CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 aprile 2020, n. 8267
Fallimento – Esclusione dallo stato passivo – Difetto di prova – Mancata costituzione dalla società datrice della riserva matematica presso l’Inps ex art. 13 L. 1338/1962 – Esclusione dell’esistenza di prove circa assunzione del lavoratore in Italia – Alcun collegamento del rapporto di lavoro con l’ordinamento italiano, presupposto di applicazione della tutela previdenziale ai lavoratori italiani operanti all’estero in Paesi extracomunitari
Rilevato che
con decreto 3 febbraio 2017, il Tribunale di Roma rigettava l’opposizione proposta, ai sensi degli artt. 53 d.lg. 270/1999 e 98 I. fall., da E.O.F. avverso lo stato passivo di A. A.L.I. s.p.a. in a.s., dal quale era stato escluso, per difetto di prova, il suo credito insinuato in via privilegiata di € 252.346,00, a titolo di mancata costituzione dalla società datrice della riserva matematica presso l’Inps a norma dell’art. 13 I. 1338/1962, con effetti equipollenti alla contribuzione che essa avrebbe dovuto corrispondere per l’intera durata del periodo lavorato alle sue dipendenze (sempre all’estero dall’11 aprile 1966 al 30 novembre 1984);
avverso tale sentenza il lavoratore, con atto notificato il 3 marzo 2017, ricorreva per cassazione con due motivi, cui resisteva la società con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.;
Considerato che
1. il ricorrente deduce violazione dell’art. 1 I. 398/1987, per erronea interpretazione della normativa denunciata, da leggere nel secondo comma in riferimento ai “lavoratori assunti nel territorio nazionale o” (congiunzione disgiuntiva, non “e”, congiunzione copulativa, come invece letta dal Tribunale) “trasferiti da detto territorio … in Paesi extracomunitari”, nonostante la documentazione, allegata alla domanda di insinuazione, di stipulazione del contratto di lavoro tra le parti in Italia, pertanto sufficiente alla costituzione dell’obbligo datoriale di protezione sociale, in assenza di alcun principio di temporaneità di prestazione lavorativa all’estero; senza considerazione dell’art. 1, primo comma della stessa legge (di obbligo di iscrizione alle indicate forme di previdenza e assistenza sociale dei “lavoratori italiani operanti all’estero” in Paesi extracomunitari privi di accordi di sicurezza sociale), non essendo contestato lo status di cittadino italiano del lavoratore, accertato con sentenza della Corte d’appello di Roma n. 4555/2011 (primo motivo);
2. esso è inammissibile;
2.1. la violazione di legge denunciata non si configura, in assenza di una corretta deduzione del vizio di error in iudicando, consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) e che postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso; sicché, alla denuncia del vizio di sussunzione è estranea ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (Cass. 13 marzo 2018, n. 6035); e ciò in quanto l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155);
2.2. d’altro canto, il Tribunale ha escluso l’esistenza di alcuna prova dell’assunzione del lavoratore in Italia, e pertanto di alcun collegamento del suo rapporto di lavoro con l’ordinamento italiano, che è il presupposto di applicazione della tutela previdenziale ai lavoratori italiani operanti all’estero in Paesi extracomunitari, anche con riferimento al periodo precedente la data del 9 gennaio 1987, fissata dal d.l. 317/1987, conv. in I. 398/1987, secondo il puntuale riferimento dell’art. 1 ai “lavoratori italiani assunti nel territorio nazionale o trasferiti da detto territorio per l’esecuzione di opere, commesse o attività lavorative in Paesi extracomunitari” (Cass. 19 gennaio 1995, n. 540);
2.3. tale conclusione è stata raggiunta sulla base dell’accertamento in fatto di assenza di documentazione probatoria (sul rilievo, al primo capoverso di pg. 4 del decreto, secondo cui “in sede di ammissione al passivo è stata depositata solamente una lettera, data 1 marzo 1967 in Copenaghen, con la quale A. ha annunciato all’opponente … il trasferimento presso Stoccolma in qualità di addetto commerciale”); accertamento che è stato oggetto di una contestazione generica relativa all’esistenza di una “documentazione attestante la stipulazione in Italia” del suddetto rapporto (al secondo capoverso di pg. 6 del ricorso): ma essa né è stata puntualmente indicata, né tanto meno trascritta, con il conseguente difetto di specificità sotto questo profilo del motivo, in violazione della prescrizione dell’art. 366, primo comma, n.4 e n. 6 c.p.c. (Cass. 18 novembre 2015, n. 23575; Cass. 15 gennaio 2019, n. 777);
3. il ricorrente deduce poi violazione dell’art. 30 l. 87/1953, per avere il giudice capitolino erroneamente escluso (“altresì” ritenuto) l’applicabilità degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 369/1985 (di incostituzionalità degli artt. 1 I. 1835/1935, 1 e 4 d.p.r. 1125/1965, per la limitata applicazione della tutela previdenziale e antinfortunistica dei lavoratori italiani alle dipendenze di imprese italiane in Stati esteri con i quali non sia esistente una convenzione di protezione sociale dal contenuto conforme ai principi costituzionali interni in materia di previdenza sociale) al caso di specie, per la cessazione del rapporto tra le parti in data anteriore a quella della sua pubblicazione, pur in assenza di esaurimento dei suoi effetti proprio ai fini rivendicati dal lavoratore (secondo motivo);
4. anch’esso è inammissibile;
4.1. il ricorrente manca, infatti, di interesse ad una tale censura, che si appunta su un passaggio argomentativo avente natura di mero completamento motivo (“In ultimo deve comunque osservarsi che la citata sentenza della Corte costituzionale non può trovare applicazione … “: così al primo capoverso di pg. 8 del decreto), avendo in ogni caso il Tribunale escluso l’applicabilità della sentenza della Corte costituzionale “nei casi”, come quello di specie, di “totale assenza di qualsiasi collegamento con l’ordinamento nazionale” (così al penultimo capoverso di pg. 7 del decreto): pertanto, esso è privo di portata decisoria, siccome argomentazione svolta ad abundantiam con valore di mero obiter dictum, comportante appunto la carenza di interesse al ricorso per cassazione (Cass. 18 dicembre 2017, n. 30354; Cass. 25 settembre 2018, n. 22782);
4.2. quand’anche, tuttavia, esso fosse qualificabile alla stregua di seconda ratio decidendi, il motivo sarebbe parimenti inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse, in quanto il suo eventuale accoglimento non potrebbe comunque condurre alla cassazione della decisione stessa, per intervenuta definitività della prima ratio, disattesa nello scrutinio del primo motivo (Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613);
5. pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la regolazione delle spese di giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535);
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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