CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 aprile 2022, n. 13362
Omissione contributiva – Cartella esattoriale – Maxisanzione – Prestazione lavorativa di addetto ai servizi di vigilanza – Prova – Dichiarazioni del lavoratore agli ispettori
Rilevato che
con la sentenza n. 415 del 2016, la Corte d’appello Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado (di parziale accoglimento dell’opposizione a cartella proposta da T. S. s.r.l. nei riguardi dell’INPS e relativa a contribuzione omessa per la posizione dei lavoratori B., M. e C.), ha dichiarato non dovuti i contributi e le sanzioni relativi al dipendente B. e non dovute le somme pretese a titolo di sanzioni civili, relativamente alla posizione del lavoratore M.;
ad avviso della Corte territoriale, per quanto ora di interesse, doveva ritenersi illegittima la pretesa riguardo alle sanzioni applicate al M., che effettivamente aveva reso attività subordinata dal 1.9.2009 al 31 ottobre 2009, in quanto era emerso che la cd. maxi sanzione era stata applicata anche per il periodo di tempo anteriore alla scadenza del termine previsto per il pagamento dei contributi e ciò, in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 254 del 2014, che aveva dichiarato incostituzionale l’art. 36 bis co. 7 lett. a d.l. 223 del 2006 conv. in I. n. 248 del 2006, ove era previsto l’importo non inferiore ad euro 3000 per ciascun lavoratore indipendentemente dalla durata della violazione accertata; la Corte non ha ritenuto che residuasse la possibilità di valutare come legittima l’irrogazione di alcuna sanzione secondo la disciplina previgente, in difetto di appello incidentale dell’INPS;
riguardo alla posizione di C., la Corte ha ritenuto provata la prestazione lavorativa di addetto ai servizi di vigilanza presso O. di Pavia, in ragione dell’attività istruttoria espletata, costituita dalle dichiarazioni del lavoratore agli ispettori, non smentite da testimonianze acquisite al processo;
per quanto riguarda la posizione del B., esaminata l’istruttoria espletata, è stata esclusa la subordinazione;
la sentenza ha poi confermato la correttezza del c.c.n.l. delle aziende terziarie quale parametro di riferimento del minimale contributivo, mentre non ha ritenuto verosimile che l’indicazione in tal senso, fornita all’INPS dalla stessa società, derivasse da un errore del commercialista mentre il ccnl effettivamente applicato sarebbe quello del settore portierato;
avverso tale sentenza ricorre la società con due motivi;
l’INPS ha resistito con controricorso e proposto autonomo ricorso, la cui notifica risulta richiesta successivamente a quella di T. S. s.r.I., articolato su due motivi;
T. S. s.r.l. ha resistito con controricorso;
Considerato che
preliminarmente, va dato atto che trattandosi di due ricorsi proposti avverso la medesima sentenza, va fatta applicazione del principio secondo il quale nei procedimenti con pluralità di parti, una volta avvenuta ad istanza di una di esse la notificazione del ricorso per cassazione, le altre parti, alle quali il ricorso sia stato notificato, debbono proporre, a pena di decadenza, i loro eventuali ricorsi avverso la medesima sentenza nello stesso procedimento e, perciò, nella forma del ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 371 c.p.c., in relazione all’art. 333 dello stesso codice, salva la possibilità della conversione del ricorso comunque presentato in ricorso incidentale – e conseguente riunione ai sensi dell’art. 335 c.p.c. – qualora risulti proposto entro i quaranta giorni dalla notificazione del primo ricorso principale, posto che in tale ipotesi, in assenza di una espressa indicazione di essenzialità dell’osservanza delle forme del ricorso incidentale, si ravvisa l’idoneità del secondo ricorso a raggiungere lo scopo (Cass. n.33809 del 2019), per cui il ricorso della società, la cui notifica risulta richiesta in data 20 ottobre 2016, deve ritenersi principale, mentre quello dell’INPS, la cui notifica risulta richiesta il 22 ottobre 2016, deve ritenersi incidentale;
con il primo motivo del ricorso principale, si denuncia l’omessa valutazione su punti fondamentali e decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c. n. 5), e violazione dell’art. 115 c.p.c., posto che la sentenza impugnata avrebbe commesso il medesimo errore da cui era affetta la sentenza di primo grado, relativamente alla mancata considerazione di alcuni elementi di prova (documentali e testimoniali) allegati dalla società e da ritenersi di univoca interpretazione e tali da invalidare le acquisizioni probatorie utilizzate dalla Corte territoriale e ciò in riferimento alla posizione de del lavoratore C.;
con il secondo motivo del ricorso principale, si denuncia l’omessa pronuncia su punti fondamentali della controversia e la violazione dell’art. 115 c.p.c., oltre che la violazione degli artt. 1321, 1372, 2070, 2099 in relazione alla individuazione del c.c.n.I applicabile, al rapporto di lavoro di L. M. e F. A. con T. S. s.r.l. ed al diritto del primo di percepire l’indennità di disponibilità;
la ricorrente lamenta la scarsa ed erronea attenzione che la Corte d’appello avrebbe prestato nel complesso del materiale istruttorio acquisito, alle prove testimoniali raccolte e di non aver colto l’inattendibilità del teste C. nei cui confronti era stata pure sporta denuncia presso la Procura della Repubblica;
con il primo motivo del ricorso incidentale, proposto dall’INPS, si deduce la violazione dell’art. 436 c.p.c., con riferimento all’art. 360, primo comma n.4 c.p.c., là dove la Corte territoriale aveva ritenuto inammissibile, in quanto non proposta con appello incidentale, la domanda dell’INPS di rideterminare secondo le disposizioni previgenti all’art. 36 bis, comma 7, d.l. n. 223 del 2006, le sanzioni derivanti dalla violazione delle disposizioni sul minimale contributivo, a seguito della pronuncia di incostituzionalità della citata disposizione di cui a Corte Cost. n. 254 del 2014, e ciò sebbene fosse stata formulata espressa richiesta nella memoria di costituzione in appello;
con il secondo motivo del ricorso incidentale, sempre in relazione alla medesima questione, si denuncia la violazione dell’art. 116 I. n. 388 del 2000 e dell’art. 3, comma terzo, d.l. n. 12 del 2002 conv. con modif. nella legge n. 73 del 2002, posto che la sentenza avrebbe dovuto, alla luce dell’accertamento compiuto quanto al lavoratore M., riconoscere la legittimità della sanzione pari ad Euro 512,00;
entrambi i motivi del ricorso principale, connessi e da trattare congiuntamente, sono infondati; la sentenza non ha violato alcuna delle disposizioni citate ma, facendo uso corretto dei poteri di apprezzamento propri del giudice di merito, ha accertato in fatto la natura subordinata dell’attività di lavoro prestata dal C. e dal B., nei termini dallo stesso riferiti in sede di accertamento ispettivo (rapporto iniziato l’ultima settimana di maggio 2009 e sino al 20 agosto 2009, in qualità di addetto alla vigilanza del punto vendita O. di Pavia) e l’attività svolta dalla società, dalla quale deriva l’individuazione del contratto collettivo nazionale di lavoro richiamato dalla I. n. 338 del 1989 per la determinazione del minimale contributivo;
secondo il condiviso orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., n. 15073 del 2008 e numerose successive conformi), i verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato, il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso di altri elementi renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori;
quanto, in particolare, al rilievo attribuito dai giudici del gravame alle dichiarazioni rese agli ispettori verbalizzanti, nell’immediatezza dei fatti, dai lavoratori, convergenti con quanto ai medesimi ispettori dichiarato dal legale rappresentante della società in ordine all’erogazione di retribuzioni non corrispondenti al minimale contributivo, va rilevato che un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., può porsi solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto, a base della decisione, prove non dedotte dalle parti ovvero disposte, d’ufficio, al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; infine perchè abbia invertito gli oneri probatori;
la Corte di merito si è dunque uniformata alla richiamata giurisprudenza di legittimità sul valore da attribuire ai verbali di accertamento amministrativi e, in particolare ai verbali ispettivi dell’INPS, la cui attendibilità può essere infirmata solo da una prova contraria (v., anche Cass. 5 settembre 2017, n. 20768 e i precedenti ivi richiamati);
allo stesso modo, deriva da un accertamento in fatto, non viziato da alcun errore sussumibile nella previsione dell’art. 360, primo comma n. 5), c.p.c., anche la valutazione della sentenza impugnata relativa all’esistenza dei presupposti della prestazione svolta dal M., al fine di ottenere il pagamento dell’indennità di disponibilità (peraltro, si tratta in questo caso di accertamenti coperti dalla cd. doppia conforme sia in primo grado che in appello);
ancora, il c.c.n.l di cui si invoca l’applicazione ( portierato) al fine di ravvisare un diverso parametro contributivo rispetto a quello proprio del settore terziario individuato dalla sentenza impugnata, non è riprodotto nei suoi tratti essenziali, né allegato, così da non consentire a questa Corte di cassazione di verificare le ragioni dell’ipotizzato errore della sentenza impugnata, né si chiarisce quale sia la ragione per la quale quello individuato in sede ispettiva e giudiziale non sia riferibile all’attività d’impresa esercitata; sono invece fondati i due motivi del ricorso incidentale proposto dall’INPS; l’INPS denuncia, nella sostanza, la pronuncia di inammissibilità della domanda di condanna al pagamento di sanzioni per euro 512, posto che la sentenza ha fatto discendere dall’accoglimento dell’appello sulla cd. maxi – sanzione la conseguenza dell’annullamento di qualsiasi sanzione, pur a fronte della accertata evasione contributiva relativamente al lavoratore M. già accertata dal primo giudice;
questa Corte di legittimità, ha più volte avuto modo di precisare ( vd. tra le altre, Cass. n. 26498 del 2018) che il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce all’art. 36 bis (Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro), comma 7, quanto segue: “Al D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, art. 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2002, n. 73, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 3 è sostituito dal seguente: 3. Ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria è altresì punito con la sanzione amministrativa da Euro 1.500 a Euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di Euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a Euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata”; dalla sentenza n. 254 del 2014 della Corte Costituzionale, richiamata nell’impugnata sentenza, risulta che è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36 bis, comma 7, lett. a), (convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, art. 1, comma 1), nella parte in cui, modificando il D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 73 del 2002, art. 1, comma 1), stabilisce che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria non può essere inferiore a Euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata;
orbene, balza evidente che la dichiarazione di illegittimità di cui trattasi è rimasta circoscritta all’ipotesi delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, ma non ha interessato la prima parte della citata disposizione normativa riflettente la diversa ipotesi dell’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore; ciò è stato già chiarito da questa Corte (Sez. L.-, Ordinanza n. 3208 del 9.2.2018) con la precisazione che “In materia di sanzioni civili per la mancata iscrizione di lavoratori nel libro matricola, il D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, conv. con modif. nella L. n. 248 del 2006, art. 1, comma 1, è inapplicabile, essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte cost. con sentenza 13 novembre 2014, n. 254, nella parte in cui prevede che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non può essere inferiore a Euro 3.000,00, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata“;
d’altronde, nella stessa sentenza n. 254/2014 della Corte Costituzionale è ben spiegato che, come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, l’obbligo relativo alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare in caso di omesso o ritardato pagamento dei contributi assicurativi ha natura di sanzione civile e non amministrativa, costituendo una conseguenza automatica dell’inadempimento o del ritardo, che è posta allo scopo di rafforzare l’obbligazione contributiva e risarcire, in misura predeterminata dalla legge, con una presunzione iuris et de iure, il danno cagionato all’istituto assicuratore. La censurata previsione di una soglia minima disancorata dalla durata della prestazione lavorativa accertata, dalla quale dipende l’entità dell’inadempimento contributivo e del relativo danno, è irragionevole perché può determinare una sanzione del tutto sproporzionata rispetto alla gravità dell’inadempimento del datore di lavoro ed incoerente con la sua riconosciuta natura risarcitoria. Infatti, il legislatore, nel predeterminare in via presuntiva il danno subito dall’ente previdenziale a causa dell’omissione contributiva, ha escluso la rilevanza di uno degli elementi che concorrono a cagionare quel danno, costituito dalla durata dei rapporti di lavoro non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria e dal correlativo inadempimento dell’obbligo contributivo. In tal modo, la sanzione risulta arbitraria e irragionevole perchè, pur avendo funzione risarcitoria, è stabilita con un criterio privo di riferimento all’entità del danno, dipendente dalla durata del periodo in cui i rapporti di lavoro in questione si sono protratti; ebbene, è evidente che alla Corte territoriale è sfuggita la distinzione contenuta nella norma di cui all’art. 36 bis, sopra riportata, tra le sanzioni civili, aventi funzione risarcitoria connessa all’omesso versamento contributivo, e le sanzioni amministrative (applicate nella fattispecie) già previste dalla normativa in vigore, la cui disciplina non è stata interessata, differentemente dalle prime, dalla citata sentenza dei giudici delle leggi;
è appena il caso di precisare, inoltre, che per applicare correttamente la disposizione di legge in esame non era certo necessario che l’INPS proponesse appello incidentale, giacché l’impugnazione della Società appellante sull’ an della contestata evasione contributiva non aveva determinato alcun giudicato interno sul versante della relativa sanzione;
in definitiva, il ricorso incidentale va accolto e l’impugnata sentenza va cassata, quanto al ricorso accolto, con rinvio del procedimento alla Corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, provvederà all’esame della questione relativa alla sanzione applicabile oltre che alla regolazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il ricorso incidentale proposto dall’INPS, rigetta il ricorso principale proposto da T. S. s.r.I., cassa la sentenza impugnata quanto al ricorso accolto e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
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