CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 luglio 2020, n. 16149
Tributi – IVA – Contratto di comodato di immobile di proprietà della società con l’amministratore della società stessa – Assimilazione a cessione di beni – Destinazione all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore
Rilevato che
– L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio (CTR), depositata il 7 luglio 2011, di reiezione dell’appello dalla medesima proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla D. costruzioni S.r.l. per l’annullamento dell’avviso di accertamento Iva, Irpeg ed Irap relativo all’anno di imposta 2004;
– dall’esame della sentenza di appello si evince che l’Ufficio aveva assoggettato ad Iva ai sensi dell’art. 2 comma 2 p. 5 del d.P.R. 633/72 l’operazione con cui la società aveva stipulato un contratto di comodato di immobile di sua proprietà con l’amministratore della società stessa, D.D.S.;
– ad avviso della CTR, l’assoggettamento all’imposta doveva essere escluso “non tanto per il diaframma giuridico costituito dalla autonomia della società di capitali, in quanto non è contestato tra le parti che nella sostanza l’amministratore con il quale è stato stipulato il contratto di comodato è il proprietario della società, quanto piuttosto per la natura stessa del contratto, che esclude l’elemento della definitività della destinazione del bene, che la giurisprudenza tributaria ha ritenuto essenziale per l’applicabilità della norma in questione e quindi per l’assoggettamento ad Iva”;
– il ricorso è affidato a tre motivi, cui la società resiste con controricorso;
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso l’agenzia denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 2, n. 5) d.P.R. n. 633/72 e dell’art. 5, comma 6, dir. n. 77/388/CEE, nonché dell’art. 19 stesso d.P.R. n. 633/72, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) c.p.c.»;
– evidenzia che il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere che, per essere assimilata ad una cessione assoggettabile ad Iva, la destinazione ad uso personale o familiare di un bene dell’imprenditore debba essere connotata dalla sua definitività; questa interpretazione si porrebbe in contrasto con i principi dettati in ambito comunitario ai fini antielusivi in relazione al c.d. autoconsumo esterno di beni;
– richiama la circostanza di fatto, non contestata, che la permanenza del D.S. e del suo intero nucleo familiare presso il villino si era protratta oltre il termine del contratto di comodato;
– con il secondo motivo di ricorso si deduce «insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c.», per non aver la CTR conferito rilievo alle circostanze che il trasferimento di residenza della famiglia Di Stefano nell’immobile e l’abitualità di uso oltre il termine previsto dal comodato, aveva imposto una destinazione privatistica al bene con caratteri di stabilità e oggettività;
– con il terzo motivo di ricorso si deduce «violazione dell’art. 2, comma 2, n. 5) d.p.r. 633/72 nella sua portata antielusiva, nonché dei principi generali in materia di abuso del diritto desumibili nell’ordinamento dalla giurisprudenza comunitaria, dall’art. 53 cost. e dalle norme interne con portata antielusiva, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) c.p.c.», in quanto l’operazione economica era stata posta in essere al solo fine di arrecare un vantaggio fiscale a D.S.. – Il primo motivo di ricorso è fondato, con assorbimento degli ulteriori motivi;
– preliminarmente si rileva che non è ravvisabile il profilo di inammissibilità del motivo, come eccepito dalla controricorrente sul rilievo che le censure concernenti violazioni di norme comunitarie non erano mai state sollevate in precedenza dall’agenzia. Premesso, infatti, che, nel giudizio di cassazione, il quale ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non è consentito avanzare per la prima volta doglianze diverse da quelle dedotte nel giudizio di merito o nuovi temi di contestazione non trattati nella medesima sede, non potendo il sindacato della Suprema Corte estendersi alla risoluzione di questioni differenti da quelle ivi decise e dovendo invece tale sindacato investire statuizioni che abbiano formato oggetto del processo di appello (Cass. 5 ottobre 1998, n. 9882; Cass.15 aprile 1999, n. 3737; Cass. 24 febbraio 2000, n. 2088; Cass. 9 gennaio 2002, n. 194), si osserva che il detto divieto non riguarda le argomentazioni giuridiche che rilevino per la decisione, tendenti ad inficiare la pretesa tributaria sotto un profilo logico-giuridico più generale, rispetto a quello particolare o speciale, teoricamente subordinato, esposto nei gradi di merito, dal momento che la sussunzione della vicenda concreta in una diversa configurazione normativa o interpretativa non significa eccesso del giudice dai limiti della domanda nè violazione del divieto di nuove eccezioni, riguardante unicamente le eccezioni in senso stretto (Cass. nn. 14020/2007, 15646/2004, 6347/2002; in generale, S.U. n. 1099/1998). In questo senso, il richiamo alla legislazione comunitaria non ha comportato l’ampliamento del tema di merito, che è rimasto immutato;
– la CTR ha ritenuto illegittimo l’avviso di rettifica sul punto della contestata destinazione degli immobili all’uso personale “per la natura stessa del contratto, che esclude l’elemento della definitività della destinazione del bene, che la giurisprudenza tributaria ha ritenuto essenziale per l’applicabilità della norma in questione e quindi per l’assoggettamento ad Iva”. Tale affermazione non è però condivisibile, allorquando si debba valutare un’ipotesi di “autofatturazione”, cioè quando i beni acquistati dal soggetto passivo IVA sono destinati all’uso personale o familiare o comunque per fini che esulano dall’attività economica svolta;
– nel caso di specie, posto che la stessa CTR non ha dubbi che “nella sostanza l’amministratore con il quale è stato stipulato il contratto di comodato è il proprietario della società”, si era in presenza proprio dell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 2, n. 5) del d.P.R. n. 633/72, in forza del quale “costituiscono inoltre cessioni di beni …. la destinazione dei beni all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore”, norma che si pone in linea con la Sesta direttiva del Consiglio n. 77/388 CEE, secondo cui “È assimilato a una cessione a titolo oneroso il prelievo di un bene dalla propria impresa da parte di un soggetto passivo il quale lo destina al proprio uso privato o all’uso del suo personale o lo trasferisce a titolo gratuito o, più generalmente, lo destina a fini estranei alla sua impresa, quando detto bene o gli elementi che lo compongono hanno consentito una deduzione totale o parziale dell’ imposta sul valore aggiunto“;
– la CTR ha quindi errato nell’affermare che il presupposto di applicazione dell’art. 2 cit. fosse la destinazione definitiva del bene, posto che la norma distingue i casi in cui la cessione avviene a titolo oneroso ìn forza di un atto traslativo della proprietà (art. 2 comma 1), da quelli in cui questo effetto non sì realizza in forza dì un atto tipico di cessione, ma che viene a questo assimilato (comma 2);
– coerentemente con questa impostazione, l’art. 13 del decreto differenzia la base imponibile in relazione alla diversa tipologia di cessione e agli effetti giuridici che ne sono conseguiti;
– la decisione impugnata va, quindi, cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 comma 2 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo;
– le spese del giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– la novità della questione determina la compensazione delle spese dei giudizi di merito.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo; condanna la controricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 10.000 per compensi, oltre spese prenotate a debito; compensa integralmente le spese dei giudizi di merito.
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