carico del contribuente, secondo il riparto degli oneri di allegazione previsti (tra gli altri) dal denunciato art. 2697 c.c., che la gravata sentenza avrebbe disatteso.

Questa Corte è già intervenuta più volte, affermando che nel contenzioso tributario conseguente ad accertamenti sintetici-induttivi mediante c.d. “redditometro”, per la determinazione dell’obbligazione fiscale del soggetto passivo d’imposta costituisce principio a tutela della parità delle parti e del regolare contraddittorio processuale quello secondo cui all’inversione dell’onere della prova, che impone al contribuente l’allegazione di prove contrarie a dimostrazione dell’inesistenza del maggior reddito attribuito dall’Ufficio, deve seguire, ove a quell’onere abbia adempiuto, un esame analitico da parte dell’organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi di ogni riferimento alla massa documentale entrata nel processo relativa agli indici di spesa (cfr. Cass. V, n. 21700/2020). Nello specifico, la commissione territoriale ha esaminato i singoli documenti offerti in prova dal contribuente, dopo aver verificato l’esatta “taratura” dello strumento “redditometro”: nel particolare, la piena o parziale proprietà/disponibilità dei diversi beni-indice verso il contribuente (pag. 4, secondo e terzo capoverso, gravata sentenza), per poi svolgere le dovute considerazioni sulle risultanze documentali (pag. 5 gravata sentenza) con un apprezzamento nel bilanciamento del materiale probatorio che esula dal sindacato di legittimità di questa Suprema Corte.

Il motivo è pertanto infondato e va disatteso.

In definitiva il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, condanna l’Agenzia alla rifusione delle spese di lite in favore della parte contribuente che liquida in € tremilasettecento/00, oltre €.200,00 per esborsi, rimborso nella misura forfettaria del 15%, oltre ad Iva e cpa, come per legge.