CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2022, n. 31856

Lavoro – Collocazione in CIGS – Genericità dei criteri di scelta – Illegittimità – Risarcimento danni

Rilevato che

con la sentenza impugnata è stata confermata la pronuncia del Tribunale di Bari con la quale la “N. S.p.A.” é stata condannata a risarcire i danni patiti da V. I. in misura pari alla differenza tra la retribuzione spettante nel periodo dal marzo 2006 fino al 12 febbraio 2014 ed il trattamento di integrazione salariale percepito, attesa la illegittimità della sospensione e contestuale collocazione in CIGS del lavoratore;

per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la “N. S.p.A.”, affidato a undici motivi;

V. I. ha resistito con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria;

il P.G. non ha formulato richieste.

Considerato che

con il primo motivo la ricorrente – denunciando nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla eccepita violazione da parte del giudice di prime cure del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., nonché mancanza della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ex art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che il giudice di appello non si sia pronunciato sul motivo di gravame incentrato sul rilievo che la sentenza di primo grado fosse entrata nel merito della legittimità dei criteri di cui all’accordo del 10 ottobre 2013 (nonché della relativa proroga) benché nel ricorso introduttivo non vi fosse nessuna specifica censura sulla correttezza/legittimità di detti criteri, in relazione alla posizione soggettiva del lavoratore;

con il secondo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., in relazione all’art. 360, primo comrna, n. 3, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte abbia ritenuto non assoggettati al termine di prescrizione quinquennale il credito del lavoratore e l’azione di annullamento dell’atto di gestione del rapporto;

con il terzo motivo – denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia omesso di considerare che l’inerzia del lavoratore – tradottasi nella mancata assunzione di alcuna iniziativa volta a contestare i provvedimenti datoriali e/o a rivendicare ipotetiche differenze retributive – negli otto di collocazione in CIGS aveva determinato la perdita del diritto;

con il quarto motivo – denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 1219, primo comma, c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto insussistente l’obbligo, per il lavoratore, di costituire in mora il datore di lavoro, mediante una intimazione o richiesta fatta per iscritto;

con il quinto motivo – denunciando nullità della sentenza per motivazione apparente in ordine alle argomentazioni esposte dalla Corte territoriale quanto alla illegittimità della CIGS, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte, dopo aver dato atto del passaggio in giudicato dei capi di sentenza di primo grado relativi alle richieste correlate agli accordi antecedenti a quello del 10 ottobre 2013 per mancanza di impugnativa sul punto, abbia erroneamente assimilato quest’ultimo accordo a quelli precedenti, da un lato obliterando la circostanza che l’accordo in questione prevedeva, a differenza degli altri, i criteri di scelta dell’anzianità di servizio, dei carichi di famiglia e delle esigenze tecnico organizzative e produttive ai fini dell’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS, nonché, dall’altro, omesso di valutare che il citato accordo, sempre a differenza degli altri, non prevedeva un meccanismo di rotazione;

con il sesto motivo – denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 1, comma 7, della l. n. 223 del 1991, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice di appello, nella parte in cui ha affermato che «le parti contrattuali si sono limitate a richiamare i criteri di scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella procedura di licenziamento collettivo di cui all’art. 5 della legge 223.1991»», abbia omesso di considerare che la legge non prevede alcun tipo di sanzione nell’ipotesi di mancata indicazione dei criteri dell’accordo, peraltro non obbligatorio, attenendo la genericità alla comunicazione, però dal lavoratore mai dedotta;

lamenta, poi, che il predetto giudice, nella parte in cui ha affermato che «le parti contrattuali si sono limitate a richiamare i criteri di scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella procedura di licenziamento collettivo di cui all’art. 5 della legge 223.1991», abbia omesso di considerare, da un lato, che la legge non prevede che in sede di accordo debbano essere indicate le concrete modalità applicative dei criteri di scelta e, dall’altro, che la genericità dei criteri deve ritenersi esclusa ove siano richiamati i parametri individuati direttamente dal legislatore (che ha evidentemente ritenuto gli stessi specifici), con la conseguenza che, nel caso – attesa l’assenza di una diversa disposizione dell’accordo -, i criteri in questione dovevano essere applicati in maniera concorrente (incidenza di 1/3 per ogni criterio);

evidenzia, infine, la legittimità delle proroghe della Cassa Integrazione per riorganizzazione aziendale ricomprese fra il 16.10.2013 ed il 15.10.2014 nonché tra il 16.10.2014 ed il 15.10.2015;

con il settimo motivo – denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che la Corte territoriale abbia posto in capo al datore di lavoro un onere che questi non aveva, in quanto la dimostrazione del mancato rispetto, da parte del datore medesimo, dei principi generali di correttezza e buona fede nella scelta dei lavoratori da sospendere, grava sul lavoratore – che, nel caso, in primo grado non aveva sollevato alcuna contestazione specifica sull’applicazione dei criteri di cui all’accordo nei propri confronti -, il quale deve non solo provare l’esistenza di diversi criteri di selezione, ma anche dimostrare che la loro applicazione avrebbe comportato la sospensione di altro lavoratore;

con l’ottavo motivo – denunciando nullità della sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.,p.c. – lamenta che la predetta Corte, nel motivare, non abbia tenuto conto del fatto che i criteri fissati erano stati oggetto di discussione nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro e condivisi con le OO.SS. firmatarie dell’accordo, così come evidenziato nell’atto di appello, senza che detta circostanza sia stata oggetto di contestazione ad opera della controparte;

con il nono motivo – denunziando nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla applicabilità alla fattispecie del disposto di cui all’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame non si sia pronunciato sulla richiesta, contenuta nell’atto di appello, di abbattimento del risarcimento “anche in applicazione dell’art. 1227 c.c.”;

con il decimo motivo – denunziando violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice sia incorso in vizio di ultrapetizione, in quanto, a fronte di una domanda del lavoratore volta all’accertamento dell’illegittimità della sospensione e contestuale sua collocazione in CIGS, avrebbe fondato la propria decisione di rigetto del motivo di gravame fondato sulla necessità della rideterminazione del compendio risarcitorio – essendo stata la società ammessa al trattamento di CGS in ragione di provvedimenti amministrativi validi ed efficaci, sicché i lavoratori, comunque, ruotando, sarebbero stati collocati in CIGS, ancorché per un minor periodo rispetto al sofferto – sulla base di una richiesta, mai formulata, di «disapplicazione “incidenter tantum” del provvedimento amministrativo concessorio della CIGS»;

con l’undicesimo motivo – denunciando nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che la predetta Corte abbia rigettato la richiesta di divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti, e di conseguente riduzione del compendio risarcitorio, con motivazione apparente, ossia sul presupposto della «violazione delle (…) disposizioni sulla indicazione e sulla c:omunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati criteri di scelta del personale da sospendere e di adozione di meccanismi di rotazione nella sospensione», attesa, per converso, la legittimità dei criteri determinati in sede di accordo sottoscritto in data 10 ottobre 2013 fra società e 00.SS e la previsione di non dar corso alla rotazione.

Ritenuto che

il primo motivo è da disattendere, poiché, quanto al dedotto vizio di omessa pronunzia, vale il principio che esso non è configurabile su questioni processuali (cfr., tra le altre, Cass. 25/01/2018, n. 1876); peraltro, alla pag. 8 della impugnata sentenza si legge che «Vanamente la N. deduce che non è stata censurata dagli istanti la legittimità dei criteri né sono stati addotti presunti profili di discriminazione o violazione dei principi di correttezza e buona fede. I lavoratori hanno denunciato l’assoluta genericità dei criteri di cui agli accordi – di per sé violativi degli obblighi di trasparenza di cui si è detto a fronte di scelte datoriali non verificabili – al di là delle modalità attuative adottate, discrezionalmente, dalla società»;

sicché vi è risposta al motivo di gravame, con motivazione che certamente soddisfa i requisiti normativamente previsti;

il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui è introdotta la questione dell’avvenuta prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento dell’atto di gestione del rapporto, non risultando dal ricorso per cassazione (né dalla sentenza impugnata) che la questione predetta sia stata fatta oggetto di gravame in appello; per il resto, è da disattendere in quanto, per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale (così, tra le altre, Cass. 13/12/2010, n. 25139; v., da ultimo, Cass. 20/04/2021, n. 10376, in motivazione);

il terzo motivo va disatteso, perché l’orientamento nettamente prevalente di questa Corte è nel senso che la mera inerzia non è sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore, occorrendo un “quid pluris” che valga ad esprimere una chiara e certa volontà abdicativa (cfr., sul punto, Cass. 21/09/2011, n. 19235: «In materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c.»; v., altresì, di recente, Cass. 5/02/2018, n. 2739: «La rinuncia ad un diritto oltre che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa; al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni»; in senso analogo v. Cass. 13/02/2020, n. 3657: «La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto»);

il quarto motivo è inammissibile, non risultando dal ricorso per cassazione che la questione sia stata fatta oggetto di gravame, né l’effettuato esame della stessa emerge dalla sentenza impugnata, nella quale è affrontato il solo tema della mancata offerta della prestazione lavorativa, mediante il corretto richiamo a Cass. 4/05/2009, n. 10236 (ove è affermato che «In caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, ove il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa sia illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di accettare la prestazione lavorativa, a determinare la “mora credendi” del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio dell’estinzione dell’obbligo di esecuzione della prestazione»);

il quinto motivo è da rigettare, poiché la sentenza impugnata esplicita chiaramente le ragioni della ritenuta genericità dei criteri di scelta (cfr., tra l’altro, il seguente passo della motivazione, non riportata nel motivo: «Nella specie, gli accordi fanno riferimento a esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (…) il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (…). In definitiva, la N. ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione»);

il sesto motivo è da rigettare, già sol perché la genericità dei criteri si riverbera, inevitabilmente, in chiave negativa, sugli adempimenti prescritti dall’art. 1, comma 7, della l. n. 223 del 1991 (sicché la deduzione della predetta genericità è idonea ad identificare il “petitum” coerente con la previsione normativa); inoltre, la doglianza non si confronta con la intera motivazione della sentenza impugnata, la quale, con riguardo al parametro delle esigenze tecnico-organizzative, ha evidenziato che «La prova evidente dell’assoluta genericità dei criteri è nelle stesse giustificazioni addotte dall’appellante con l’atto di gravame: “… N. ha quindi provveduto ad assegnare un punteggio per ciascuno dei tre criteri di cui sopra (anzianità aziendale, carichi di famiglia, esigenze organizzative) a tutti i lavoratori aventi mansioni fungibili, sospendendo coloro i quali, nella ponderazione dei tre criteri di cui sopra (ciascuno con rilevanza di 1/3 ai fini della graduatoria) avessero un punteggio più basso …. Dunque il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario»; sicché la illegittimità è stata ravvisata, in primo luogo, nell’attribuzione assolutamente discrezionale dei predetti punteggi, che ha inevitabilmente alterato l’applicazione in maniera concorrente dei tre richiamati criteri; le stesse ragioni sono state poste a base, da parte dei giudici di seconde cure, correttamente anche in relazione alla statuizione concernente la illegittimità delle proroghe che comunque si riferivano ad un accordo genetico viziato da una inammissibile genericità;

il settimo motivo è inammissibile perché, riproponendo in parte le censure già contenute nel primo motivo (e sopra disattese), di nuovo non si misura con la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, imperniata non sul mancato rispetto di criteri di scelta, bensì sulla previsione di criteri generici e, quindi, illegittimamente adottati;

l’ottavo motivo è inammissibile, poiché con esso – a fronte di una motivazione che soddisfa (tenuto conto dei passaggi sopra riportati) i requisiti minimi di cui all’art. 132 c.p.c. – si mira ad introdurre impropriamente il vizio di omesso esame di una circostanza (“id. est.”: discussione dei criteri nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro) non decisiva, essendo la sentenza incentrata sull’assoluta genericità dei criteri (per come sopra visto);

il nono motivo è inammissibile, non emergendo dal ‘ricorso che già in primo grado la ricorrente ebbe a dedurre l’applicabilità (come noto esclusa, in materia, da costante giurisprudenza; cfr., sul punto, Cass. n. 19235 del 2011, sopra citata) dell’art. 1227, secondo comma, c.c., oppure che la questione (non rilevabile di ufficio; cfr., tra le altre, Cass. 19/07/2018, n. 19218) ebbe ad essere comunque esaminata nel detto grado;

il decimo motivo è inammissibile, poiché esso si risolve in una mera denunzia all’impianto argomentativo del giudice di merito imperniato su una statuizione di questa Corte (sulla quale v. subito “infra”, ove è contenuto il riferimento alla “disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo concessorio della CIGS”), senza che possa in alcun modo ravvisarsi l’emissione di una pronuncia oltre la domanda; l’undicesimo motivo è infine da rigettare, poiché sulla questione della divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti (sulla cui base il lavoratore comunque sarebbe stato assoggettato ad un periodo di CIGS) il giudice del gravame ha reso effettiva motivazione citando un precedente di questa Corte (Cass. 29/09/2011, n. 19618, ove si legge che «In materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, l’illegittimità del provvedimento concessorio dell’intervento di integrazhone salariale in ragione della mancata indicazione e comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere – di rotazione ovvero, ove tale meccanismo non sia stato adottato per ragioni di ordine tecnico e organizzativo ritenute meritevoli di accoglimento, dei criteri alternativi determinati ai sensi dell’art. 1, comma 8, legge n. 223 del 1991 – comporta l’illegittimità della sospensione operata dal datore di lavoro dei lavoratori stessi, i quali, vantando una posizione di diritto soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l’accertamento, previa disapplicazione “incidenter tantum” del provvedimento amministrativo di concessione della c.i.g.s., dell’inadempimento del datore di lavoro in ordine all’obbligazione retributiva alla stregua dell’ordinario regime previsto dall’art. 1218 c.c., essendo venuta meno, quale ragione d’esonero dalle conseguenze dell’inadempimento, l’elevazione al livello dell’impossibilità della prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale») ed aggiungendo che «la N. non ha neanche provato che ricorrevano tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per quanto tempo»;

la motivazione, sul punto, non si rivela apparente, in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione, sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell’ipotetico abbattimento del risarcimento derivante dall’applicazione di un periodo minore di cassa integrazione;

senza contare che la stessa censura – imperniata sul rilievo che la questione non necessitava di alcuna prova “trattandosi di conseguenze automatiche di fatti pacifici” – è mal posta, poiché, da un lato, essa denunzia, nella sostanza, una errata applicazione del principio dell’onere della prova in materia, e, dall’altro (ciò che più conta), non illustra in maniera intelligibile, da un lato, in qual modo il ricorrente avrebbe potuto essere comunque collocato legittimamente in CIGS a fronte della accertata genericità dei criteri, e, dall’altro, come avrebbe potuto calcolarsi in concreto l’ipotetico (e non plausibile, per quanto appena detto) abbattimento della posta risarcitoria;

le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.