CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 maggio 2022, n. 17288
Licenziamento disciplinare – Cassiere – Appropriazione di beni aziendali sul luogo di lavoro – Non proporzionalità della sanzione espulsiva – Indennità risarcitoria – Sussistenza di aliunde perceputm – Carenza di prova
Rilevato che
1. con sentenza n. 83/2019 la Corte d’appello di Catania ha respinto il gravame di R. A. s.p.a. avverso la sentenza di primo grado che aveva accertato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato, con lettera del 14.6.2011, a L. C.M. e di condanna della società datrice di lavoro alla reintegra nel posto di lavoro con le mansioni di cassiere IV livello c.c.n.l. applicabile;
2. la Corte di merito ha confermato la valutazione di non proporzionalità della sanzione in relazione al fatto oggetto di addebito, rappresentato dall’avere il dipendente prelevato uno snack dall’espositore adiacente alla cassa ove operava e di averlo mangiato, senza pagare il corrispettivo di € 0,70, ed ai due precedenti disciplinari richiamati nella lettera di contestazione. Il giudice di appello, premesso che nella verifica della giusta causa occorreva avere riguardo non all’assenza o speciale esiguità del danno arrecato al datore di lavoro ma alla qualità del singolo rapporto intercorso ed al grado di affidamento che quel rapporto implicava verificando se la mancanza ascritta, anche nella sua portata soggettiva era idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro, ha fondato la valutazione di non proporzionalità della sanzione espulsiva osservando che: a) dalla dinamica dei fatti, come riportata nella lettera di contestazione, non emergeva alcuna cautela frodatoria da parte del lavoratore il quale in modo visibile e senza allontanarsi dalla sua postazione lavorativa non aveva posto in essere alcun particolare accorgimento atto ad occultare il suo gesto tant’è che era stato prontamente ripreso dal responsabile; b) non era riscontrabile alcuna particolare ostinazione da parte del lavoratore nella negazione del fatto, posto che questi si era limitato, in sede di giustificazione, a dichiarare di «non ricordare» l’episodio ammettendo già nella lettera di impugnativa l’eventualità dell’addebito, imputato a leggerezza ed al suo bisogno continuo di assumere sostanze zuccherine perché soggetto a frequenti crisi ipoglicemiche; c) la preordinazione funzionale dell’azione di impossessamento era destinata al soddisfacimento di un consumo immediato e limitato; d) i precedenti disciplinari afferivano a condotte tra loro eterogenee, scarsamente rappresentative, a prescindere dalla sanzione in concreto irrogata, di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti, ed erano dunque insuscettibili di assurgere ad indici sintomatici della pervicacia del lavoratore nell’ignorare i suoi doveri fondamentali. La Corte ha inoltre respinto la eccezione di aliunde perceptum in difetto della relativa prova della quale era onerata la parte datoriale;
3. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso R. A. s.p.a. in liquidazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 380 bis .1. cod. proc. civ.; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione dell’art. 229 c.c.n.l. commercio in relazione all’art. 30 I. n. 183/2010 e agli artt. 2106 e 2019 cod. civ., censurando la mancata sussunzione della fattispecie accertata nella previsione collettiva che sanzionava l’appropriazione di beni aziendali sul luogo di lavoro con la sanzione espulsiva;
2. con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 229 del c.c.n.l. commercio del 18.7.2008 in relazione all’art. 7 I. n. 30071970 e agli artt. 2106 e 2019 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per avere svalutato la condotta pregressa dei dipendente in relazione ai due precedenti disciplinari contestati senza considerare gli stessi nell’ottica della futura inaffidabilità del M. nell’adempimento della prestazione lavorativa;
3. con il terzo motivo di ricorso deduce violazione degli artt. 1227, comma 2, 2727, 2728, 2729 e 2697 cod. civ. nonché dell’ art. 18 I. n. 300/1970, censurando la sentenza impugnata per avere respinto l’eccezione di aliunde perceptum ; sostiene che essendo la reintegra intervenuta decorsi sei anni dal licenziamento era presumibile che il lavoratore, utilizzando la normale diligenza, avrebbe potuto reperire un’altra occupazione;
4. il primo motivo di ricorso è infondato. Occorre premettere che nell’ambito dei rapporti tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento di licenziamenti ontologicamente disciplinari la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude che le previsioni collettive si configurino quale fonte vincolante in senso sfavorevole al dipendente; la esistenza di una nozione legale di giusta causa (e di giustificato motivo soggettivo) comporta che il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta rientri nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, attività da svolgere avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, in relazione alla quale la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei possibili parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 cod. civ. (Cass. n. 33811/2021, Cass. n. 17321/2020; Cass. 16784/2020). In questa prospettiva è stata ritenuta insufficiente l’indagine limitata alla verifica della riconducibilità del fatto addebitato alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. n. 13411/2020). Le previsioni dei contratti collettivi hanno, infatti, valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite, nello specifico insussistente, che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (Cass. n. 19023/2019);
4.1. in continuità con il condivisibile indirizzo giurisprudenziale richiamato deve quindi escludersi che configuri un errore di diritto, della sentenza impugnata, per come concretamente denunziato in ricorso, la mancata riconducibilità della concreta fattispecie all’ipotesi di furto , punita con sanzione espulsiva dalla norma collettiva;
4.2. né il preteso errore di diritto ascritto al giudice di merito potrebbe rilevare, come sembra prospettare parte ricorrente, sotto il profilo della mancata valorizzazione delle previsioni collettive quale standards sociale di riferimento alla cui stregua operare l’integrazione della clausola generale della ” giusta causa” ; invero, a prescindere dalla assoluta genericità della censura, formulata in termini apodittici senza argomentazioni illustrative, occorre considerare che la Corte di merito ha ampiamente motivato in ordine alle concrete circostanze di fatto che deponevano per un complessivo “ridimensionamento” dell’episodio ed in particolare per una prognosi favorevole circa il futuro corretto adempimento da parte del dipendente degli obblighi scaturenti dal rapporto di lavoro; tale apprezzamento di fatto ed il conseguente giudizio di proporzionalità potevano essere censurati in sede di legittimità solo ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (v. tra le altre, Cass. 25/05/2012, n. 8293; Cass. 19/10/2007, n. 21965) e quindi, trovando applicazione, ratione temporis, il testo attualmente vigente dell’art. 360 comma primo, n. 5 cod. proc. civ., solo mediante la denunzia dell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, neppure formalmente dedotto dalla società ricorrente;
5. il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto le censure articolate tendono ad una rivisitazione dell’apprezzamento delle concrete circostanze di fatto con riferimento alla recidiva e quindi investono la valutazione di proporzionalità riservata al giudice di merito, la quale, secondo quanto già sopra rappresentato ( v. paragrafo 4. 3) è censurabile in sede di legittimità, solo per vizio di motivazione ,neppure formalmente dedotto dalla odierna ricorrente, con il limite della preclusione derivante ai sensi dell’art. 348 ter ultimo comma cod. proc. civ. dalla esistenza di cd ” doppia conforme”;
6. il terzo motivo di ricorso è inammissibile per ragioni analoghe a quelle alla base della statuizione di inammissibilità del secondo motivo; le censure in concreto formulate non sono incentrate, infatti, sul significato e sulla portata applicativa delle norme delle quali è denunziata violazione e falsa applicazione ma sul concreto accertamento operato dal giudice di merito circa la carenza di prova della esistenza di aliunde perceputm (e percipiendum) da detrarre, in conformità degli ordinari criteri, dall’indennità risarcitoria;
6.1. il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che quest’ultima censura e non la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (v. fra le altre, Cass. n. 14468/2015 );
7. al rigetto del ricorso segue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza;
8. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’art.13 d. P.R. n. 115/2002 (Cass. Sez. Un. n. 23535/2019)
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.