CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 settembre 2018, n. 23289

Tributi – Importazioni – Dichiarazioni doganali – Valore doganale della merce importata – Prezzo della merce e corrispettivo versato per le royalties

Fatti di causa

L’Agenzia delle Dogane rettificò dichiarazioni doganali concernenti l’importazione di prodotti di abbigliamento con marchio D., perché, ai fini della determinazione del loro valore doganale, la s.r.l. P. non aveva addizionato al prezzo pagato il corrispettivo versato al titolare dei diritti immateriali dei quali era licenziataria, nella misura prevista dal relativo contratto di licenza.

La società impugnò gli avvisi e la conseguente cartella di pagamento, scaturita dall’iscrizione a ruolo delle somme oggetto degli avvisi, senza successo in primo grado.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha invece accolto il successivo appello proposto dalla contribuente. Ha ritenuto che l’Agenzia non abbia dimostrato che il produttore/esportatore cinese fosse stato sottoposto a controlli tali, da assumere “valenza costrittiva” nella sua attività.

Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia delle dogane per ottenerne la cassazione, che affida a tre motivi, cui la sola società replica con controricorso.

Entrambe le parti costituite depositano memoria.

Ragioni della decisione

1. – Infondato è il primo motivo di ricorso, col quale l’Agenzia denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, 1° comma, n. 4, c.p.c. e dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/92, nonché dell’art. 115 c.p.c., affermando che la sentenza impugnata sia nulla, perché costruita su affermazioni inconciliabili.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha già avuto occasione di rimarcare (vedi, in particolare, tra le tante, Cass. 27 maggio 2011, n. 11710) che non adempie il dovere di motivazione il giudice che non formuli alcuna specifica valutazione dei fatti rilevanti di causa, e, dunque, non ricostruisca la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta. Soltanto al cospetto della mancanza di valutazione il sillogismo, che distingue il giudizio, finisce per esser monco della premessa minore, e dunque necessariamente privo della conclusione razionale.

Di contro, la sentenza impugnata espone un percorso logico coerente, sostenendo che l’operazione è realmente intercorsa fra le due società, sostenendo che manchi la prova della valenza “costrittiva” dell’attività del produttore/esportatore cinese.

1.1. – Il che esclude la prospettata nullità della sentenza.

Ciò in base ai principi fissati dalle sezioni unite della Corte, secondo cui la mancanza si configura quando la motivazione manchi del tutto, nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione, oppure la motivazione formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, punto 14.5.1 nonché sez. un., 22 settembre 2014, n. 19881).

2. – Quanto alla prospettata violazione dell’art. 115 c.p.c., basti il richiamo al consolidato indirizzo (per l’espressione del quale si veda, fra varie, Cass. 11 ottobre 2016, n. 20382), secondo cui questa violazione può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; oppure quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale.

Profili entrambi estranei alla censura proposta.

Il motivo va in conseguenza respinto.

2. – Col secondo motivo di ricorso l’Agenzia denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 32, paragrafo 1, lett. c, e paragrafo 5 del codice doganale comunitario, dell’art. 157, paragrafo 2, del regolamento di attuazione del codice, dell’art. 2729 c.c., nonché dei principi relativi all’onere della prova.

Sostiene l’Agenzia che sia stata data prova del fatto che il pagamento delle royalties costituisce condizione di vendita delle merci importate, in quanto per un verso le merci erano e sono commercializzate con i marchi per i quali sono state corrisposte le royalties e, per altro verso, sussistevano rapporti trilaterali o comunque collegamenti negoziali tra le società licenzianti, i venditori cinesi e la società.

Contrariamente a quanto eccepito dalla società, il motivo è ammissibile, perché sottopone a critica le statuizioni in diritto della sentenza impugnata, con riguardo alla configurazione della condizione di vendita.

2.1. – Oltre che ammissibile, il motivo è altresì fondato, alla luce del principio di diritto fissato da Cass. 6 aprile 2018, n. 8473, secondo cui, in tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore dei prodotti fabbricati in base a modelli o mediante marchi oggetto di contratto di licenza, il corrispettivo dei relativi diritti deve essere aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 regolamento del consiglio Cee n. 2913 del 1992, come attuato dagli art. 157, 159 e 160 regolamento della commissione Cee n. 2454 del 1993, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei predetti diritti.

2.2. – Nel caso in esame, per un verso, è la stessa società a riferire che <<…le royalty non sono mai pagate da P. al venditore delle merci e neppure ad un suo fornitore, bensì direttamente ai licenzianti W./D.>> (così a pag. 10 terzo capoverso della memoria).

Per altro verso, i poteri di controllo evocati da questa Corte non comportano necessariamente il controllo avente “valenza costrittiva” dell’attività del produttore al quale fa riferimento la sentenza impugnata.

2.3. – In particolare, non è necessario, come adombra la società in memoria, che tra licenziante e terzo produttore vi sia <<un legame/identificazione economica tra licenziante/produttore extra UE…>>.

Ciò perché, ha precisato la Corte con la sentenza n. 8473/18, è il rapporto di licenza che è di norma connotato da penetranti poteri di controllo del titolare del marchio sul licenziatario al fine di garantire che tutti i prodotti contrassegnati dal medesimo segno distintivo siano omogenei e funzionali (come si evince, d’altronde, anche dall’art. 8, sia pure di natura dispositiva, della direttiva n. 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ratione temporis applicabile).

Il contratto di licenza, che pur sempre mira a salvaguardare le prerogative del licenziante, solitamente comporta di per sé che i terzi individuati per la produzione non possano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma debbano ritrasferirli ai distributori designati dal licenziante, ossia ai licenziatari, i quali corrispondono a costui i diritti di licenza.

Risponde quindi a una massima di comune esperienza, l’applicazione della quale non è contrastata, nel caso in esame, da elementi di segno contrario, che il titolare del marchio e dei modelli riesca a controllare tutta la filiera produttiva e distributiva, massimizzando il profitto che ne deriva.

La sentenza impugnata non si rivela quindi conforme a questi principi.

Il motivo va in conseguenza accolto.

3. – L’accoglimento si riverbera su quello del terzo motivo di ricorso, anch’esso ammissibile, perché costruito col medesimo nesso di derivazione da quello concernente la pretesa impositiva adottato in senso speculare dal giudice d’appello, col quale l’Agenzia denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 303 1° e 2° comma del d.P.R. n. 43/73 e 70 del d.P.R. n. 633/72, là dove il giudice d’appello ha annullato l’atto d’irrogazione delle sanzioni come conseguenza, appunto, della statuizione precedente.

4. – In definitiva, in accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai profili accolti, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia per il riesame della fattispecie.

Per questi motivi accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione ai profili accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.

P.Q.M.

Rigetta nel resto il ricorso.