CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 agosto 2018, n. 21255

Contribuzione dovuta – Omissione contributiva – Regolarizzazione

Rilevato che

la Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza n. 1252/2012, ha respinto l’appello avverso la pronuncia del Tribunale della stessa sede, con cui era stata ridotta, stante il verificarsi di uno sgravio per avvenuto parziale versamento, l’importo della somma pretesa dall’I.N.P.S. nei riguardi di R.C. per contribuzione dovuta rispetto a suoi lavoratori dipendenti;

la Corte disattendeva sia la pretesa di applicazione delle sanzioni nella minor misura prevista per il caso di c.d. omissione contributiva (art. 116, co. 8, lett. b, L. 388/2000) rispetto alla pretesa di esse, da parte dell’I.N.P.S., nella misura propria dell’evasione (art. 116, co. 8, lett a L. cit), ritenendo generica e comunque nuova e, come tale, inammissibile, la doglianza con cui il C. aveva lamentato l’inclusione nell’ambito della cartella della contribuzione inerente l’anno 2005;

il C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso dell’I.N.P.S., in proprio e quale mandatario della società di cartolarizzazione S.C.C.I. s.p.a.;

Equitalia è rimasta intimata;

Considerato che

con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., per omessa ed insufficiente valutazione di un fatto decisivo, nonché per violazione dell’art. 437 c.p.c., in quanto la deduzione secondo cui per l’anno 2005 la contribuzione era stata regolarizzata non era generica, ma fondata su un inciso del verbale di accertamento e rientrava nell’ambito dell’eccezione di irragionevolezza del verbale ispettivo sollevata già in primo grado, nella fase della discussione, sostenendosi altresì che il giudice avrebbe dovuto procedere d’ufficio agli atti istruttori necessari a dirimere l’incertezza dei fatti costitutivi inerenti i diritti in contestazione;

la contestazione del C. concerne in effetti un’eccezione in senso lato, quale è il pagamento (Cass. 14 luglio 2015, n. 14654; Cass. 13 giugno 2012, n. 9610) come tale rilevabile d’ufficio e non soggetta quindi, nella misura in cui essa emerga dagli atti di causa, a preclusione per quanto attiene alla sua valorizzazione processuale;

nel caso di specie il dato fondante di tale eccezione emergerebbe dallo stesso verbale ispettivo e poteva dunque essere rilevato anche in appello; tuttavia è incontestabile che quanto addotto dalla Corte d’Appello rispetto alla genericità della difesa è del tutto plausibile, in quanto il fatto che il verbale di accertamento riportasse la dizione su cui fa leva il ricorrente («mesi regolarizzati nell’anno: tutti») non significa necessariamente che vi fosse stato il loro pagamento, ben potendo riguardare il fatto che con il verbale si disponeva la regolarizzazione di tutti i mesi di quell’anno, mentre nulla di più specifico, rispetto al reale pagamento, risulta concretamente allegato; la pronuncia di rigetto dell’appello formulata dalla Corte calabrese in definitiva resiste, con riferimento alla valutazione di genericità e quindi di insufficienza della prova, alle critiche sollevate sul punto in questa sede;

il terzo motivo, logicamente preliminare rispetto al secondo, censura, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c, la violazione e falsa applicazione dell’art. 116, co. 8, lett. a) e b) L. 388/2000 per non avere la Corte territoriale spiegato in maniera sufficiente le ragioni per le quali la fattispecie doveva essere qualificata come di evasione contributiva, con inadeguata valutazione dell’elemento soggettivo del dolo, atteso che le posizioni delle lavoratrici interessate risultavano acquisite al sistema telematico dell’I.N.P.S. e le prestazioni rese e pagate emergevano da altri documenti dell’impresa, sicché non si poteva sostenere un loro occultamento intenzionale;

il motivo è infondato in quanto il ricorrente fa leva sul fatto che vi fosse stata denuncia dei rapporti di lavoro presso l’I.N.P.S. ed essi risultassero dal libro matricola, dai Cud rilasciati ai dipendenti e da altri documenti (fogli paga; pratiche per assegni familiari), ma non mette in dubbio che non vi fosse stata la trasmissione delle denunce contributive mensili (DM10), sicché correttamente la Corte territoriale ha fatto applicazione del principio secondo cui «in tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS (attraverso i cosiddetti modelli DM10) di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorché registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” di cui all’art. 116, comma 8, lett. B), della legge n. 388 del 2000, e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lettera A) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti; conseguentemente, grava sul datore di lavoro inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, onere che non può tuttavia reputarsi assolto in ragione della avvenuta corretta annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta» (Cass. 25 agosto 2015, n. 17119; Cass. 25 giugno 2012, n. 10509; Cass. 27 dicembre 2011, n. 28966), prova che tanto meno può dirsi raggiunta in un caso, come quello di specie, in cui l’omissione riguarda plurime mensilità e denota quindi il permanere dell’intento elusivo;

venendo infine al secondo motivo, con esso si lamenta il fatto che la Corte distrettuale, nonostante la tesi sostenuta dalla ditta rispetto alle sanzioni trovasse fondamento in un pregresso orientamento giurisprudenziale, non abbia disposto la compensazione delle spese di lite;

il motivo è rubricato ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., come violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ma quella che si denuncia è l’omessa considerazione – evidentemente motivazionale – delle ragioni che secondo il ricorrente avrebbero giustificato la compensazione;

l’assunto non può trovare accoglimento, in quanto la decisione basata sul criterio della soccombenza, ove questa ricorra, è del tutto insindacabile ed essendo altresì consolidato il principio per cui «in tema di spese processuali, solo la compensazione dev’essere sorretta da motivazione, e non già l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato, atteso che il vizio motivazionale (…), ove ipotizzato, sarebbe relativo a circostanze discrezionalmente valutabili e, perciò, non costituenti punti decisivi idonei a determinare una decisione diversa da quella assunta» (Cass. 23 febbraio 2012, n. 2730; Cass. 28 novembre 2003, n. 17692);

pertanto il ricorso va integralmente disatteso, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità nei riguardi dell’unica parte costituitasi;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere all’I.N.P.S. le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.