CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 aprile 2021, n. 11162
Tributi – Accertamento – Obblighi in materia di monitoraggio fiscale – Detenzione di capitali in Svizzera – Omessa compilazione del quadro RW – Prova di non imponibilità delle operazioni e/o della detenzione di capitali – Legittimità
Rilevato che
1. M.C.D.T., N.Q. e L.Q., nella qualità di eredi di M.Q., impugnavano, con distinti ricorsi, gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate aveva accertato, in relazione agli anni d’imposta 2005 e 2006, maggior reddito imponibile ai fini Irpef, all’esito di verifica del corretto adempimento degli obblighi in materia di monitoraggio fiscale, imposti dagli artt. 2 e 4 del d.l. n. 167 del 1990, convertito dalla legge n. 227 del 1990, dalla quale era emerso che M.Q., sebbene detenesse disponibilità finanziarie presso la banca svizzera HSBC di Ginevra, aveva omesso di compilare il quadro RW.
2. La Commissione tributaria provinciale, riuniti i ricorsi, li accoglieva, ritenendo fondata l’eccezione di difetto di motivazione degli atti impositivi per mancata allegazione agli stessi del prodromico processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza.
3. La sentenza veniva impugnata dall’Ufficio dinanzi alla Commissione tributaria regionale che, con la sentenza in questa sede impugnata, rigettava l’impugnazione.
Osservava, preliminarmente, che gli accertamenti impugnati traevano origine da un processo verbale di constatazione del 7 luglio 2011, notificato a M.Q., che non era stato allegato agli atti impositivi notificati ai suoi eredi; pur se non provato, non poteva ritenersi che il contenuto del processo verbale di constatazione fosse sconosciuto agli eredi che risultavano destinatari di analoghi processi verbali e di conseguenti atti impositivi per identiche violazioni.
Rilevava che le violazioni contestate erano state accertate grazie all’utilizzo di informazioni acquisite presso l’Amministrazione fiscale francese attraverso i canali di collaborazione informativa internazionale previsti dalla Direttiva 77/799 CEE e dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia del 5 ottobre 1989; anche se acquisite illegalmente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29433 del 10 luglio 2013, aveva previsto la loro utilizzabilità quale spunto di indagine, con la conseguenza che i verificatori ne potevano fare uso a condizione che l’accertamento fosse sorretto da ulteriori elementi probatori. Riteneva, tuttavia, che l’Ufficio non avesse supportato la pretesa fiscale erariale con <<ulteriori elementi>>, avendo anzi omesso di valutare la documentazione prodotta dai ricorrenti, in particolare gli estratti conto della Banca al 31 dicembre 2005 ed al 31 dicembre 2006, oltre che la nota del 13 aprile 2011 della Banca, dai quali risultava che alle predette date il conto 8112 MQ, intestato a M.Q., presentava un saldo pari a <<zero>> ed al 31 dicembre 2007 un saldo di euro 10.890,77 per compensi relativi alla collaborazione prestata dallo stesso Quinto, nonché la ulteriore nota del 23 giugno 2011 da cui emergeva che il conto 92307, indicato nel processo verbale di constatazione, non era in alcun modo riconducibile a M.Q. o ai componenti del suo nucleo familiare. Escludeva, pertanto, la fondatezza della pretesa fiscale.
4. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della suddetta decisione, con due motivi.
L.Q., N.Q. e M.C.D.T. hanno depositato atto di costituzione.
Considerato che
1. Con il primo motivo – rubricato: Violazione della Direttiva n. 77/799/CEE (nel testo vigente ratione temporis risultante anche a seguito delle modifiche di cui alle Direttive 2004/56/CE e 2004/106/CE) della legge n. 20/1992 (di ratifica della Convenzione internazionale tra Francia ed Italia, in particolare art. 27) e falsa applicazione degli artt. 191 e 192 cod. proc. pen., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – sostiene che la decisione impugnata sarebbe errata per diversi ed autonomi profili.
Il giudice di merito, secondo la ricorrente, è partito dall’errato presupposto che fosse pacifica l’originaria acquisizione illecita dei dati, a fronte di una legittima modalità di acquisizione da parte dell’Amministrazione finanziaria italiana; non tiene conto, inoltre, che l’Autorità francese, nel trasmettere i dati della Lista, aveva compiuto una delibazione in ordine alla liceità della trasmissione, ben potendo rifiutare o impedire il passaggio di informazioni in presenza di un divieto interno di raccolta o di utilizzazione delle informazioni (sulla base della Direttiva UE e della convenzione bilaterale Italia-Francia).
2. Con il secondo motivo, deducendo la falsa applicazione degli artt. 191 e 192 cod. proc. pen., degli artt. 1, 4 e 6 del d.l. n. 167 del 1990, dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2009, nonché degli artt. 38 e 41 -bis del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per avere ritenuto esistente nel nostro ordinamento un principio di <<inutilizzabilità della prova illecita>>, sebbene la tutela della inutilizzabilità, prevista dall’art. 191 citato, non rappresenti una regola generale, e sostiene che non vi sono ragioni per non dare continuità all’orientamento che valorizza il principio di tassatività dei casi di inutilizzabilità della prova nel procedimento tributario – salva la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale -, principio che conduce a ritenere, in difetto di una espressa comminatoria di segno contrario, validamente utilizzate le prove acquisite nel caso di specie.
Fa, pure, rilevare, che l’accertamento a carico del contribuente si fonda sulla violazione degli obblighi di dichiarazione previsti dal d.l. n. 167 del 1990, ed in particolare degli artt. 4 e 6, che prevedono una presunzione legale relativa in ordine alla imputabilità quali maggiori redditi delle somme detenute all’estero da contribuenti residenti in Italia e non dichiarate al Fisco; la Commissione regionale avrebbe, pertanto, errato nel richiedere un approfondimento <<indiziario>>, dal momento che: a) la scheda cliente (cd. fiche) era chiaramente intestata al contribuente e conteneva numerosi e precisi dati sensibili relativi non solo a M.Q., ma anche al coniuge M.C.D.T., cointestataria del conto estero; b) dalla scheda cliente emergeva l’intestazione dei conti in capo al contribuente; c) M.Q. non aveva mai sollevato contestazioni, né in sede di verifica fiscale, né in sede di osservazioni al processo verbale di constatazione; c) tali risultanze probatorie avevano trovato riscontro nella conferma proveniente dalla stessa Banca HSBC quanto alla titolarità di un rapporto da parte del Quinto, sia pure con un saldo pari a zero all’ultimo giorno dell’anno solare.
Sostiene, quindi, che la C.T.R. avrebbe dovuto procedere ad un accertamento nel merito della pretesa tributaria, verificando se, posto come certo il pacifico possesso di somme e altri elementi reddituali in Svizzera presso la HSBC Private Bank di Ginevra, la parte avesse fornito la prova della non imponibilità delle operazioni e/o della detenzione di capitali.
3. I motivi, strettamente connessi, pur giuridicamente fondati, non giovano alla parte ricorrente per le ragioni che di seguito si espongono.
3.1. In conformità ai principi di diritto enunciati da questa Corte con le ordinanze gemelle n. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015, occorre ribadire, in linea generale, che il diritto interno, sia in materia di imposte dirette sia in materia di imposta sul valore aggiunto, consente l’acquisizione nel corso dell’accertamento fiscale e, successivamente, nel processo tributario, di elementi comunque acquisiti e, dunque, di prove atipiche, o di dati ottenuti in forme diverse da quelle regolamentate, secondo i canoni tipici della prova per presunzioni.
Gli elementi assunti a fonte di presunzioni non debbono, peraltro, essere plurimi, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, purché preciso e grave, mentre la valutazione della sua rilevanza non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e non contraddittoria (Cass., sez. 5, 15/01/2014, n. 656).
La prova per presunzioni può, pertanto, essere costituita anche da acquisizioni provenienti da una autorità straniera nell’ambito di direttive comunitarie o di accordi bilaterali.
3.2. Nel caso di specie, la fonte è costituita dalla direttiva 77/799/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1977, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte.
Come è stato chiarito dalla Corte di giustizia – Corte Giust., Grande Sezione, 22 ottobre 2013, causa C-276/12, la direttiva 77/799 non tratta del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto di quest’ultima, dato che spetta solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative norme; ne discende che il contribuente può contestare le informazioni che lo riguardano trasmesse all’amministrazione fiscale dello Stato membro richiedente secondo le norme e le procedure applicabili nello Stato membro interessato e spetta al giudice nazionale stabilire il valore probatorio che deve essere riconosciuto, nel caso specifico, all’informazione comunicata da uno Stato membro in base alla direttiva 77/799.
La direttiva 77/799/CEE (art. 8) non impone l’obbligo di trasmettere informazioni quando la legislazione o la pratica amministrativa non autorizza l’autorità competente dello Stato che dovrebbe fornire le informazioni a raccogliere o utilizzare dette informazioni o quando porterebbe a divulgare un segreto commerciale, industriale o professionale o un’informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico.
Conseguentemente la cooperazione informativa non incontra un limite nel cd. segreto bancario, come chiarisce la direttiva 2011/16/UE, all’art. 18 (<<…non può in nessun caso essere interpretato nel senso di autorizzare l’autorità interpellata di uno Stato membro a rifiutare di fornire informazioni solamente perché tali informazioni sono detenute da una banca, da un altro istituto finanziario, da una persona designata o che agisce in qualità di agente o fiduciario o perché si riferiscono agli interessi proprietari di una persona>>); e ciò è del tutto coerente con il diritto interno, stante la disciplina in materia di accesso ai dati bancari introdotta dall’art. 18 della I. 30 dicembre 1991, n. 413, non costituendo il segreto bancario, anche nel regime anteriore, un principio inderogabile (Cass., sez. 5, 7/11/2005, n. 21580).
3.3. Anche se i dati costituenti il frutto di cooperazione informativa intracomunitaria restano contestabili dal contribuente, il quale può, dunque, mettere in discussione, nell’ambito di un procedimento tributario nazionale, la correttezza delle informazioni fornite da altri Stati membri ai sensi dell’art. 2 della direttiva 77/799/CEE e pur dovendo negarsi che la mera acquisizione di informazioni mediante lo strumento di cooperazione comunitaria abbia la capacità di <<purgare>> gli elementi acquisiti da eventuali illegittimità o vizi per la sola derivazione da autorità estere, deve parimenti escludersi la inutilizzabilità degli elementi trasmessi dall’autorità fiscale francese in ragione della loro provenienza illecita – ossia dal trafugamento dei dati bancari da parte di un ex dipendente della banca svizzera HSBC, Hervé Falciani.
La cooperazione informativa in tema di disponibilità bancarie presso istituti esteri non trova, infatti, ostacolo nel fatto che i dati sensibili siano forniti alle autorità italiane dalle autorità di un Paese membro dell’UE che le riceva da un dipendente di una banca che li abbia illecitamente sottratti dai relativi archivi informatici.
La Corte europea, esaminando il profilo relativo alla legittimità, ai sensi dell’art. 6 CEDU, dell’utilizzo all’interno del processo della prova così acquisita, ha affermato che l’utilizzazione processuale di prove illegalmente acquisite non costituisce di per se stessa violazione convenzionale dovendosi valutare se la procedura nel suo insieme abbia rispettato i canoni del giusto processo ed i diritti della difesa (caso Heglas c. Repubblica Ceca); analoghe soluzioni sono state adottate nei casi P.G. e J.H. c. Regno Unito e Khan c. Regno Unito.
3.4. Peraltro, con la ordinanza n. 8605 del 2015 citata, si è già avuto modo di chiarire che la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20), ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 cod. proc. pen., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto al fini della <<applicazione della legge penale>> (Cass., sez. 5, 12/11/2010, nn. 22984, 22985 e 22986; Cass., sez. 5, 25/07/2012, n. 13121).
Si riconosce quindi, generalmente, che <<… non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sé, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi In cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’Inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) (cfr. Cass., sez. 5, 25/11/2011, n. 24923). Tale prospettiva si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 191 cod. proc. pen., a norma del quale <<le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate>>.
Le considerazioni che precedono conducono a ritenere che, in materia tributaria, la irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento non comporta, di per sé e in assenza di specifica previsione, la loro inutilizzabilità, salva solo l’ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (Cass., sez. 5, 27/02/2015, n. 4066; Cass., sez. 5, 16/12/2011, n. 27149).
3.5. La inutilizzabilità degli elementi desunti dalla cd. <<lista Falciani>>, d’altro canto, non può farsi discendere dalla condotta illecita a monte dell’azione dell’Ufficio fiscale francese, essendo essa riferibile personalmente al solo Hervè Falciani.
Sul punto questa Corte, con le richiamate ordinanze nn. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015, ha precisato che <<…l’eventuale responsabilità penale dell’autore materiale della lista – questione che esula dalla vicenda processuale odierna, non risultando la condotta nemmeno posta in essere in Italia (v. art. 7 cod. pen.rispetto alle ipotesi delittuose per le quali è astrattamente profilabile una competenza del giudice italiano in relazione a condotte commesse all’estero) – e, comunque, l’illiceità della di lui condotta nei confronti dell’istituto bancario presso il quale operava non è in grado di determinare l’inutilizzabilità della documentazione anzidetta nel procedimento fiscale a carico del contribuente utilizzata dal Fisco italiano al quale è stata trasmessa dalle autorità francesi – v. sul punto, la pronunzia della Cassazione penale francese del novembre 2013 (Cour de Cassation criminelle, 27.11.2014, ric. 13-85042) che ha espressamente riconosciuto l’utilizzazione – addirittura in ambito penale – della Lista Falciani sul presupposto che al confezionamento eventualmente illecito delle prove non aveva cooperato l’autorità pubblicai.
3.6. Va, pertanto, ribadito principio di diritto già espresso da questa Corte con la sentenza n. 16951 del 19 agosto 2015, e confermato anche di recente (Cass., sez. 5, 29/11/2019, n. 31243; Cass., sez. 5, 5/12/2019, n. 31779), secondo cui <<L’amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono perciò utilizzabili nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, senza che assuma rilievo l’eventuale illecito commesso dal dipendente stesso e la violazione dei doveri di fedeltà verso l’istituto datore di lavoro e di riservatezza dei dati bancari, che non godono di copertura costituzionale e di tutela legale nei confronti del fisco medesimo. Spetta al giudice di merito, in caso di rilievi avanzati dall’Amministrazione, valutare se i dati in questione siano attendibili, anche attraverso il riscontro delle contestazioni mosse dal contribuente>>.
4. Nel caso di specie, la C.T.R., affermando che le informazioni desunte dalla cd. Lista Falciani possano essere utilizzate solo <<quale spunto di indagine>> e a condizione che l’accertamento sia supportato da «ulteriori elementi probatoria, si è discostata dal principio di legittimità, espresso proprio con riguardo alla Lista Falciani, per cui anche un solo indizio può giustificare la pretesa fiscale, se grave e preciso.
Come ripetutamente affermato da questa Corte, l’Ufficio può provare l’esistenza di redditi non dichiarati dal contribuente, e detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata, sulla base di presunzioni semplici gravi, precise e concordanti (art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973 con riguardo alla rettifica del reddito delle persone fisiche). Infatti, in tema di presunzioni semplici, gli elementi di prova non devono essere più di uno (ancorché l’art. 2729 cod. civ. si esprima al plurale), potendo il giudice fondare il proprio convincimento anche su uno solo di essi, purché grave e preciso, dovendo il requisito della <<concordanza>> ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi (Cass., sez. 1, 26/09/2018, n. 23153; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29633). In particolare, anche in terna di prova civile nel giudizio conseguente ad accertamento tributario, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di redditi maggiori di quelli dichiarati può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa, e la relazione fra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevolezza e probabilità (Cass., sez. 5, 15/01/2014, n. 656; Cass., sez. 6-5, 28/04/2015, n. 8605; Cass., sez. 6-5, 12/02/2018, n. 3276, la quale ha affermato, proprio con riferimento alle risultanze della lista Falciani, che l’Amministrazione finanziaria può fondare la propria pretesa anche su un unico indizio, se grave e preciso, ossia dotato di elevata valenza probabilistica; Cass., sez. 5, 29/11/2019, n. 31243).
5. Tanto premesso, il Collegio non può, tuttavia, esimersi dal rilevare che, sebbene abbiano erroneamente ritenuto che l’Ufficio fosse tenuto a supportare la pretesa erariale con <<ulteriori elementi»», i giudici di merito hanno comunque accertato che la documentazione prodotta dagli eredi di M.Q. – in particolare gli estratti di conto corrente della Banca HSBC al 31 dicembre 2005 ed al 31 dicembre 2006 e le note provenienti dalla stessa Banca – provavano in modo inequivocabile che nei periodi di imposta oggetto di accertamento l’unico conto intestato a M.Q., contraddistinto dal n. 8112 MQ, presentava un saldo pari a <<zero>> e, soprattutto, che il conto corrente con IBAN terminante con la numerazione 92307, indicato nel processo verbale, non fosse in alcun modo riconducibile al contribuente o ai componenti del suo nucleo familiare.
L’apprezzamento di fatto operato dai giudici regionali non è sindacabile in sede di legittimità, sicché le doglianze fatte valere dalla ricorrente, la quale insiste nel ribadire che i controricorrenti non hanno offerto prova della non imponibilità delle disponibilità finanziarie detenute all’estero e che la scheda cliente (cd. fiche) risultava intestata a M.Q. e contiene dati riferibili al rapporto intrattenuto dal contribuente e dal coniuge (M.C.D.T.) con la Banca, come confermato dallo stesso istituto bancario svizzero, si sostanziano nel richiedere al giudice di legittimità la rinnovazione di un giudizio di fatto, in modo da ottenere la sostituzione della valutazione operata dai giudici di merito con una più consona alle proprie aspirazioni.
Invero, laddove la ricorrente lamenta che la C.T.R. sarebbe incorsa in vizi di violazione di legge e censura impropriamente la sentenza impugnata allegando un errore di diritto, piuttosto che un vizio di motivazione, tende, in realtà a sollecitare una rivalutazione degli elementi probatori già sottoposti al vaglio dei giudici di appello ed una rinnovazione del giudizio afferente ad un accertamento di fatto che risulta congruamente motivato e che non è perciò suscettibile di rimeditazione nei limiti del controllo istituzionale che può aver luogo in questa sede.
Ne discende che le censure rivolte alla decisione impugnata non si sottraggono alla declaratoria di inammissibilità.
6. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite, in difetto di attività difensiva delle parti resistenti.
Non sussiste l’obbligo legale del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato a carico della ricorrente soccombente (art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002), poiché esso non può avere luogo nei confronti di quelle parti, come le amministrazioni dello Stato, che sono istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. U, 25/11/2013, n. 26280).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
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