CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 giugno 2019, n. 17575

Contratto di agenzia – Violazione del patto di non concorrenza post contrattuale – Restituzione delle provvigioni corrisposte in esecuzione di tale patto – Risarcimento danni

Rilevato che

la società S.Z. s.p.a. conveniva dinanzi al Tribunale di Ravenna il suo ex agente C.F. chiedendo accertarsi che il recesso di quest’ultimo, in data 3.7.02, era privo di giusta causa, con conseguente condanna di quest’ultimo al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, allegando inoltre la violazione del patto di non concorrenza post contrattuale, chiedendo la condanna dello stesso alla restituzione delle provvigioni corrisposte in esecuzione di tale patto, oltre al risarcimento dei danni.

Resisteva il F., proponendo domanda riconvenzionale per il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, dell’indennità di cessazione del rapporto e di differenze provvigionali.

Il Tribunale dichiarava che il recesso era fondato su giusta causa, condannando la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, pari ad €.5.585,48 oltre accessori, accertando tuttavia la violazione da parte del F. del patto di non concorrenza post contrattuale, condannandolo alla restituzione di quanto ricevuto dalla società a tale titolo (€.7.717,35) nonché al pagamento di €.6.702,58 a titolo di penale prevista dal contratto in caso di violazione del patto.

Avverso tale sentenza proponeva appello la società; resisteva il F., proponendo appello incidentale con cui chiedeva il rigetto della domanda della società inerente il patto di non concorrenza nonché la condanna della società al pagamento di varie provvigioni maturate e non riscosse.

Con sentenza depositata il 17.7.13, la Corte d’appello di Bologna accoglieva l’appello principale e per l’effetto dichiarava l’insussistenza di una giusta causa di recesso da parte del F., condannandolo a restituire l’indennità sostitutiva del preavviso di cui sopra; respingeva la domanda proposta dalla società di risarcimento dei danni per violazione del patto di non concorrenza, condannandola alla restituzione di quanto ricevuto in esecuzione della sentenza di primo grado, respingendo per il resto l’appello incidentale.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società S.Z., affidato a tre motivi, cui resiste il F. con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Considerato

Che con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per non avere la sentenza impugnata giudicato iuxta alligata e probata circa la prova della violazione del patto di non concorrenza post contrattuale. Il motivo è inammissibile perché diretto ad una generale rivisitazione del materiale istruttorio esaminato dalla Corte di merito, soffermandosi in particolare sulle deposizioni testimoniali rese, proponendone una diversa lettura rispetto a quella fornita dalla sentenza impugnata.

Che con secondo motivo la società denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti “in punto di rilevanza delle dichiarazioni rese dai testi a conferma della violazione del patto di non concorrenza”. Anche tale motivo è inammissibile alla luce del novellato n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c. che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione (Cass. sez.un. 22 settembre 2014 n. 19881; Cass. sez.un. 7 aprile 2014, n. 8053, che interpreta la nuova norma quale riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione). Deve peraltro ribadirsi che la critica in ordine alla valutazione delle deposizioni testimoniali, compito demandato al giudice di merito, non può trovare ingresso in sede di legittimità attraverso il denunciato art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c.

Che il terzo motivo di ricorso è assorbito, limitandosi a lamentare che, dovendosi in tesi accogliere i precedenti motivi, la sentenza impugnata non avrebbe potuto compensare le spese di lite.

Che il ricorso incidentale, stante la sostanziale inammissibilità del ricorso principale, è inefficace ex art. 334 c.p.c.

In ogni caso esso è infondato, considerato che con primo motivo, il F. si duole della mancata fornitura all’agente delle informazioni necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate nonostante egli avesse chiesto al giudice l’ordine di esibizione della relativa documentazione, negata dalla Corte di merito per il suo carattere meramente esplorativo.

Che con secondo motivo il F. denuncia la violazione degli artt. 1748 e 1749 c.c. e dell’art. 210 c.p.c. quanto alle vendite dirette del preponente anche successive alla cessazione del rapporto ex art. 1748, co. 3 c.c., lamentando, con il terzo motivo, che tale comportamento omissivo sarebbe in contrasto con gli artt. 4 e 5 della Direttiva Europea 18.12.86 n. 653/86, lamentando con il quarto motivo la violazione degli artt. 1749 e 2697 c.c. sotto il profilo della vicinanza della prova (citando la non pertinente Cass. S.U. n. 7943/08) per cui doveva addossarsi alla società l’onere di provare le relative circostanze.

Che i motivi, da trattarsi congiuntamente stante la loro connessione, sono infondati.

Ed invero, a prescindere che grava certamente sull’agente l’onere di provare i fatti posti a fondamento dei reclamati diritti, deve rilevarsi che tale prova non può risolversi attraverso la mera richiesta di un ordine di esibizione che non solo costituisce un potere discrezionale del giudice di merito, ma è condizionato ad una serie di presupposti (prova del possesso dei documenti da parte del destinatario dell’ordine di esibizione – ex plurimis, Cass. ord. n. 23120 del 16/11/2010 -; indispensabilità, arg. ex art. 118 c.p.c. dell’iniziativa). In effetti il potere attribuito al giudice del merito, ai sensi degli artt. 118 e 210 cod. proc. civ., di ordinare, su istanza di parte, l’acquisizione di prove nel processo, configura un’eccezione al principio generale dell’incidenza sulle parti dell’onere probatorio stabilito dall’art. 2697 cod. civ., che non può essere esercitato al di fuori delle ipotesi ed oltre i limiti previsti nelle citate disposizioni, sicché, anche nel rito del lavoro, tale richiesta non può essere sostitutiva dell’onere che incombe sulla parte di fornire le prove che essa sia in grado di procurarsi e che non può pretendere di ricercare mediante l’attività del giudice stesso (cfr. Cass. n. 1484/14, 1522/83). A ciò aggiungasi che la sentenza impugnata ha evidenziato che l’agente non aveva neppure chiaramente indicato i fatti costitutivi delle domande in questione, ritenendo pertanto correttamente l’ordine di esibizione (al pari della richiesta di c.t.u. contabile svolta in primo grado) meramente esplorativo.

Né il principio della vicinanza della prova è idoneo ad invertire l’onus probandi in assenza di specifiche indicazioni circa i fatti costitutivi della sua pretesa (cfr. Cass. n. 20812/18, Cass. n. 7830/18, etc.).

La mancata allegazione e chiara indicazione dei dedotti ulteriori affari conclusi (e delle relative provvigioni) non consente di ritenere erronea la sentenza impugnata laddove non ha ritenuto di poter ordinare l’esibizione dei documenti in possesso dell’azienda, non risultando peraltro che vi sia stata (se non attraverso il richiesto ordine di esibizione in sede giudiziale) una richiesta dell’agente in ordine alla consegna dei documenti in possesso dell’azienda ex art. 1749, co. 3 c.c.

Deve infatti considerarsi che l’azienda deve mettere a disposizione dell’agente i dati contabili e documentali, ma non risultando una richiesta in tal senso disattesa, per gli affari conclusi dall’agente prima l’ordine di esibizione vale il principio sopra detto che incombe sulla parte di fornire le prove che essa sia in grado di procurarsi, mentre per gli affari successivi occorre una richiesta ex 1749, co. 3.

Si rinvia al riguardo a quanto statuito da questa Corte (ord. n. 20707/18) con cui venne confermata la sentenza impugnata, con cui era stata respinta la richiesta di un agente che, avendo agito per le provvigioni e l’indennità di fine rapporto, pretendeva ex art. 1749 c.c. informazioni sul rapporto sulla base di una generica deduzione dell’inadempimento del preponente. Il principio della soccombenza principale, comporta la condanna della società al pagamento delle spese, come da dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso principale e dichiara inefficace l’incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, pari ad €.200,00 per esborsi ed €.4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, oltre i.v.a. e c.p.a.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.