CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 giugno 2018, n. 17147
Tributi – Accertamento – Reddito da lavoro autonomo – Indagini bancarie – Notificazione – Termine
Rilevato che
– con sentenza n. 367/19/16 depositata in data 21 gennaio 2016 e non notificata, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, accoglieva parzialmente l’appello proposto da D.S. nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 517/2014 della Commissione tributaria provinciale di Varese che, aveva a sua volta, accolto parzialmente il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento n. T9301TE02094/2013 notificatogli, in data 11 novembre 2003, ai fini Irpef, Irap e Iva, e addizionali, per l’anno di imposta 2006, con il quale l’Ufficio aveva rideterminato il reddito da lavoro autonomo in euro 5.298.896,10;
– il giudice di appello premetteva che: 1) D.S., esercente attività di commercialista, aveva proposto ricorso dinanzi alla CTP di Varese avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio, a seguito di indagini finanziarie relative alle movimentazioni bancarie, aveva rideterminato, per l’anno di imposta 2006, il reddito da lavoro autonomo in euro 5.298.896,10; 2) il contribuente aveva eccepito l’illegittimità dell’avviso in quanto notificato oltre il termine ordinario, senza che ricorressero i presupposti per il raddoppio di termine e senza che l’atto impositivo fosse motivato sul punto; nel merito, aveva dedotto l’illegittimità dell’avviso per avere dimostrato documentalmente la irrilevanza reddituale delle movimentazioni bancarie in entrata e in uscita; 3) l’Ufficio si era costituito chiedendo il rigetto del ricorso; 4)la CTP di Varese aveva accolto parzialmente il ricorso, limitatamente ad una voce di uscita di euro 300.000; 5) il contribuente aveva proposto appello ribadendo l’eccezione di decadenza, stante la insussistenza dei presupposti per l’applicazione del termine raddoppiato senza che, peraltro, l’atto impositivo fosse motivato in ordine agli elementi concernenti il sorgere dell’obbligo di denuncia penale; nel merito, rilevava, quanto alle movimentazioni bancarie in uscita, l’inapplicabilità nei confronti del lavoratore autonomo della presunzione legale di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, alla luce della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, e quanto alle movimentazioni bancarie in entrata, la giustificazione, tra l’altro: a) del bonifico di euro 1.404.256,00 da parte della società S.G. s.r.l. nella concessione di un finanziamento da parte della società S.V. LLC, al cui pagamento era stata delegata la S.G. s.r.l., a sua volta debitrice della S.V. LLC, in forza di un contratto di associazione in partecipazione; b) dei bonifici provenienti dalla P.R. s.r.l. nel rimborso di un finanziamento che il contribuente, in qualità di socio della detta società, aveva erogato a quest’ultima; 6) si era costituito l’Ufficio chiedendo il rigetto dell’appello, riproponendo i medesimi argomenti dedotti in primo grado;
– il giudice di appello, in punto di diritto, per quanto concerneva l’eccezione di tardività della notifica dell’atto impositivo, osservava che:«l’esito delle indagini bancarie per l’ammontare degli importi movimentati e tracciati e considerata la normativa in vigore rendeva palese la sussistenza dei presupposti oggettivi del sorgere -in capo all’ufficio – dell’obbligo di denuncia del reato di cui all’art. 4 del D.lgs. 74/00, compreso il superamento delle soglie quantitative ivi previste. In tale ottica è poi evidente come sia del tutto irrilevante il momento temporale in cui è stato formalizzato l’inoltro della CNR alla Procura
– la CTR, in merito al ritenuto mancato assolvimento da parte del contribuente della prova contraria atta a superare la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, rilevava, per quanto di interesse, che: 1) quanto al bonifico di euro 1.404.256 effettuato dalla S.G. s.r.l., la documentazione prodotta non assumeva nel complesso valenza giustificativa (in particolare, il contratto di finanziamento con la S.V. era privo di data certa e le sottoscrizioni non erano autenticate; del contratto di associazione in partecipazione tra la S.V. e la S.G. s.r.l. era stata accertata fiscalmente e in sede contenziosa la fittizietà; nella documentazione contabile della S.G. s.r.l. non risultavano registrazioni coerenti con il debito nei confronti della S.V. e, dunque, con la delegazione di pagamento);2) quanto, ai bonifici ricevuti dalla P.R. s.r.l. a titolo di “rimborso finanziamento soci”, la documentazione prodotta non era sufficiente a provare la irrilevanza reddituale degli importi (in particolare, il contribuente risultava avere acquisito solo l’1% delle quote della detta società e le schede contabili della società P.R. s.r.l. non erano decisive);
– avverso la sentenza della CTR, D.S., propone ricorso per cassazione affidato a cinque mezzi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con “atto di costituzione”, non notificato, chiedendo di essere ammesso a partecipare alla discussione orale ex art. 370 c.p.c.;
– il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c. dando atto dell’intervenuto annullamento parziale in autotutela dell’avviso di accertamento impugnato con eliminazione dagli importi ripresi a tassazione dell’ammontare dei prelevamenti pari a euro 2.324.303,84 e conferma della rilevanza reddituale delle movimentazioni in entrata, per l’anno 2006, pari a complessivi euro 2.958.136,26; tanto premesso, ha chiesto la dichiarazione di cessazione della materia del contendere limitatamente alla pretesa tributaria oggetto del provvedimento di annullamento in autotutela, insistendo per la parte restante della pretesa erariale nell’accoglimento del ricorso;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis. 1 cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1 – bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
– preliminarmente va rilevato che l’Agenzia delle entrate ha resistito con “atto di costituzione”, non notificato, chiedendo di essere ammesso a partecipare alla discussione orale ex art. 370 c.p.c.;
– va al riguardo, ricordato che, in mancanza di notificazione, l’atto depositato non è qualificabile come controricorso ed il controricorrente, pure in presenza di regolare procura speciale ad litem, non è legittimato neppure a depositare memorie illustrative (Cass. n. 25735 del 2014): principio affermato con riferimento alla trattazione della causa in pubblica udienza, ma che deve essere esteso anche al procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis. 1 c.p.c., introdotto dal DL 31 agosto 2016, n. 168 conv. in legge 25 ottobre 2016, n. 197 (Cass. n. 26974 del 2017);
– con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere la CTR affermato che sarebbero irrilevanti le modalità con le quali l’Agenzia si era avvalsa del termine “speciale”;
– in particolare, ad avviso del ricorrente, il giudice di appello avrebbe violato la normativa in tema di raddoppio dei termini affermando che «è del tutto irrilevante il momento temporale in cui è stato formalizzato l’inoltro della CNR alla Procura (comunque effettuato) nonché le modalità di utilizzo da parte dell’Amministrazione Finanziaria del termine raddoppiato (…)»;
– la censura è infondata;
– in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass. 30 maggio 2016, n. 11171);
– come, infatti, statuito dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 2011), l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché «il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale» ed «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento»;
– nella specie, il giudice di appello, ritenendo correttamente «irrilevante il momento temporale in cui era stato formalizzato l’inoltro della CNR alla Procura», ha compiuto l’accertamento, nel concreto richiestogli, delle condizioni legittimanti l’eventuale raddoppio dei termini di decadenza dell’azione accertatrice, osservando che: «l’esito delle indagini bancarie per l’ammontare degli importi movimentati e tracciati e considerata la normativa in vigore rendeva palese la sussistenza dei presupposti oggettivi del sorgere – in capo all’ufficio – dell’obbligo di denuncia del reato di cui all’art. 4 del D.lgs. 74/00, compreso il superamento delle soglie quantitative ivi previste. (…)»;
– pertanto, la CTR , con la suddetta valutazione ha, in linea con gli insegnamenti del Giudice delle leggi, escluso che l’amministrazione finanziaria avesse fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento;
– con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, dell’art. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000 e degli artt. 42 e 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, in tema di motivazione degli atti amministrativi, per avere la CTR, implicitamente disatteso il motivo di appello con il quale era stata dedotta l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione in ordine ai presupposti dell’obbligo di denuncia penale;
– il motivo è infondato;
– invero, alla luce di quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata secondo cui: «i termini raddoppiati (..) operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia. È, perciò, del tutto irrilevante che detto obbligo, (…), possa insorgere anche dopo il decorso del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo, perché esso soltanto connota, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento», la mancata indicazione nell’atto impositivo dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale – il cui insorgere può essere anche successivo alla emissione dell’atto impositivo – non comporta l’insufficienza motivazionale dell’avviso di accertamento medesimo;
– con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione: 1) dell’art. 32, primo comma, n. 2 del d.P.R. n. 600 del 1973, degli artt. 2727, 2704 e 1350 c.c., per avere la CTR affermato che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 32, primo comma, n. 2 del d.P.R. n. 600 del 1973, la documentazione prodotta dal contribuente assumesse rilevanza solo se provvista di autenticazione delle sottoscrizioni e di data certa; 2) dell’art. 1271 c.c. per avere la CTR affermato che la validità della delegazione di pagamento, in virtù della quale la S.G. s.r.l. aveva eseguito i pagamenti a favore del ricorrente, dipendesse dalla validità del distinto contratto di associazione in partecipazione posto in essere tra la stessa e la S.V. LLC;
– sotto il primo profilo, ad avviso del ricorrente, il giudice di appello avrebbe erroneamente escluso che potesse costituire prova contraria idonea a superare la presunzione legale ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, il contratto di finanziamento prodotto dal contribuente a sostegno della irrilevanza reddituale della movimentazione in entrata proveniente dalla S.G. s.r.l. di euro 1.404.256,00, in quanto priva di autenticazione delle sottoscrizioni e dunque di data certa ex art. 2704 c.c.;
– sotto il secondo profilo, secondo il ricorrente, la CTR avrebbe erroneamente affermato, evocando il distinto rapporto di provvista tra il delegante e il delegato, che la delegazione di pagamento (in virtù della quale la S.G. s.r.l. aveva, in nome e per conto della S.V., eseguito i versamenti di euro 1.404.256,00 in favore del ricorrente) era inficiata da presunti vizi del contratto di associazione in partecipazione stipulato tra la S.G. s.r.l.(delegato) e la S.V. (delegante);
– il motivo è infondato;
– deve invero osservarsi che, alla luce della costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in virtù della presunzione stabilita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici – sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari del contribuente vanno imputati a ricavi conseguiti dal medesimo nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito (Cass. n. 9103 del 2001 e n. 15447 del 2001); -per poter superare la presunzione legale di cui sopra occorre, pertanto, che il contribuente fornisca valida prova contraria e che detta prova sia valutata dal giudice in rapporto agli elementi risultanti dai suddetti conti, per verificare, attraverso i riscontri possibili (date, importi, tipo di operazione, soggetti coinvolti), se ed eventualmente a quali movimenti la documentazione fornita dal contribuente si riferisca, così da escludere dal calcolo dell’imponibile esclusivamente quanto risultante dai singoli movimenti bancari ritenuti riferibili alla produzione documentale del contribuente (Cass. n. 16650 del 2011);
– tali principi, per quello che qui interessa, conservano attualità anche dopo l’intervento della Corte Costituzionale la quale, con la sentenza n. 228 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, come modificato dalla legge 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1) limitatamente alle parole “o compensi” (Cass. n. 9078 del 2016);
– il Giudice delle leggi ha, invero, ritenuto la presunzione, ivi prevista, anche nei confronti dei lavoratori autonomi lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacita contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta produttivo di reddito (v. da ultimo, Cass. n. 19806 del 2017);
– ciò posto in via generale, non si ravvisa, in concreto, la dedotta violazione di legge, laddove, premesso che, nella specie, la contestazione dell’accertamento involge solo le movimentazioni bancarie in entrata, il Giudice di appello, facendo corretta applicazione delle regole in materia di riparto dell’onere probatorio, ha rilevato l’esistenza di una presunzione di legge vincibile da prova contraria da parte del contribuente, che, però, nel caso concreto, ha ritenuto inidonea;
– in particolare, la CTR, lungi dall’affermare la mancanza di data certa del richiamato contratto di finanziamento quale motivo di nullità del negozio medesimo, con un approccio metodologico corretto ed esaustivo, ha effettuato una valutazione – che peraltro non appare sindacabile nel presente giudizio di legittimità – dell’efficacia probatoria di un documento (peraltro, non costituente prova legale) cui (unitamente ad altri elementi, quali la asserita “fittizietà” del contratto di associazione in partecipazione tra la S.V. e la S.G. s.r.l.; la assenza nella documentazione contabile della S.G. s.r.l. di registrazioni coerenti con il debito nei confronti della S.V. e la delegazione di pagamento; la colleganza tra la S.G. s.r.l. e lo studio associato nel quale faceva parte il contribuente) non ha ritenuto di attribuire la credibilità necessaria per ritenere provata a contrario la provenienza non reddituale della suddetta movimentazione bancaria in entrata; -ugualmente, non si ravvisa violazione dell’art. 1271 c.c., in quanto, la ritenuta “non credibilità” (e, non già, “invalidità”) dell’ulteriore rapporto contrattuale dedotto dal contribuente qual è la delegazione di pagamento – in forza della quale la S.G. s.r.l. avrebbe effettuato i versamenti sul conto del contribuente, in nome e per conto della S.V. – è frutto della valutazione – che, peraltro, non appare sindacabile in sede di legittimità – da parte del giudice a quo di un insieme di elementi addotti dal contribuente e volti a corroborare la efficacia probatoria del contratto di finanziamento tra il contribuente e la S.V., quale giustificazione della irrilevanza reddituale della movimentazione bancaria in questione;
– con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione: 1) dell’art. 32, primo comma, n. 2 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 2727 c.c., per avere la CTR affermato che l’accredito effettuato dalla P.R. s.r.l. in favore del contribuente non era giustificato dato che il contribuente era socio di minoranza della detta società; 2) dell’art. 32, primo comma, n. 2 del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere la CTR affermato che la documentazione prodotta in giudizio dal contribuente non sarebbe stata decisiva, non essendo state prodotte eventuali delibere societarie né note integrative al bilancio;
– il motivo è infondato;
– infatti, la CTR, in applicazione dei principi esposti con riguardo al terzo motivo di ricorso, con valutazione complessiva – che non appare sindacabile nel presente giudizio – ha ritenuto che la contribuente non avesse fornito adeguate giustificazioni e, dunque, non avesse assolto all’onere di fornire idonea prova contraria della irrilevanza reddituale delle contestate movimentazioni bancarie in entrata;
– con il quinto motivo, il ricorrente chiede che questa Corte, sensi dell’art. 384 c.p.c., ovvero il giudice di appello in sede di rinvio, ridetermini le sanzioni in applicazione della più favorevole disciplina sopravvenuta (art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015, in vigore dal 1° gennaio 2016);
– la censura si espone ad un profilo di inammissibilità per difetto di autosufficienza;
– il sistema sanzionatolo amministrativo in materia tributaria, previsto dai decreti legislativi n. 417 e n. 472 del 1997, ha subito una significativa revisione ad opera del d.lgs. n. 158 del 2015, emanato in attuazione dell’art. 8, primo comma, della legge n. 23 del 2014; con tale revisione e con particolare riferimento al d.lgs. n. 471 del 1997, il legislatore ha – tra le altre cose e senza tema di completezza – provveduto a ridurre le sanzioni previste per alcune violazioni già tipizzate (ad esempio, per le dichiarazioni infedeli, in cui si è passati dalla sanzione ricompresa tra il cento e duecento per cento della maggior imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato, a quella ricompresa tra il novanta ed il centoottanta per cento), a prevederne di nuove (introducendo, ad esempio, la maggiorazione della metà della sanzione prevista per la dichiarazione infedele, quando la violazione è realizzata mediante l’utilizzo di fatture o altra documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente – attuale comma terzo dell’art. 1 e comma 4bis dell’art. 5 d.lgs. n. 471 del 1997) ma ha anche confermato l’entità di alcune delle sanzioni previste per determinate violazioni (ad esempio in materia di omissione di dichiarazione, in cui è rimasta immutata la “forbice” sanzionatoria fissata tra il centoventi ed il duecentoquaranta per cento dell’ammontare dei tributi dovuti);
– la modifica normativa in esame, quindi, non opera in maniera generalizzata in “favor rei” con la conseguenza che la mera affermazione di uno “ius superveniens” più favorevole, non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, specie in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata, non avendo il ricorrente fornito elementi per la valutazione della gravità della violazione tale da giustificare l’applicazione del nuovo minimo come misura congrua;
– questa Corte ha già osservato, ancorché con riferimento all’applicabilità del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 nella versione anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015, ai processi in corso alla data (del primo aprile 1998) di entrata in vigore del citato decreto legislativo, che, se il combinato disposto dagli artt. 3, terzo comma, e 25, secondo comma, di tale provvedimento (peraltro rimasti immutati) «impone al Giudice presso il quale la controversia pende a detto momento di attuare le nuove disposizioni, non esclude il dovere della parte di allegare e, se necessario, provare, la sussistenza dei fatti costitutivi e/o eventualmente modificativi ovvero estintivi necessari per la concreta applicazione di dette norme in quanto il Giudice (per l’art. 1 c.p.c., comma 12) non può, di sua iniziativa, introdurre nella controversia elementi di fatto diversi da quelli allegati e provati dalle parti» (Cass. n. 9129 del 2006; conf. Cass. n. 16062 del 2010; v. anche Cass. n. 5713 del 2007);
– ne consegue che deve escludersi che la mera deduzione di uno ius superveniens più favorevole sia tale da imporre il rinvio della causa al giudice di merito, a ciò ostandovi non soltanto il principio di necessaria specificità dei motivi di ricorso in cassazione (Cass. n. 24625 del 2015), ma anche e soprattutto il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost. (Cass. n. 20141 del 2016; Cass. n. 9505 del 2017);
– in conclusione, il ricorso va rigettato per infondatezza del primo, secondo, terzo e quarto motivo e per inammissibilità del quinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo nonché al rimborso delle spese eventualmente prenotate a debito;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna D.S. al pagamento, in favore della Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 15.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto che, ai sensi dell’art. 13, comma 1, quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
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