CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2021, n. 30329

Dirigente Inps – Domanda di pensione – Omessa indicazione dell’esistenza di un rapporto di collaborazione ancora in corso

Rilevato che

la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha condannato G.M., ex dirigente dell’INPS, a restituire a titolo di indebito, i ratei della pensione di anzianità erogatigli dall’1.02.2002 al 26.05.2007, per il valore complessivo di Euro 560.366,92, non essendosi, alla data di cessazione del rapporto di lavoro con l’INPS (31.1.2002), verificata nessuna soluzione di continuità con l’attività lavorativa, in ragione dello svolgimento, da parte dello stesso M., di una collaborazione resa in favore dell’ENPAIA tra l’1.10.2001 e il 30.05.2006;

la Corte territoriale ha accertato che nella domanda di pensione, presentata all’INPS il 24.01.2002, l’interessato aveva omesso di indicare, nel Quadro E, al punto riguardante “notizie sulla situazione assicurativa”, l’esistenza di un rapporto di collaborazione ancora in corso con l’ENPAIA;

l’omessa segnalazione da parte del dirigente dello svolgimento di un’attività lavorativa alla data della formulazione dell’istanza, è stata ritenuta integrare gli estremi del consilium fraudis, e, il silenzio circa l’esistenza di una prestazione ancora in corso è stato reputato un indice rilevante della consapevolezza, da parte dell’interessato, di non aver maturato il diritto ad ottenere la prestazione pensionistica richiesta;

richiamato il principio dell’incumulabilità tra pensione di anzianità e retribuzione, sancito per i pubblici dipendenti (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001), ed indicati i requisiti necessari, alla data di presentazione della domanda, per ottenere la pensione (art. 22, co.l lett. c L. n. 153 del 1969) – intendendosi per tali il raggiungimento dell’anzianità contributiva e la cessazione del rapporto di lavoro – la Corte d’appello ha stabilito, in assenza del secondo dei predetti requisiti, l’obbligo in capo al M. di ripetere all’istituto quanto percepito indebitamente a titolo di pensione d’anzianità, a far data dalla cessazione del rapporto di lavoro e fino a quando, maturati ulteriori contributi presso l’ENPAIA, aveva presentato domanda di pensione suppletiva;

la Corte d’appello ha, inoltre, stabilito che lo stesso M. non era tenuto a restituire all’INPS i ratei della pensione di anzianità – pure indebitamente percepiti – per il complessivo ammontare di Euro 467.041,07, per il periodo successivo al 26.5.2007, avendo accertato che, in quel caso, il pensionato aveva provveduto a indicare tutte le circostanze che avrebbero agevolmente consentito all’INPS di rilevare, secondo il criterio dell’ordinaria diligenza, che il rapporto di lavoro con l’ENPAIA era proseguito senza soluzione di continuità;

in altri termini, secondo la Corte territoriale, la comunicazione dei dati utili a rilevare l’indebito da parte dell’INPS, contenuti nell’istanza per l’ottenimento della pensione suppletiva avrebbe scongiurato il rilievo causale del comportamento doloso ai fini dell’obbligo di ripetere quanto indebitamente percepito a titolo pensionistico, essendo, la domanda dell’interessato, idonea a sollecitare gli specifici poteri di verifica e controllo da parte dell’Istituto;

la cassazione della sentenza è domandata dall’INPS sulla base di un unico motivo;

G.M. ha depositato tempestivo controricorso e altresì ricorso incidentale affidato a tre motivi, cui l’INPS ha resistito con controricorso;

il PG ha proposto il rigetto del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale.

Considerato che

Ricorso principale:

con l’unico motivo, formulato sulla base dell’art. 360, co.l, n. 3 cod. proc. civ., l’INPS contesta “Violazione degli articoli 10 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 e 13 della Legge 30 dicembre 1991, n. 412”; afferma che, costituendo l’art. 10 in epigrafe una norma speciale prevista per i dipendenti pubblici, non sussisterebbero margini per l’applicazione alla fattispecie delle norme e dei principi affermati in materia di recupero dell’indebito pensionistico; nel caso in esame non si tratterebbe di correggere un errore insito nel provvedimento di attribuzione della pensione imputabile all’ente gestore, bensì di far valere la regola dell’incumulabilità della pensione di anzianità con i redditi da lavoro; conclude perché venga applicato al caso in esame il principio di incompatibilità tra pensione e retribuzione con restituzione dei ratei di pensione maturati dal M. dal 26 maggio 2007 al 30 novembre 2011, periodo in cui lo stesso ancora prestava la propria attività lavorativa presso l’ENPAIA.

Ricorso incidentale:

col primo motivo, formulato sulla base dell’art. 360, co.l, n. 5 e n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente incidentale denuncia ” Omesso esame di un fatto decisivo. Violazione dell’art. 13 legge n.412/1991″;

la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare elementi istruttori, quali: la sentenza della Corte dei Conti che in sede di accertamento del danno erariale aveva escluso l’ipotizzata responsabilità amministrativo – contabile proprio per difetto dell’elemento psicologico; ovvero le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza dal sig. B.L., direttore sede Inps T. circa le date di concomitanza dei due rapporti, infine la domanda di pensione del 2002, da cui sarebbe derivato che egli non aveva dichiarato il falso, ma che era la stessa modulistica a non prevedere la specifica di quanto successivamente contestatogli;

col secondo motivo, formulato sulla base dell’art. 360, co.l, n. 5 e n. 3 cod. proc. civ., lamenta ” …segue. Omesso esame di un fatto decisivo. Violazione dell’art. 13, co.2 I. 412/1991″; contesta la statuizione contenuta nella sentenza impugnata che ha fissato la decorrenza dell’irripetibilità dei ratei dall’anno successivo alla presentazione della domanda di pensione suppletiva, così come stabilito dal provvedimento gravato, ribadendo, in primis, l’ingiustificatezza della condanna a ripetere quanto percepito ab origine, in assenza di dolo, in base ai principi generali, e che, pur volendo seguire l’iter argomentativo della decisione, l’irripetibilità di quanto indebitamente percepito avrebbe dovuto essere sancita non dal 2007, ma dal 2006, data dell’istanza di pensione suppletiva, posto che l’art. 13, co.2, su cui si fonda la statuizione, non contempla lo spatium deliberandi riconosciuto in sentenza;

col terzo motivo, deduce “Violazione di legge – Inapplicabilità al caso di specie dell’art. 22 L.n. 153/1969 applicabilità dell’art. 72 L. n. 388/2000”;

sostiene che alla data della domanda, l’ordinamento aveva introdotto in via generale la possibilità del cumulo dei redditi da lavoro autonomo e da lavoro dipendente.

Esame del ricorso principale:

il motivo è fondato e, dunque, il ricorso principale merita accoglimento; secondo il principio di diritto affermato da questa Corte, al quale s’intende, in questa sede, dare continuità, “Nell’ipotesi di violazione del divieto di cumulo della pensione di anzianità con il reddito da lavoro autonomo, di cui all’art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 503 del 1992, le maggiori somme erogate a titolo di pensione di anzianità, poi risultanti non dovute, sono recuperabili sotto forma di trattenuta sulla stessa pensione, poiché erogazione e trattenuta costituiscono eventi necessari della previsione normativa, che regola modalità e tempi per il completamento della fattispecie a struttura bifasica, senza che sia riscontrabile alcun errore dell’ente previdenziale e l’art. 10 cit. costituisce norma speciale volta a regolare un’ipotesi peculiare d’indebito derivante dall’applicazione del detto divieto. Non trova, pertanto, applicazione la disciplina generale dell’indebito previdenziale di cui all’art. 52, comma 2, della I. n. 88 del 1989, che postula la diversa ipotesi dell’erogazione di un trattamento pensionistico in misura superiore a quella dovuta per errore, di qualsiasi natura, imputabile all’ente previdenziale” (cfr. Corte Cass. n. 1170 del 2018; Cass. n. 10634 del 2003);

il principio sopra richiamato si attaglia pienamente al caso in esame, ove non entra in gioco la disciplina dell’indebito previdenziale, nelle sue varie evoluzioni e declinazioni; nel caso che ci occupa, l’obbligo in capo all’INPS di procedere alle trattenute sulla pensione indebitamente percepita risulta generato dalla violazione, da parte dell’odierno controricorrente, dell’obbligo di cui all’art. 10, co.6 del D.lgs. n.503 del 1992, il quale, sancisce a carico dei pubblici dipendenti il divieto di cumulo della pensione di anzianità con il reddito da lavoro autonomo;

l’erogazione delle maggiori somme a titolo di pensione di anzianità, poi risultate non dovute, e costituenti oggetto di trattenuta, non è in conclusione attribuibile ad un errore imputabile all’Istituto, ma discende in via diretta ed immediata dalla violazione, da parte del dipendente pubblico, di una norma di legge che dispone il divieto di cumulo, disposta anche in funzione dell’esigenza di controllo della spesa pubblica;

pertanto, come risulta dagli atti di causa, G.M. ha percepito indebitamente la pensione di anzianità dal 2002 al 2011 senza che si fosse mai realizzata nessuna soluzione di continuità – richiesta quale requisito essenziale ai fini dell’erogazione della pensione di anzianità – tra l’attività prestata quale dirigente presso l’INPS, e l’attività di collaborazione con l’ENPAIA;

sotto tale profilo, a nulla rileva, nel caso in esame, l’accertamento circa la qualificazione quale doloso o meno del comportamento del beneficiario, che pure la Corte territoriale ha effettuato giungendo a conclusioni differenziate per un primo e per un secondo segmento temporale; quale che sia l’esito di tale accertamento, esso non riveste nessuna incidenza sulla natura e, conseguentemente, sulla misura dell’indebito, derivando, quest’ultimo nel suo complesso, come già detto poc’anzi, dalla violazione dì un obbligo di legge da parte dell’interessato e non già da un errore imputabile all’ente previdenziale.

Esame del ricorso incidentale:

il primo motivo va dichiarato inammissibile;

secondo il pacifico orientamento di questa Corte, l’omesso esame di elementi istruttori non concretizza, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. Un. n. 8053/2014);

la censura è altresì generica, poiché il ricorrente incidentale, in violazione dell’obbligo di specificità del ricorso per cassazione, non ha allegato il modulo di domanda della pensione a cui la censura si riferisce;

quanto al profilo della violazione di legge, la norma richiamata in epigrafe, contenuta nel Collegato alla legge finanziaria, escludeva dall’applicazione della sanatoria legale chi avesse percepito indebitamente somme ponendo in essere un comportamento doloso; tuttavia, la doglianza solo apparentemente configura una violazione di norme di diritto, là dove, in realtà, la stessa appare rivolta a ottenere una rivalutazione della intenzionalità della condotta del ricorrente incidentale, sì come riferita all’omessa comunicazione all’Inps del contemporaneo svolgimento di un’attività lavorativa presso l’ENPAIA, circostanza che, essendo stata già oggetto di puntuale accertamento di fatto da parte della Corte territoriale, è insindacabile in sede di legittimità;

va, pertanto, nel caso in esame, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n.18721 del 2018; Cass. n.8758 del 2017);

il secondo motivo è inammissibile perché l’asserito contrasto tra la ricostruzione del giudice dell’appello e la norma che si pretende violata non è specificamente prospettato, segnatamente per mancata allegazione della domanda di pensione suppletiva;

secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, “In tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), cod.proc.civ., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa” (Così, Sez.Un. n.23745 del 2020);

il terzo motivo è infondato;

la prospettazione non è idonea a contrastare la ratio decidendi contenuta nella sentenza d’appello, la quale ha argomentato che, quale che sia l’ampiezza del regime di liberalizzazione al concorso del reddito da lavoro con la pensione di anzianità prevista dalle leggi succedutesi nel tempo – e pur volendo ritenere che detto regime possa estendersi ai pubblici dipendenti, per i quali, tuttavia, il legislatore ha ribadito il principio dell’incumulabilità (fissato ab initio dal d.P.R. n.758 del 1965, art. 4) – deve ritenersi che il diritto alla pensione di anzianità resti pur sempre subordinato alla cessazione del rapporto di lavoro (art. 10, co.6, d.lgs. n.503 del 1992) e che, pertanto, per avere diritto alla pensione, il beneficiario deve non solo aver maturato l’anzianità contributiva, ma deve altresì aver cessato di prestare attività lavorativa in favore dello stesso o di altro datore di lavoro (cfr. Cass. n. 1170 del 2018; Cass. n. 14417 del 2019);

in conclusione, il fil rouge che lega l’obbligo di ripetizione di tutto quanto percepito da G.M. a titolo di pensione di anzianità in costanza di rapporto di collaborazione con l’ENPAIA, va individuato nella ratio posta a base della norma sul divieto di cumulo, per la quale, soltanto alla cessazione di rapporti dai quali derivi un reddito da lavoro si determina quella “presunzione di bisogno” che fa sorgere il diritto a che vengano garantiti al soggetto i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 co. 2 Cost.);

tale ratio prevale su qualsiasi altra considerazione in diritto, anche su eventuali conclusioni circa i limiti di ammissibilità dell’obbligo di ripetizione in conseguenza dall’accertamento (positivo o negativo) di un intenzionale comportamento dell’interessato diretto ad occultare il mancato verificarsi della soluzione di continuità tra il rapporto cessato, che dà diritto alla pensione di anzianità e la collaborazione lavorativa ancora in svolgimento;

da quanto sopra rilevato deriva, in definitiva, l’accoglimento del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale;

conseguentemente, la sentenza impugnata va cassata in relazione al ricorso accolto e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, la quale deciderà anche in merito alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia la causa a Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che statuirà anche sulle spese c giudizio di legittimità.