CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 settembre 2019, n. 24157
Licenziamento disciplinare – CCNL Industria Metalmeccanica Privata – Presentazione delle giustificazioni – Decadenza del potere di recesso datoriale
Rilevato che
1. il Tribunale di Vibo Valentia, con sentenza del 15.6.2016, rigettava la domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare, intimato il 5.12.2008 a G.G. da S. finestre e persiane S.p.A.;
2. la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza nr. 1866 del 2017, respingeva l’appello del lavoratore;
2.1. per quanto di rilievo in questa sede, a fondamento del decisum, la Corte territoriale ha osservato che:
– il termine finale previsto dall’art. 8, comma 4, del CCNL Industria Metalmeccanica Privata per l’irrogazione del licenziamento («6 giorni successivi alla presentazione delle giustificazioni»), come reso palese dalla chiara lettera della norma, si applicasse solo in caso di presentazione delle giustificazioni, sicché era da escludere, nella fattispecie di causa, la decadenza del potere di recesso datoriale;
– la condotta contestata e consistita nell’aver avuto il dipendente uno scontro fisico con altro lavoratore, del pari licenziato, sul luogo di lavoro, con percosse ed uso di materiali di lavoro reperiti sul posto ed utilizzati come oggetti contundenti, integrava una giusta causa di licenziamento;
– a tale riguardo, non rilevava che la società avesse contestato al lavoratore la partecipazione ad una rissa, invero non configurabile in termini penalistici, per la partecipazione allo scontro di sole due persone;
– da un lato, doveva attribuirsi al termine rissa il significato comune di lite violenta con scambio di percosse, dall’altro ed in ogni caso, rilevava la natura meramente esemplificativa delle ipotesi di giusta causa di licenziamento fissate dal contratto collettivo di lavoro, essendo sufficiente che la condotta contestata integrasse un grave inadempimento idoneo a far venir meno il vincolo fiduciario;
– il vincolo derivante dal principio di immutabilità della contestazione riguardava i fatti e non la loro qualificazione giuridica; era, perciò, irrilevante che, nella lettera di licenziamento, la società avesse ricondotto i fatti ad una, in particolare, delle previsioni che, a norma di contratto, costituivano delitto;
– ciò che importava era che, tanto la contestazione quanto la lettera di licenziamento, facessero univoco riferimento alla medesima condotta materiale ascritta al lavoratore ed integrata dallo scontro violento con altro operaio;
– la condotta integrava, comunque, il delitto di cui all’art. 581 cod.pen.: le emergenze processuali avevano dimostrato che i due lavoratori, nella collutazione, erano entrati in contatto fisico e «venuti alle mani» si erano picchiati, quindi si erano reciprocamente percossi: tanto bastava ad integrare la fattispecie criminosa ex art. 581 cod.pen., rilevando l’astratta punibilità in sede penale e non la non perseguibilità per difetto di querela;
– a fronte della prova dei fatti contestati, era onere del lavoratore fornire in giudizio elementi utili a lui favorevoli, quali le ragioni della colluttazione e/o l’esistenza di eventuali cause di giustificazione;
– il licenziamento era proporzionato, avuto riguardo alle concrete circostanze in cui si era consumata la condotta ascritta al dipendente (durante l’orario e sul luogo di lavoro, alla presenza di altri colleghi, con oggetti contundenti e con pervicacia manifestata dalle modalità con cui era cessato il litigio, solo quando l’antagonista riusciva a sottrarsi alla presa del lavoratore ed a fuggire) mentre recessiva era l’assenza di precedenti disciplinari come anche la valutazione del basso livello professionale del lavoratore perché il ripudio della violenza ed il rispetto delle regole della civile convivenza erano egualmente esigibili a prescindere dalla qualifica professionale rivestita;
3. avverso la decisione, ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, affidato a quattro motivi cui ha resistito, con controricorso, la parte datoriale;
4. ha depositato requisitoria scritta il PG.;
5. la parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod.proc.civ.
Considerato che
1. con il primo motivo – ex art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge nr. 300 del 1970, dell’ art. 8 comma 4 del CCNL Industria metalmeccanica e degli artt. 1362 e ss. cod.civ.; il ricorrente censura la decisione per aver ritenuto che il termine di sei giorni per l’irrogazione del licenziamento si applicasse solo in caso di presentazione delle giustificazioni;
1.1. il motivo è infondato;
1.2. l’art. 8, comma 4, del CCNL Industria Metalmeccanica privata, applicabile alla fattispecie di causa, stabilisce che «[…] la contestazione dovrà essere effettuata per iscritto ed i provvedimenti disciplinari non potranno essere comunicati prima che siano trascorsi 5 giorni, nel corso dei quali il lavoratore potrà presentare le sue giustificazioni. Se il provvedimento non verrà comunicato entri i 6 giorni successivi a tali giustificazioni, queste si riterranno accolte»;
1.3. giudica il Collegio corretta l’esegesi della clausola contrattuale operata dalla Corte di merito che ha ritenuto decorrente il termine di sei giorni solo in caso di presentazione delle giustificazioni;
1.4. si è in presenza, come già osservato da questa Corte in fattispecie analoghe, di una disciplina collettiva che arricchisce le garanzie di difesa dell’incolpato con la previsione di un termine finale entro il quale irrogare la sanzione (salva «la possibilità di dimostrare l’eventuale impossibilità di rispettare il termine contrattualmente previsto», cfr. Cass. nr. 21569 del 2018) e con l’attribuzione di un determinato significato al comportamento omissivo del datore di lavoro (in argomento, oltre Cass. nr. 21569 cit., v. Cass. nr. 2663 del 1994; Cass. nr. 8773 del 1992; Cass. nr. 12116 del 1990; Cass. nr. 2707 del 1987);
1.5. tuttavia, sia il predetto termine finale che la fictio dell’intervenuta accettazione delle giustificazioni sono, evidentemente, collegate all’esercizio, da parte del lavoratore, della specifica facoltà che l’ordinamento appresta (id est: la presentazione delle giustificazioni) e di cui, invece, l’odierno ricorrente, pacificamente, non ha inteso avvalersi;
2. con il secondo motivo – ex art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge nr. 300 del 1970, dell’art. 5 della legge nr. 604 del 1966, degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., degli artt. 115, 116 e 421 cod.proc.civ.;
2.1. si imputa alla sentenza la non corretta applicazione delle regole di riparto dell’onere probatorio; in particolare, si critica la statuizione secondo cui sarebbe spettato al lavoratore dedurre e provare elementi utili a dare una spiegazione a lui favorevole; in tal modo, la Corte territoriale avrebbe fatto cattivo governo della regola processuale per cui è il datore di lavoro a dover provare la giusta causa di licenziamento e, quindi, non solo la sussistenza del fatto materiale ma anche che lo stesso sia riferibile al soggetto che si assume esserne l’autore; con specifico riferimento alla condotta di rissa, la Corte territoriale non avrebbe attribuito alla parte datoriale la prova delle singole responsabilità ed in particolare dei ruoli di ciascun litigante (chi ha provocato e chi ha aggredito), come stabilito da questa Corte, con la pronuncia nr. 8710 del 2017;
2.2. il motivo è infondato;
2.3. a prescindere dall’enunciazione teorica di principi contenuta nella sentenza impugnata, nella fattispecie di causa risulta accertata una condotta connotata da particolare violenza sul luogo di lavoro, con uso di strumenti atti ad offendere e denotante aggressività da parte del lavoratore al punto che «vano» era stato il tentativo di separare i due litiganti e che «la lite cessò solo quando il C. (id est: l’antagonista dell’odierno ricorrente) riuscì a divincolarsi e a scappare»;
2.4. a fronte di tali circostanze di fatto, perde di significativo rilievo l’accertamento dell’iniziativa del litigio per manifestarsi, comunque, la reazione con modalità tali da esprimere, ex se, una violenza, non di mera difesa, contraria al vivere civile e gravemente irrispettosa delle regole discendenti dal rapporto di lavoro;
3. con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cod. civ., degli artt. 1 e 3 della legge nr. 604 del 1966 anche in relazione all’art. 1455 cod.civ. nonché violazione dell’art. 10 , titolo VII, CCNL Metalmeccanici Industria Privata e degli artt. 1362 e ss. cod.civ.; secondo la parte ricorrente, posto che il datore di lavoro aveva richiamato nella lettera di licenziamento la condotta indicata alla lettera H dell’art. 10 del CCNL di riferimento (id est: la rissa), la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere la sussistenza della giusta causa di recesso posto che la condotta accertata non integrava gli estremi di detta ipotesi delittuosa;
3.1. il motivo è inammissibile;
3.2. oltre a profili di non specificità della censura, illustrata senza il rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 366 nr. 6 cod.proc.civ., per essere carente della trascrizione integrale della comunicazione di licenziamento, necessaria per apprezzare compiutamente i rilievi mossi alla pronuncia ed invece riportata per sintesi dei suoi contenuti ( cfr. pag. 3 del ricorso), la critica risulta una mera riproposizione del motivo di appello, disatteso dai giudici di merito; come tale, è priva di riferibilità al decisum;
3.3. al riguardo, la Corte territoriale ha, infatti, osservato come il datore di lavoro dovesse limitarsi ad esporre i dati e gli aspetti essenziali del fatto materiale oggetto di rimprovero, restando, invece, la qualificazione giuridica degli stessi attività di esclusiva competenza del giudice, sicché era irrilevante che la parte datoriale li avesse qualificati, correttamente o meno, come rissa; secondo la Corte di appello, i fatti accertati configuravano comunque un «delitto a termine di legge», come stabilito dalla norma collettiva, integrando la fattispecie di cui all’art. 581 cod.pen.; la Corte di merito osservava anche, richiamando Cass. nr. 5372 del 2004, come l’elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari, avesse valenza meramente esemplificativa e non escludesse la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento idoneo ad elidere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore;
3.4. tali affermazioni, idonee a sorreggere la decisione, non sono state specificamente censurate mentre la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che «la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso ( id est: del motivo) per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366, comma 1, nr. 4 cod.proc.civ.» (ex plurimis, Cass. nr. 20652 del 2009; nr. 17125 del 2007; in motivazione, Cass. nr. 9384 del 2017);
4. con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cod.civ. nonché dell’art. 10, titolo settimo, del CCNL Metalmeccanici; la critica investe l’affermazione di proporzionalità del licenziamento, avuto riguardo ad una accertata condotta di percosse e non di rissa;
4.1. il motivo è infondato;
4.2. il giudizio di proporzionalità, di spettanza esclusiva del giudice di merito (ex plurimis, Cass. nr. 144 del 2008; Cass. nr. 1788 del 2011; Cass. nr. 8293 del 2012), è stato correttamente condotto, con riferimento alle concrete modalità della condotta, sia da un punto di vista oggettivo (valorizzando la Corte territoriale oltre all’utilizzo di strumenti atti ad offendere anche la presenza, sul posto, di altri lavoratori, con amplificazione, dunque, del disvalore della condotta medesima, in quanto «modello diseducativo e disincentivante dell’adempimento degli obblighi di lavoro e di reciproco rispetto») sia da un punto di vista soggettivo, evidenziandosi in sentenza la pervicacia – denotante l’intensità dell’elemento psicologico – del comportamento aggressivo e violento «viepiù manifestata dalla circostanza (…) che la zuffa cessò solo quando l’antagonista riuscì a sottrarsi alla presa dell’appellante (id est: odierno ricorrente) e, divincolandosi, a fuggire»;
5. la sentenza è dunque immune dalle critiche mosse ed il ricorso va, complessivamente, respinto;
6. le spese vanno regolate secondo soccombenza;
7. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis del citato art. 13;
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali nella misura del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. nr. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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