CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 maggio 2018, n. 13353
Tributi – Accertamento – Verifiche bancarie – Studio associato – Autorizzazione acquisita nei confronti di uno degli associati – Conto cointestato – Legittimità
Rilevato
– che l’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, avverso la sentenza in epigrafe indicata che, in controversia relativa ad impugnazione di tre avvisi di accertamento emessi con riferimento all’anno di imposta 2004 nei confronti dello Studio legale associato G.I.G., nonché dei professionisti associati avvocati G. e G. (essendo deceduto l’avv. I.) sulla scorta delle risultanze di accertamenti bancari, accogliendo l’appello proposto dai contribuenti avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, annullava i predetti atti impositivi sostenendo che l’accertamento bancario nei confronti dell’avv. G. era stato effettuato in mancanza della prescritta autorizzazione e che gli atti impositivi erano stati comunque notificati in violazione del termine dilatorio dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000;
– che, adempiuto tempestivamente dalla ricorrente l’ordine impartito con ordinanza interlocutoria n. 16932 del 7/07/2017, di integrazione del contraddittorio nei confronti dello studio associato e dell’avv. G., avendo la ricorrente notificato il ricorso solamente all’avv. G., sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, avendo l’avv. G. depositato controricorso e memorie;
– che il Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata;
Considerato
– che va preliminarmente esaminata l’eccezione di giudicato proposta dai controricorrenti, secondo i quali la proposizione del ricorso per cassazione nei confronti di uno solo degli appartenenti allo studio legale associato con riferimento ad una sentenza che ha deciso anche la posizione di altro associato e dello stesso studio legale, fa passare in giudicato la statuizione favorevole a questi ultimi, stante l’autonomia della loro posizione sostanziale;
– che l’eccezione è infondata e va rigettata; le argomentazioni svolte sia nei controricorsi che nella memoria depositata dall’avv. G. non consentono, infatti, di superare il principio giurisprudenziale costantemente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. n. 1225 del 2007, n. 14253 del 2016 e, più recentemente Cass. n. 14714 del 2017 di questa Sottosezione), quello secondo cui l’integrazione del contraddittorio è obbligatoria, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., non solo in ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale (cd. cause inscindibili), ma altresì nell’ipotesi di cause che, pur scindibili, riguardano rapporti logicamente interdipendenti tra loro o dipendenti da un presupposto di fatto comune (cd. cause dipendenti), quando siano state decise nel precedente grado di giudizio in un unico processo, al fine di evitare che le successive vicende processuali conducano a pronunce definitive di contenuto diverso; infatti, se si verte in ipotesi di rapporti tributari, che, seppur distinti, e pertanto concettualmente non indissolubili, sono coinvolti in un titolo impositivo unico (il medesimo avviso di accertamento) o che, seppur diversi, siano comunque basati, in relazione alle posizioni contributive coinvolte, su presupposti tributari, almeno in parte, comuni (come si verifica nel caso di avviso di accertamento nei confronti dei soci di società di persone e o di soci di società di capitale a ristretta base societaria […] emessi sulla base dell’accertamento effettuato nei confronti della società), tra le cause concernenti la società e i soci sussiste quel vincolo di collegamento determinato dalla dipendenza da comune fattore, che in presenza di simultanea sprocessus nel pregresso grado del giudizio, comporta, da un lato, in applicazione previsione di cui all’art. 331 c.p.c., l’obbligo dell’integrazione del contraddittorio nel giudizio di impugnazione e, dall’altro, la sostanziale inscindibilità delle posizioni dei soci rispetto a quelle della società, con la conseguenza che nei confronti di quelli, eventualmente pretermessi e quindi destinatari dell’ordine ex art. 331 c.p.c., non si è formato alcun giudicato che gli stessi possono opporre all’impugnante (arg. da Cass., Sez. U., n. 24707 del 2015);
– che, inoltre, pare opportuno ricordare che le Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 14815 del 2008 hanno affermato che <<In materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui all’art. 5 d.P.R. 22/12/1986 n. 917 [che, al comma 3, lett. c), equipara alle società semplici “le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni] e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicché tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario. Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 546/92 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio>>;
– che con il primo motivo di ricorso la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 per avere la CTR annullato l’avviso di accertamento emesso nei confronti dell’avv. G. in quanto fondato su accertamenti bancari condotti sul conto cointestato con l’avv. G., autorizzati solo nei confronti di quest’ultimo;
– che il motivo è fondato e va accolto, al riguardo osservandosi che la CTR male interpreta il principio affermato in materia da questa Corte nella sentenza n. 4987 del 2003, (conf. Cass. n. 4001 del 2009) nella quale si è affermato che «In tema di IVA, [ma lo stesso è a dirsi in tema di imposte dirette] la mancanza della autorizzazione dell’ispettore compartimentale (o, per la guardia di finanza, del comandante di zona) prevista dall’art. 51, secondo comma, n. 7, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [nonché, per le imposte dirette, dall’art. 32, comma 1, n. 7, d.P.R. n. 600 del 1973], ai fini della richiesta di acquisizione, dagli istituti di credito, di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente, non preclude l’utilizzabilità dei dati acquisiti, atteso che la detta autorizzazione attiene ai rapporti interni e che in materia tributaria non vige il principio (presente nel codice di procedura penale) della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita, salvi i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico», precisandosi in Cass. n. 16874 del 2009 che l’illegittimità può essere dichiarata «soltanto nel caso in cui dette movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza dell’autorizzazione, e sempre che tale mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente», nella specie semplicemente dedotto; a ciò aggiungasi che, secondo un principio affermato da Cass. n. 27149 del 2011, <dn materia tributaria, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento comporta, di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi [in cui non rientra quello in esame] in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio»;
– che con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. per avere la CTR annullato l’atto impositivo emesso nei confronti dell’avv. G. per violazione dell’art. 12, commi 4 e 7, della legge n. 212 del 2000, sul presupposto che l’avviso di accertamento era stato notificato al predetto contribuente prima della scadenza del termine dilatorio previsto dalla citata disposizione statutaria, senza indicazione nell’atto delle ragioni di urgenza;
– che il motivo è manifestamente fondato alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi nel solco tracciato da Cass., Sez. U., n. 18184 del 2013, cui ha fatto seguito Cass., Sez. U., n. 24823 del 2015 e numerosissime pronunce conformi anche di questa Sottosezione, dal quale la CTR si è discostata con argomentazioni niente affatto condivisibili, fondate sul necessario riconoscimento al contribuente del diritto al contraddittorio con l’amministrazione finanziaria in maniera generalizzata ed indistinta rispetto ai diversi tributi e alle diverse modalità di effettuazione delle verifiche fiscali, prescindendo del tutto dalle previsioni normative in materia, costantemente interpretate da questa Corte nel senso che, con riferimento ai tributi “non armonizzati”, l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi – in cui non è ricompreso la fattispecie in esame – per le quali siffatto obbligo risulti specificamente previsto ex lege, mentre, in tema di tributi “armonizzati” (nella specie, dell’IVA, che pure viene in rilievo nel presente giudizio), avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, sussiste l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, la cui comporta l’invalidità dell’atto impositivo purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere – a cui invece i controricorrenti nel caso di specie si sono sottratti – di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato e sempre che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto (Cass. Sez. U., n. 24823 del 2015);
– che, quanto al rispetto del termine previsto dall’ultimo comma dell’art. 12 della legge n. 212 del 2000, deve ribadirsi che, stando a quanto previsto in maniera inequivoca dal comma 1 della citata disposizione, la norma trova applicazione solo nel caso in cui l’amministrazione finanziaria proceda ad accessi, ispezioni, verifiche fiscali «nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali», che è ipotesi non verificatasi nel caso in esame, in cui l’accertamento non ha richiesto alcun tipo di accesso presso lo studio del contribuente, trattandosi pacificamente di accertamento c.d. “a tavolino”; e ciò rende ragione anche dell’infondatezza dell’ulteriore questione posta dai controricorrenti con riferimento alla necessaria redazione, da parte dei verificatori, di un processo verbale conclusivo delle operazioni compiute, dal cui rilascio sarebbe dovuto decorrere il termine dilatorio di cui alla disposizione in esame;
– che da ultimo pare opportuno rilevare l’infondatezza della questione prospettata dall’avv. G. nel proprio controricorso, di inapplicabilità ai liberi professionisti degli accertamenti bancari e, conseguentemente, della presunzione legale posta dall’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, alla stregua della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 e dell’art. 1-quater.; comma 1, lett. a), d.l. n. 193 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 225 del 2016;
– che, al riguardo, questa Corte ha avuto modo di rilevare e precisare (v. sentenze n. 19807 e n. 19806 del 2017) che nella citata sentenza del Giudice delle leggi sembrava potersi rinvenire una discrasia tra motivazione e dispositivo, nella prima avendo fatto riferimento ai soli prelevamenti dai conti bancari e nella seconda, invece, avendo sancito in maniera perentoria l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata (art. 32, comma 1, num. 2, secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a), num. 1, legge 30 dicembre 2004 n. 31 l),<<limitatamente alle parole «o compensi»>>, che nell’architettura della citata disposizione è posta con riferimento ai prelevamenti ma anche agli <<importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni>>, che potrebbero far pensare ai versamenti); orbene, seppure la predetta sentenza sia stata in tal modo interpretata da alcune pronunce di questa Corte (tra cui Cass. n. 23041 del 2015, citata dalla controricorrente, nonché Cass. n. 16440, n. 12779 e n. 12781 del 2016, nonché, di questa Sottosezione, n. 24862 e n. 19970 del 2016), che hanno ritenuto essere venuta meno la presunzione di imputazione ai «compensi» dei lavoratori autonomi o dei professionisti intellettuali sia dei prelevamenti che dei versamenti operati sui conti bancari, questo Collegio ritiene che vada seguito e ribadito il diverso orientamento secondo cui «resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti» (cfr. Cass. Sez. 5^, n. 16697 del 2016; in senso analogo, Cass. Sez. 5, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 11776, n. 6093 del 2016; n. 23575, n. 18126, n. 18125, n. 16929, n. 13470, n. 12021 del 2015 nonché, più recentemente, n. 5152 e n. 5153 del 2017 oltre alle già citate sentenze n. 19807 e n. 19806 del 2017; in senso analogo anche Cass. Sez. 6-5, ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016); orientamento maggiormente coerente con la sentenza della Corte costituzionale nella cui motivazione in maniera chiara (punti 4, 4.1 e 4.2 e conclusione tratta al punto 5) si afferma la contrarietà al principio di ragionevolezza e di capacità contributiva della sola presunzione di ricavi operata con riferimento ai prelievi effettuati da un lavoratore autonomo, mentre nessun accenno viene fatto ai «versamenti» in conto;
– che, quindi, la tesi sostenuta dalla controricorrente si pone in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale che, alla stregua delle suddette considerazioni, attribuisce natura di presunzione legale ai versamenti sui conti correnti del professionista, in virtù del disposto dell’art 32, comma 1, n. 2 del d.P.R. n. 600/1973, quale risultante a seguito della parziale declaratoria di illegittimità costituzionale di detta norma ad opera della sopra citata pronuncia della Corte costituzionale, e dell’art. 51, comma 2, n. 2 del d.P.R. n. 633/1972, da considerarsi ricavi derivanti dall’attività professionale (v. anche Cass. n. 16697, n. 19029 e n. 7453 del 2016), con conseguente onere a carico dell’interessato di fornire la prova contraria, che deve essere rigorosa e specifica, che detti movimenti sono estranei al suo reddito o perché ad esso non riferibili o perché relativi ad atti non soggetti a tassazione (tra le molte, cfr. Cass., n. 20668 del 2014, n. 21303 del 2013, n. 2894 del 2013);
– che, in estrema sintesi, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla competente CTR che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sicilia sez. Catania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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