CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 novembre 2019, n. 31004
Rapporto di agenzia – Giusta causa di recesso – Grave negligenza – Attività istruttoria – Documentazione relativa ai rapporti con la clientela – Mancato invio
Rilevato che
Il Tribunale di Roma respingeva le domande proposte da A. A. nei confronti della Banca M., intese a conseguire pronuncia dichiarativa della insussistenza di una giusta causa di recesso dal rapporto di agenzia posto in essere dalla preponente, e di condanna di quest’ultima alla corresponsione di una serie di indennità connesse alla risoluzione del rapporto (indennità di risoluzione e suppletiva di clientela, importo dovuto a titolo di goodwill)-, respingeva altresì la domanda di accertamento di simulazione parziale del contratto di franchising e l’opposizione ai decreti ingiuntivi concernenti crediti azionati dalla Banca, condannando il ricorrente alla rifusione delle spese di lite.
La Corte distrettuale, con sentenza resa pubblica il 26/5/2015, in parziale accoglimento dell’appello spiegato dall’A., procedeva alla rideterminazione delle spese liquidate in prime cure, conformandole ai valori tariffari, e condannava il ricorrente alla rifusione delle spese inerenti al giudizio di gravame.
Avverso tale decisione A. A. interpone ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria, ai quali oppone difese l’istituto intimato.
Considerato che
1. Deve esaminarsi l’eccezione pregiudiziale di rito formulata dall’A. in sede di memoria ex art.380 bis c.p.c. – proponibile con tale atto perché rilevabile d’ufficio – con la quale è stata sollevata questione di inammissibilità del controricorso ex art.366 comma 2 c.p.c., in ragione della omessa notifica presso l’indirizzo di posta elettronica, indicato in ricorso per tutte le comunicazioni e notificazioni inerenti al giudizio di legittimità.
In difformità dalle prescrizioni del codice di rito, il controricorso risultava, infatti, notificato sia presso il domicilio del ricorrente eletto in Milano, Piazzetta Guastalla n.ll, presso lo studio degli avv.ti Paolo Nodari e Grisante Dioferri, sia presso la cancelleria della Corte di Cassazione.
1.1. L’eccezione è infondata.
Premesso che nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art.366 comma 2 c.p.c. come novellato dalla legge 12 novembre 2011 n.183, la notifica del controricorso al difensore che non abbia eletto domicilio in Roma deve essere effettuata, a pena di nullità, all’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato all’ordine professionale ed indicato in ricorso, resta fermo il principio che, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo (vedi Cass. 18/6/2014 n.13857).
Ed è questa l’ipotesi verificatasi nella fattispecie, in cui la nullità della notifica – che non era stata effettuata presso l’indirizzo di posta elettronica specificamente indicato nella intestazione del presente ricorso – deve ritenersi sanata, per essere stata tempestivamente indirizzata anche allo studio del difensore del ricorrente sito in Milano, ove nel ricorso era stato eletto il domicilio, ed in cui è stata regolarmente ricevuta.
Il risultato dell’effettiva conoscenza dell’atto che consegue alla consegna dello stesso nel luogo espressamente a tale fine indicato dalla parte nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, determina infatti il raggiungimento dello stesso scopo perseguito dalla previsione dell’utilizzo della PEC.
La notifica del controricorso è dunque, immune dalle censure formulate, rinvenendo applicazione l’insegnamento, condiviso e consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio, sancito in via generale dall’art. 156 c.p.c., comma 3 – secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato – vale anche per le notificazioni, in relazione alle quali la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario” (vedi Cass. 27/01/2001 n. 1184, Cass.5/2/2002 n.1548).
2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1751 c.c. e 2119 c.c. nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, perplessità, illogicità contraddittorietà della motivazione ex art.360 comma primo nn. 3 e 5 c.p.c.
Si criticano gli approdi ai quali è pervenuto il giudice del gravame in tema di accertamento della giusta causa di recesso che, mutuato dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, va tuttavia declinato tenendo conto della specificità del rapporto di agenzia, sicché si può configurare una possibilità di risoluzione del contratto per tale ragione, solo in presenza di violazione di doveri fondamentali dell’agente.
Si ritiene, in proposito, non corretta la ricostruzione della vicenda disposta dal giudice del gravame il quale ha ritenuto che, all’esito dell’ispezione disposta presso gli uffici del ricorrente nel 2001 e dopo la lettera di contestazione dell’istituto del 29/5/2002, l’agente, promotore finanziario, non aveva ottemperato alla richiesta di invio alla Banca di documentazione attinente ai rapporti con la clientela, onde consentire la verifica della regolarità della attività svolta, e che tale comportamento inadempiente integrava i presupposti della giusta causa di recesso. La gravità dell’inadempimento era configurabile anche tenuto conto del successivo invio alla CONSOB dei dati richiesti, che aveva indotto l’ente alla archiviazione del caso, atteso che l’agente avrebbe potuto ottemperare agli obblighi su di lui gravanti anche nei confronti della preponente.
Si osserva, per contro, che la lettera del 29/5/2002 non recava alcuna contestazione di addebiti, ma un vero e proprio atto di recesso, intervenuto, peraltro, a distanza di oltre un anno dalla ipotetica ispezione e come tale da ritenersi tardivo; nell’ottica descritta, e tali essendo le modalità di risoluzione del rapporto, non sussisteva alcun obbligo di invio di tutta la documentazione richiesta (al di là di quella ritenuta insufficiente dalla Banca), in base al principio inadimplenti non est adimplendum.
2. Il motivo non è ammissibile per le ragioni di seguito esposte.
Non può tralasciarsi di considerare che le censure sollevate con riferimento alla tardività della contestazione degli addebiti, non trovano riscontro nell’iter motivazionale che sorregge la sentenza impugnata, in cui non si ravvisa alcun riferimento alla questione in questa sede sollevata dal ricorrente.
In tal senso rinviene applicazione il principio affermato da questa Corte secondo cui, ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (vedi ex plurimis, Cass. 24/1/2019 n.2038, Cass. 12/6/2018 n. 15196); ciò in quanto i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (cfr. Cass. 9/8/2018 n.20694).
Nello specifico il ricorrente ha omesso di ottemperare alle ricordate prescrizioni, non indicando mediante riproduzione della relativa deduzione, se e come abbia rappresentato, innanzi ai giudici di merito, i fatti, come in precedenza esposti, che, ai fini dallo stesso desiderati, la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare.
3. Peraltro, il motivo neanche reca una riproduzione del tenore della documentazione al quale fa riferimento (lettera 29/5/2002), in violazione del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione deve infatti contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi o ad atti attinenti al pregresso giudizio di merito.
I requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono infatti essere assolti necessariamente con il ricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso (cfr. Cass. 13/11/2018 n.29093).
4. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt.1751 c.c. e 2119 c.c. nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, perplessità, illogicità contraddittorietà della motivazione ex art.360 comma primo nn. 3 e 5 c.p.c.
Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno ritenuto che l’archiviazione da parte della CONSOB, del procedimento aperto nei confronti dell’A. a seguito dell’esposto promosso dalla Banca, non costituisse elemento idoneo a comprovare la diligenza nell’esecuzione del contratto di lavoro da parte dell’agente.
Si deduce che il comportamento assunto nei confronti della mandante era da reputare improntato a canoni di correttezza e buona fede, non avendo inviato integralmente la produzione documentale richiesta perché la società ne era in possesso, e comunque perché era facilmente reperibile.
5. Anche detto motivo va disatteso, in quanto tende ad ottenere una rivisitazione del convincimento al quale è pervenuto il giudice di merito in ordine alla vicenda che ha condotto al recesso della Banca dal rapporto di lavoro inter partes, che è inammissibile nella presente sede.
Ed invero, il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, è inammissibile (vedi Cass. 4/4/2017 n.8758), perché una simile richiesta è esterna all’esatta interpretazione della norma ed è invece inerente alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 11/1/2016 n.195), la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo entro gli stringenti limiti sanciti dal novellato disposto di cui al n.5 del comma primo art. 360 c.p.c. nella rigorosa interpretazione resa dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. 7/4/2014 n.8053).
Nello specifico, la pronuncia impugnata si sottrae alle formulate critiche avendo – con statuizione non rispondente alla assoluta omissione o ad irredimibile contraddittorietà della motivazione – argomentato in ordine alla grave negligenza che connotava il comportamento assunto dall’agente il quale, come emerso dalla espletata attività istruttoria, non aveva tempestivamente messo a disposizione della preponente la documentazione relativa ai rapporti con la clientela, in spregio delle “disposizioni normative e regolamentari vigenti in materia di offerta fuori sede”, richiamate.
Il mancato invio della documentazione richiesta dall’Istituto, unitamente all’omessa comunicazione della relazione di cui all’art.8 c.9 del contratto, andavano a definire una chiara violazione dell’obbligo di cooperazione gravante sull’agente, come ritiene la Corte territoriale, che non poteva ritenersi attenuata dal successivo invio della documentazione stessa alla CONSOB, ed andava a configurare una giusta causa di recesso da parte della società preponente; e questa statuizione, per quanto sinora detto, resiste alle censure all’esame.
6. Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt.91 e 92 c.p.c. ex art.360 comma primo n. 3 c.p.c..
Si critica il governo delle spese disposto dal giudice del gravame che ha applicato il principio della soccombenza nonostante il parziale accoglimento delle censure.
7. Il motivo è inammissibile.
In materia di spese processuali, l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. Cass. 16/6/2011 n.13229).
La statuizione della Corte distrettuale in tema, si muove entro l’ambito di discrezionalità ad essa assegnato dalle disposizioni di cui agli artt.91-92 c.p.c. laddove ha ritenuto che il limitato accoglimento della censura relativa alla quantificazione delle spese non integrasse una ipotesi di compensazione di quelle inerenti al giudizio di appello.
In definitiva, alla stregua delle sinora esposte considerazioni, deve dichiararsi l’inammissibilità del presente ricorso.
La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’arti co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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