CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 settembre 2018, n. 23320
Aziende agricole – Aiuti comunitari – Revoca – Possesso dei requisiti prescritti dal bando – Inosservanza del progetto approvato o degli obblighi inerenti al trattamento dei lavoratori subordinati
Fatti di causa
1. M.L., titolare di un’azienda agricola e beneficiario di finanziamenti nell’ambito della misura 311 del Programma di sviluppo rurale della Regione Puglia per gli anni 2007-2013, convenne in giudizio il Gruppo di azione locale Luoghi del M.S.C. a r.l., per sentirlo condannare al pagamento dell’intero importo del finanziamento ed al risarcimento dei danni, previa dichiarazione di nullità e disapplicazione della delibera n. 104 del 22 ottobre 2012, con cui erano stati disposti la revoca del contributo ed il recupero dell’importo erogato, in quanto il compendio immobiliare condotto in affitto dal richiedente, di proprietà di R.P., era risultato soggetto ad una procedura di espropriazione immobiliare.
Si costituì il convenuto, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 1° giugno 2016, il Tribunale di Taranto rigettò la domanda.
Premesso che l’attore aveva ottenuto la disponibilità del compendio immobiliare in virtù di un contratto di affitto della durata di quindici anni stipulato l’8 agosto 2002, e rilevato che con atto integrativo del 25 giugno 2011 le parti ne avevano prorogato l’efficacia fino al 7 agosto 2021, il Tribunale ritenne che, ai sensi dell’art. 560, secondo comma, cod. proc. civ., l’instaurazione del procedimento esecutivo, avvenuta nel 2007, escludesse la legittimazione della proprietaria alla rinnovazione dell’affitto, non essendo ella investita della custodia dei beni, e non sussistendo l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione. Pur riconoscendo che il difetto dell’autorizzazione non comporta l’invalidità del contratto stipulato dal debitore ma solo l’inopponibilità dello stesso ai creditori ed all’assegnatario, osservò che il contratto in tal modo concluso non è riferibile al proprietario-locatore, ma al custode, cui spetta anche l’esercizio delle azioni che ne scaturiscono, con la conseguenza che ogni manifestazione di volontà diretta ad incidere sul rapporto locativo per effetti non previsti dalla legge dev’essere sottoposta alla valutazione degli organi della procedura.
2. L’impugnazione proposta dal L. è stata dichiarata inammissibile dalla Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con ordinanza del 7 aprile 2017, emessa ai sensi dell’art. 348-tercod. proc. civ.
3. Avverso la predetta sentenza il L. ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, illustrati anche con memoria. Il Gruppo di azione locale ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1370 cod. civ., degli artt. 39, 42 e 174 del Trattato UE e del Regolamento n. 2005/1698/CE del Consiglio del 20 settembre 2005, sostenendo che, nel ritenere legittima la revoca, in virtù del pignoramento del compendio immobiliare, la sentenza impugnata ha interpretato il bando in difformità della normativa di riferimento. Premesso che il finanziamento era volto a favorire lo sviluppo rurale, attraverso l’offerta di servizi di ospitalità agrituristica e di servizi didattici per le scolaresche, afferma che tale finalità non risulta pregiudicata in caso di espropriazione forzata del fondo, a condizione che l’aggiudicatario sia in possesso dei requisiti prescritti dal bando. Aggiunge che, nell’interpretare il bando, il Tribunale si è soffermato esclusivamente sull’art. 6, il quale si limitava ad indicare i documenti da allegare alla domanda, senza prevedere la revoca del finanziamento, consentita dagli artt. 10 e 15.6 soltanto in caso di violazione dell’obbligo di applicare ai dipendenti i contratti collettivi di lavoro o di revisioni o variazioni sostanziali al progetto ammesso al beneficio; la sentenza impugnata ha altresì trascurato gli artt. 11 e 15.8, i quali, nel vietare l’alienazione ed il mutamento di destinazione dei beni per cinque anni, fanno eccezione per l’ipotesi in cui il trasferimento abbia luogo per causa di forza maggiore e sia garantito il mantenimento delle condizioni che hanno determinato l’assegnazione del beneficio.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 560 cod. proc. civ. e dei principi che disciplinano il processo esecutivo, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che la predetta disposizione operi anche all’esterno della procedura, e per aver fatto quindi dipendere la conservazione del beneficio da un provvedimento del giudice dell’esecuzione. Premesso che il bando prevede la revoca del finanziamento in caso di mancata realizzazione delle opere e dei servizi secondo la progettazione approvata, afferma che con tale disciplina non può interferire l’esercizio dei poteri del giudice dell’esecuzione, previsti in funzione della realizzazione dell’interesse dei creditori, e non anche dei programmi di sviluppo rurale rientranti nella politica agricola comune, né dell’interesse a sanzionare i beneficiari che non siano in regola con le condizioni stabilite dal bando.
3. In quanto concernenti l’individuazione dei presupposti per la revoca del finanziamento, compiuta dalla sentenza di primo grado attraverso l’interpretazione del bando di concorso, e la rilevanza del difetto di autorizzazione del Giudice dell’esecuzione ai fini della piena disponibilità del compendio immobiliare affittato, le predette censure riflettono questioni già sollevate con i motivi di appello, aventi ad oggetto profili di legittimità della sentenza di primo grado, e si sottraggono pertanto all’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa della controricorrente, secondo cui le stesse, oltre a sollecitare una non consentita rivisitazione del giudizio di merito, comportano un mutamento del thema decidendum cristallizzatosi nelle precedenti fasi processuali. Nessun rilievo può assumere, in contrario, la diversità della formulazione dei motivi, che trova giustificazione nella natura stessa del ricorso di cassazione, quale mezzo d’impugnazione a critica vincolata, proponibile esclusivamente per i vizi previsti dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ. (escluso, nella specie, quello di cui al n. 5, avuto riguardo alla conformità delle ragioni di fatto che hanno determinato la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello rispetto a quelle poste a base della sentenza di primo grado). In dottrina, è d’altronde pacifico che, nel caso in cui l’appello sia stato dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 348-ter cod. proc. civ., il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado può essere proposto anche per vizi diversi da quelli prospettati in sede di gravame, purché entro i limiti dei capi della decisione devoluti al giudice di secondo grado, con la conseguenza che resta preclusa soltanto la possibilità di far valere cause di nullità della sentenza non dedotte con l’atto di appello, o questioni non riproposte ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ. (cfr. anche Cass., Sez. VI, 12/02/2015, n. 2784; 17/04/2014, n. 8942): da un lato, infatti, la mancata impugnazione di una statuizione riguardante un capo autonomo della domanda si traduce, ai sensi dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., in acquiescenza parziale, che comporta la formazione del giudicato interno in ordine alla statuizione non impugnata, non essendo configurabile una reviviscenza del potere d’impugnazione per effetto della dichiarazione d’inammissibilità dell’appello; dall’altro, invece, ove risulti fondata non già su vizi propri dell’ordinanza o del procedimento d’appello (cfr. Cass., Sez. Un., 2/02/2016, n. 1914; Cass., Sez. IlI, 31/01/2017, n. 2351; 19/07/2016, n. 14696) ovvero su rationes decidendi diverse da quelle poste a fondamento della sentenza di primo grado (cfr. Cass., Sez. IlI, 9/03/2018, n. 5655; 23/ 06/2017, n. 15644; Cass. Sez. VI, 6/07/2015, n. 13923), autonomamente censurabili mediante l’impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 111 Cost., ma su un giudizio prognostico di manifesta infondatezza del gravame, la dichiarazione d’inammissibilità di quest’ultimo non comporta sostanziali modificazioni nel giudizio di legittimità (fatta eccezione per la necessità che l’impugnazione sia rivolta direttamente contro la sentenza di primo grado e per la già segnalata esclusione della deducibilità del vizio di motivazione, in caso di c.d. doppia conforme), e non preclude quindi né l’ulteriore deduzione delle questioni già sollevate con l’atto di appello e di quelle riproposte ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., negli stessi limiti in cui sono ordinariamente deducibili ai sensi dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., né la proposizione di nuove questioni giuridiche, normalmente ritenute ammissibili in sede di legittimità, purché non siano rileva bili esclusivamente ad i- stanza di parte e non implichino indagini di fatto (cfr. Cass., Sez. IlI, 17/01/ 2018, n. 907; Cass., Sez. I, 25/10/2017, n. 25319; Cass., Sez. II, 11/04/ 2016, n. 7048).
4. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti questioni strettamente connesse, sono peraltro infondati.
A fondamento dell’affermata legittimità della revoca del finanziamento, alla quale ha ricollegato il rigetto della domanda di pagamento del residuo importo dovuto, la sentenza impugnata ha rilevato che il ricorrente non era in possesso di uno dei requisiti prescritti dall’art. 6 del bando di concorso, costituito dalla piena disponibilità degl’immobili condotti dal richiedente (terreni, fabbricati, etc.), osservando che, a tal fine, non era sufficiente una mera detenzione di fatto, ma occorreva una detenzione qualificata, ricollegabile esclusivamente ad un contratto di affitto o di locazione stipulato con il soggetto legittimato ed avente una durata complessiva o residua di almeno otto anni alla data di presentazione della domanda, e ritenendo che, in caso di assoggettamento degl’immobili ad espropriazione forzata, tale fattispecie potesse essere integrata soltanto dalla conclusione del contratto con il custode giudiziario, previa autorizzazione del giudice dell’esecuzione.
Il rilievo conferito al predetto requisito, ai fini dell’insorgenza e della conservazione del diritto al finanziamento, risulta perfettamente in linea con le finalità perseguite dal regolamento CE n. 1968 del 2005, il quale, nel disciplinare il sostegno dell’Unione Europea allo sviluppo rurale, da realizzarsi attraverso le attività del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FE- ASR), prevede, fra gli obiettivi dell’azione comunitaria, la diversificazione delle attività nelle zone rurali (undicesimo considerando), e individua come finalità degli aiuti comunitari agl’investimenti l’ammodernamento delle aziende agricole e il miglioramento del loro rendimento economico mediante un più sapiente utilizzo dei fattori di produzione, ivi compresa tra l’altro la diversificazione intra ed extra-aziendale, anche verso settori non alimentari (ventunesimo considerando), proponendosi di orientare i mutamenti nelle zone rurali verso la diversificazione dalle attività agricole a favore di quelle extra-agricole e lo sviluppo di settori non agricoli, in modo da rendere le predette zone più attraenti e da invertire la tendenza al declino socioeconomico ed allo spopolamento della campagna (quarantaseiesimo considerando). Al perseguimento di tali obiettivi sono preordinate le misure previste dall’Asse III del regolamento, che comprendono, tra l’altro, l’incentivazione delle attività turistiche (art. 52, lett. a), punto iii), e consistono, per quanto interessa in questa sede, nella concessione di aiuti per la creazione d’infrastrutture ricreative quali quelle che permettono l’accesso ad aree naturali, con servizi di piccola ricettività, e lo sviluppo e/o la commercializzazione di servizi turistici inerenti al turismo rurale (art. 55, lett. b e c).
L’ottica cui s’ispirano le predette misure, volte a promuovere una modernizzazione complessiva delle aree rurali, attraverso il sostegno d’interventi mirati da un lato all’introduzione di modalità più avanzate di esercizio dell’agricoltura e dall’altro alla diffusione di nuove forme di sfruttamento delle risorse naturali, postula innanzitutto che i finanziamenti erogati vengano impiegati per la realizzazione d’iniziative non effimere, tali da incidere profondamente sul tessuto socioeconomico del territorio e da garantire benessere ed occupazione ai suoi abitanti, altrimenti indotti a trasferirsi altrove. Ciò presuppone tuttavia che i beneficiari dei finanziamenti siano effettivamente titolari di strutture aziendali aventi adeguata consistenza e caratteristiche tali da assicurarne la durata e l’ulteriore sviluppo, condizione, quest’ultima, che può ritenersi sussistente soltanto se i beni di cui è composta l’azienda siano disponibili da parte del richiedente per un periodo di tempo sufficientemente lungo e liberi da vincoli potenzialmente idonei ad impedirne lo sfruttamento.
4.1. Nella specie, la libera disponibilità del compendio immobiliare destinato all’esercizio dell’impresa per l’intero periodo indicato dal bando di concorso è stata correttamente esclusa dalla sentenza impugnata in virtù dell’intervenuta scadenza dell’originario contratto di affitto prima che fossero trascorsi otto anni dalla presentazione della domanda e della stipulazione del nuovo contratto con la proprietaria, non legittimata a porlo in essere a causa dell’avvenuto pignoramento dei beni e della mancanza della necessaria autorizzazione del Giudice dell’esecuzione.
La sorte dei contratti di locazione aventi ad oggetto beni immobili sottoposti ad esecuzione forzata è infatti disciplinata dall’art. 2923 cod. civ., il quale prevede che, in caso di vendita forzata, gli stessi sono opponibili allo acquirente soltanto se hanno data certa anteriore al pignoramento (primo comma) oppure se la detenzione del conduttore è anteriore al pignoramento (quarto comma, prima parte), aggiungendo che quelli di durata ultranovennale sono opponibili soltanto nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione, a meno che non siano stati trascritti anteriormente al pignoramento (secondo comma), mentre quelli privi di data certa sono opponibili soltanto per la durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato (quarto comma, seconda parte). Tale disciplina, riguardante le locazioni anteriori all’inizio dell’esecuzione, trova un completamento nell’art. 560, secondo comma, cod. proc. civ., che in pendenza della procedura esecutiva vieta al debitore ed al custode di dare in locazione l’immobile pignorato, se non sono autorizzati dal giudice dell’esecuzione.
In virtù delle predette disposizioni, il contratto di locazione stipulato dal debitore assoggettato ad espropriazione, pur non essendo di per sé invalido, ma soltanto inefficace nei confronti dell’acquirente e dei creditori (cfr. Cass., Sez. IlI, 14/07/2009, n. 16375; 13/07/1999, n. 7422; 10/10/1994, n. 8267), è inevitabilmente destinato ad un’esistenza incerta e precaria, e risulta pertanto inidoneo a fornire le garanzie di durata e stabilità necessarie per la conservazione dell’organizzazione aziendale, e quindi per la realizzazione delle finalità proprie del finanziamento. Se anteriore al pignoramento, esso deve essere rispettato dall’acquirente soltanto entro i limiti del novennio o della durata prevista per le locazioni a tempo indeterminato, e quindi (a meno che non sia stato tempestivamente trascritto) per un periodo di tempo che può in concreto risultare anche notevolmente inferiore a quello pattuito, mentre se successivo e non autorizzato può venire meno in qualsiasi momento, in quanto stipulato da un soggetto privo del requisito di legittimazione prescritto dall’art. 560 cod. proc. civ.
Per effetto del pignoramento, infatti, il debitore perde la libera disponibilità dei beni, dei quali è costituito custode, ai sensi dell’art. 559 cod. proc. civ., a meno che, su istanza del creditore procedente o di un creditore intervenuto, il giudice dell’esecuzione non ritenga di affidare la custodia ad una persona diversa. Al custode del bene pignorato, ovvero al debitore ma solo in tale qualità, spettano in via esclusiva l’amministrazione e la gestione dell’immobile pignorato, ed in particolare la legittimazione alla riscossione dei canoni (cfr. Cass., Sez. VI, 28/03/2018, n. 7748; Cass., Sez. III, 3/10/ 2005, n. 19323), nonché quella all’esercizio delle azioni derivanti dal contratto di locazione (cfr. Cass., Sez. III, 29/04/2015, n. 8695; 21/06/2011, n. 13587; 14/07/2009, n. 16375), ai fini del quale occorre peraltro l’autorizzazione del giudice della esecuzione. Tale autorizzazione è necessaria, come si è detto, anche per la stipulazione di contratti di locazione, che in mancanza della stessa non è opponibile né al creditore procedente e a quelli intervenuti nell’esecuzione né all’acquirente del bene, con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione può disporre in qualsiasi momento la liberazione dell’immobile. Peraltro, anche nel caso in cui l’autorizzazione sia stata rilasciata, la durata del rapporto resta incerta, trattandosi di un contratto che non può essere in alcun modo assimilato a quelli conclusi dal debitore in e- poca anteriore al pignoramento, in quanto stipulato in attuazione di una mera amministrazione processuale del bene, con la conseguenza che la sua durata non può in alcun caso eccedere quella della procedura esecutiva (cfr. Cass., Sez. Un., 20/01/1994, n. 459; Cass., Sez. III, 28/09/2010, n. 20341; Cass., Sez. IlI, 17/10/1994, n. 8462).
4.2. Non può pertanto condividersi l’affermazione del ricorrente, secondo cui la pendenza della procedura esecutiva e la conseguente subordinazione della rinnovazione del contratto di affitto all’autorizzazione del Giudice dell’esecuzione non escludevano il possesso dei requisiti per la concessione del finanziamento.
Quanto poi all’idoneità delle predette circostanze a legittimare la revoca dell’aiuto ed il conseguente rifiuto di corrispondere il residuo dovuto, l’interpretazione del bando di concorso fornita dalla sentenza impugnata, giustificata dall’espressa inclusione della piena disponibilità degl’immobili tra i requisiti prescritti per l’ammissione al beneficio, risulta pienamente conforme al principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il significato delle parole e delle espressioni utilizzate, che costituisce il principale strumento per la ricostruzione della volontà manifestata nell’atto, dev’essere verificato alla luce dell’intera dichiarazione negoziale, ponendo le singole clausole in correlazione tra loro e procedendo al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. Se è vero, infatti, che per «senso letterale delle parole», ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., deve intendersi tutta la formulazione del testo negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che lo compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un atto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (cfr. Cass., Sez. lav., 19/09/2014, n. 19779; 26/02/2009, n. 4670; Cass., Sez. I, 4/05/2011, n. 9755), è anche vero, però, che nella specie le conclusioni cui è pervenuto il Giudice di primo grado non possono ritenersi in alcun modo inficiate dal contenuto delle clausole invocate dal ricorrente.
La circostanza che la revoca del finanziamento fosse specificamente prevista soltanto per fatti successivi alla sua concessione, come l’inosservanza del progetto approvato o degli obblighi inerenti al trattamento dei lavoratori subordinati, non è di per sé incompatibile con l’applicazione della medesima sanzione anche nell’ipotesi di mancanza originaria dei requisiti prescritti, in tal senso deponendo chiaramente anche l’ultimo comma dello art. 15.6 del bando, che, consentendo l’adozione del predetto provvedimento in ogni caso in cui, a seguito di controlli, a qualsiasi titolo ed in qualunque momento effettuati, fossero state rilevate infrazioni, irregolarità, anomalie o difformità, ne estendeva l’ambito di operatività ad ogni fatto ostativo al conseguimento o alla conservazione dell’aiuto. Inconferente risulta altresì il richiamo agli artt. 11 e 15.8, i quali, nell’escludere la perdita del contributo in caso di trasferimento della gestione dell’azienda ad altro soggetto o di trasferimento della proprietà per causa di forza maggiore, a condizione che fosse garantito il mantenimento dei requisiti di ammissibilità, si riferivano evidentemente a fattispecie diverse da quella in esame, contraddistinta dal difetto originario di tali requisiti, comunque non ricollegabile ad eventi eccezionali ed imprevedibili.
5. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della I. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
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