CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 novembre 2018, n. 30692
Contratto di lavoro a tempo determinato – Nullità del termine – Prosecuzione dopo la scadenza del termine inizialmente fissato
Rilevato che
il Tribunale di Milano, con sentenza nr. 1162 del 2012, rigettava il ricorso proposto da G.R. diretto ad accertare la nullità del termine apposto al contratto stipulato ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. nr. 360 del 2001, in data 18.7.2012 (scadenza al 31.10.2012 e prorogato fino al 28.11.2012), in accoglimento dell’eccezione di decadenza di cui all’art. 32 della legge nr. 183 del 2010; la Corte di Appello di Milano, investita con gravame dal lavoratore, con sentenza nr. 1250 del 2015, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava, invece, la «nullità dell’apposizione del termine», con ogni consequenziale statuizione anche risarcitoria;
ha proposto ricorso per cassazione A.-C. S.p.A. (ora in amministrazione controllata), illustrato con memoria, affidato a tre motivi; ha resistito il lavoratore con controricorso;
Considerato che
con il primo motivo, la società deduce – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod. proc.civ. – violazione e falsa applicazione della legge nr. 183 del 2010 nonché degli artt. 4 e 5 del D.Igs. nr. 368 del 2001 e dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale (la censura riguarda la statuizione di rigetto dell’eccezione di decadenza, avendo la Corte di Appello fissato il dies a quo di decorrenza del relativo termine al momento di cessazione del rapporto (28.11.2012) e non di scadenza del termine come inizialmente apposto al contratto di lavoro (31.10.2012);
il motivo è infondato;
sono pacifiche le seguenti circostanze di fatto: il contratto di lavoro stipulato il 18.7.2012 stabiliva la durata iniziale dall’1.8.2012 al 31.10.2012; il rapporto è, poi, continuato, ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. nr. 368 del 2001, fino al 28.11.2012; il lavoratore ha impugnato, con lettera del 14.1.2013, il contratto di lavoro;
come è noto, la legge nr. 183 del 2010 ha assoggettato all’obbligo di impugnazione ed ai termini di decadenza di cui alla legge nr. 604 del 1966, art. 6, commi 1 e 2, contestualmente modificati, una serie di ipotesi e, tra queste, i contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi del D.Lgs. nr. 368 del 2001 e successive modificazioni;
in particolare, nella formulazione applicabile alla fattispecie di causa, l’art. 32 ha così stabilito:
– comma 3: « Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre:
a) […] alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni.
Laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato in centoventi giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni (…);
– comma 4: « Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:
a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine;
b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge […];
deve, anche, rammentarsi che, in base all’art. 5 cit. (rubricato «Scadenza del termine e sanzioni […]») ratione temporis applicabile, qualora il rapporto di lavoro «continua» dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell’articolo 4, (ma non oltre il trentesimo giorno, in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, pena la conversione in contratto a tempo indeterminato) il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione; nella fattispecie, si è avuto che il rapporto di lavoro con scadenza al 31.10.2012, è, invece, proseguito fino al 28.11.2012 (senza ricadute, per quanto innanzi, in termini di conversione ma solo di maggiore retribuzione);
dunque, l’originario termine, invece che il 31.10.2012, è venuto a scadere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 5 cit, il 28.11.2012;
correttamente, la Corte di Appello ha fatto riferimento a tale, ultima data per delibare in merito all’eccezione di decadenza sollevata dalla parte datoriale e giudicato tempestiva l’impugnazione del 14.1.2013;
con il secondo motivo, è dedotta – ai sensi dell’art. 360 nr. 4 cod.proc.civ. – nullità della sentenza per violazione degli artt. 99 e 112 cod.proc.civ. nonché – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 32, commi 1, 2, 3, e 4 della legge n. 183 del 2010 nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del D.Igs nr. 368 del 2001 (la parte ricorrente assume che i giudici di merito avrebbero pronunciato oltre i limiti della domanda, statuendo in merito alla prosecuzione del contratto, dopo la scadenza del termine originariamente fissato;
secondo la società, la Corte di appello non avrebbe potuto tener conto di detto periodo, a nessun effetto, neppure per pronunciare in merito all’eccezione di decadenza);
il motivo si arresta ad un rilievo di inammissibilità, per difetto di specificità, non avendo la parte ricorrente trascritto l’atto introduttivo del giudizio;
se è vero, infatti, che la Corte di Cassazione, allorquando sia denunciato un vizio per «errores in procedendo» è anche giudice del fatto ed ha il «potere-dovere» di esaminare direttamente gli atti di causa, è anche vero che, per il sorgere di tale «potere-dovere» è necessario che la parte ricorrente indichi puntualmente gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» di cui richiede il riesame e, quindi, è indispensabile che la censura presenti tutti i requisiti di ammissibilità e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (ex plurimis, Cass., sez. un., nr. 8077 del 2012; Cass. nr. 896 del 2014);
con il terzo motivo, è dedotta nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. nr. 368 del 2001 nonché dell’art. 2697 cod.civ. e degli artt. 115, 116, 421 e 437 (la censura riguarda la statuizione di genericità dei capitoli di prova sul rispetto della percentuale dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, la mancata ammissione della prova testimoniale e l’omessa attivazione dei poteri di ufficio);
il motivo è inammissibile;
la censura concernente il mancato esercizio dei poteri ufficiosi ex artt. 421 e 437 cod.proc.civ. non è adeguatamente illustrata; difetta, in ricorso, l’indicazione di una specifica istanza, in tal senso formulata alla Corte di appello, con la specifica indicazione dei mezzi istruttori richiesti (cfr., ex plurimis, Cass., nr. 17704 del 2015; nr. 22534 del 2014; nr. 6023 del 2009); al riguardo, la società ricorrente si è limitata a deduzioni generiche (pagg. 23 e 24 ricorso), non idonee a consentire alla Corte di valutare la fondatezza della denunciata omissione;
la questione di violazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. o dell’art. 2697 cod. civ. non può porsi nei termini indicati dalla ricorrente, ma solo allorché si alleghi che il giudice di merito: a) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposto di ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; b) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; c) abbia invertito gli oneri probatori; all’evidenza, nessuna di queste ipotesi è illustrata nel motivo qui scrutinato;
in realtà, la deduzione delle violazioni di legge contenuta nella rubrica del motivo scherma in realtà deduzione di vizi di motivazione; il giudizio reso in merito alla rilevanza dei mezzi di prova costituisce giudizio di fatto, inerendo ai fatti da provare in causa, sindacabile davanti a questa Corte nei limiti dell’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ. (Cass. sez. un. nr . 8078 del 2012) tempo per tempo vigente; seppure esattamente riqualificate, le censure non superano il rilievo di inammissibilità, giacché non indicano il fatto decisivo ed oggetto di discussione tra le parti non esaminato nella sentenza impugnata;
le spese seguono la soccombenza;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. nr. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
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