CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 marzo 2019, n. 8659
Licenziamento disciplinare – Toni eccessivi e coloriti per esprimere il proprio dissenso – Mancato accertamento della natura discriminatoria del recesso – Mancata allegazione puntuale della ragione di discriminazione – Fattispecie del licenziamento c.d. ritorsivo – Esistenza di un motivo unico e determinante illecito – Ricorso inammissibile – Diversa lettura dei fatti tutti puntualmente esaminati dalla Corte di merito
Rilevato che
1. La Corte di appello di Palermo ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa città ed ha rigettato la domanda proposta da G.G. nei confronti della R. s.p.a. avendo accertato che il licenziamento intimatogli in data 17 settembre 2015 era giustificato.
2. Il giudice di appello ha rammentato che il G., dirigente responsabile del settore raccolta indifferenziata della R.A.P. s.p.a., nel contesto di una situazione di inefficienza amministrativa del servizio di nettezza urbana, verificatasi nell’estate del 2015, aveva espresso con toni eccessivi e coloriti il proprio dissenso rispetto ai processi organizzativi individuati, per ripristinare l’efficienza del servizio, dal consiglio di amministrazione della società. Ha poi evidenziato che già negli anni precedenti, sin dal 2013, il rapporto lavorativo tra il dirigente e l’azienda era stato caratterizzato da aspri dissensi ed intemperanze che avevano assunto i connotati di un boicottaggio dell’azione amministrativa della società. A più risalenti comportamenti (attribuzione di ferie non preventivamente comunicate, mancato rispetto delle disposizioni sull’utilizzo del badge aziendale) tollerati dalla datrice di lavoro avevano fatto seguito, nel corso del 2015, successivi atteggiamenti insolenti ed insubordinati, oggetto di ripetute contestazioni disciplinari, che risultavano più qualificati a causa delle condotte pregresse ed avevano generato nell’ambiente di lavoro un atteggiamento di demotivazione e di sfiducia nell’autorevolezza degli ordini di servizio, tale da indebolire ed ostacolare l’obiettivo di recupero dell’efficienza, trasmodando i limiti del legittimo diritto di critica sotto il profilo della continenza e della correttezza; aveva diffuso discredito circa le capacità professionali dei suoi superiori e dei componenti dell’organo amministrativo, con una vis polemica reiterata e improduttiva, alimentando un clima non collaborativo e di non condivisione delle strategie adottate. La Corte territoriale ha escluso che il licenziamento avesse carattere discriminatorio o ritorsivo. Questo è stato ritenuto, piuttosto, diretto a recuperare un rapporto armonico tra l’organo amministrativo ed i dirigenti della società al fine di una pronta ed efficace attuazione delle direttive per il recupero della
situazione di grave dissesto ambientale verificatasi. Ritenuto giustificato il recesso la Corte ha, conseguentemente, escluso che il lavoratore avesse diritto a percepire l’indennità supplementare prevista dall’art. 35 del c.c.n.I. di categoria.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre il G. con cinque articolati motivi ai quali oppone difese la R.A.P. s.p.a. con tempestivo controricorso. Sia il ricorrente che la società hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 380 bis 1. cod. proc. civ..
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la nullità della sentenza in relazione agli artt. 111 Cost. e 112, 113, 132 e 434 cod. proc. civ. per avere la sentenza ignorato la censura di inammissibilità del reclamo, formulata in appello, con la quale si era evidenziata la carente specificità delle censure le quali riproducevano le censure formulate in sede di opposizione sostituendo alla parola opponente la parola reclamante senza proporre un percorso ermeneutico alternativo atto a porre in luce gli errori commessi dal giudice dell’opposizione nel ricostruire il fatto o nel sussumerlo nella fattispecie astratta. Sostiene la ricorrente che la pronuncia sulla denunciata inammissibilità del reclamo era ineludibile da parte della Corte di appello che non si poteva esimere dal rispondere alle eccezioni formulate.
5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 111 Cost., 118 disp. att. cod. civ. e 112, 113, 132 e 434 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ. oltre che la violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. sempre con riguardo alla mancata pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del reclamo.
6. Le censure, da esaminare congiuntamente, sono infondate dovendosi dare continuità all’orientamento espresso da questa Corte proprio con riferimento all’ipotesi di esame nel merito di un gravame del quale era stata eccepita l’inammissibilità, ha affermato che non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass. 06/12/2017 n. 29191 ed anche 06/07/2011 n. 14851 e 10705/2007 n. 10696). Ad integrare gli estremi della omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessario che sia completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile in riferimento alla soluzione del caso concreto: il che non si verifica quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione. Nel caso in esame la Corte territoriale ha dato atto delle censure formulate sintetizzandole ed ha individuato i punti di cui era chiesta la correzione. Così facendo ha mostrato di averne verificato la specificità sebbene non ne abbia poi esplicitato la conclusione di rigetto della proposta eccezione che, tuttavia, è l’unica compatibile con l’esame del merito delle censure formulate.
7. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 18 comma 1 della legge 300 del 1970 come novellata dalla legge n. 96 del 2012, degli artt. 1324, 1344, 1345, 1418, 2119, 2697 cod. civ. e degli artt. 113, 115, 116 commi 1 e 2 cod. proc. civ. dell’art. 2 del d.lgs. 4.3.2015 n. 23, della direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000, dell’art. 3 I. 208 del 1990 in relazione all’estensione ai licenziamenti nulli perché discriminatori di cui all’art. 4 della I. n. 604 del 1966 ed all’art. 15 della I. n. 300 del 1970 (lett. A). In relazione all’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ., poi, è denunciata la violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. (lett. B) e in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. è denunciato I’ omesso esame di un punto decisivo per la decisione della controversia (lett. C).
7.1. Sostiene il ricorrente che, al di là delle contestazioni formulate, il licenziamento traeva origine dall’esistenza di una forte contrapposizione determinatasi tra i dirigenti della RAP e le sigle sindacali da una parte ed il Sindaco di Palermo ed il Presidente della società dall’altra, nel periodo di emergenza nella raccolta dei rifiuti a Palermo nei mesi di giugno- luglio 2015. Sostiene il ricorrente, dopo aver diffusamente ricostruito i vari episodi espressione dell’attrito denunciato in ordine alle scelte di politica aziendale per fronteggiare il disservizio determinatosi, che la società, invece di schierarsi in favore dei sui dirigenti, avvalorò la posizione del suo Presidente, ed imputò a loro la responsabilità del malfunzionamento del sistema di raccolta, trovando poi l’occasione per licenziarlo dopo avergli contestato addebiti riferiti a comportamenti critici asseritamente assunti dal Guicciardo nei confronti del Consiglio di Amministrazione e del Presidente della società ed una continuativa e costante trasgressione delle disposizioni di servizio impartite dall’azienda, comportamenti ritenuti gravemente offensivi, lesivi dell’immagine dell’azienda che avevano irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario con il G.. Al contrario, sostiene il ricorrente che il licenziamento, fondato su fatti ed episodi in parte risalenti ed in parte pretestuosi, sarebbe stato in realtà determinato dalla volontà di trovare un capro espiatorio alla difficile situazione in cui si era venuta a trovare l’azienda. Una illegittima reazione al diritto di critica legittimamente esercitato dal ricorrente tanto che doveva essere ravvisato quel motivo illecito discriminatorio denunciato ed ignorato dalla Corte di appello che ha invece ritenuto giustificato il recesso. Ad avviso del G. la Corte territoriale avrebbe dovuto in primo luogo indagare sulla reale causa del recesso e, quindi, dare ingresso alle prove in tal senso articolate, che invece erano state del tutto trascurate. Sottolinea che proprio gli addebiti formulati costituiscono la prova dell’intento ritorsivo denunciato e che di tale intento si troverebbe ulteriore conferma nella documentazione depositata in giudizio che, invece, non è stata presa in considerazione dalla Corte di appello che era così incorsa nel vizio di motivazione denunciato.
8. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
8.1. Al di là della proposizione nella medesima censura di più differenti vizi infatti laddove ci si duole della violazione di plurime disposizioni di legge (sub A) con riguardo ad un errato mancato accertamento della natura discriminatoria del recesso si osserva che il ricorrente da un canto non allega puntualmente quale sarebbe la ragione di discriminazione. Per come ricostruiti i fatti si potrebbe semmai rientrare nella fattispecie del licenziamento c.d. ritorsivo di cui tuttavia non è dimostrata, ma neppure puntualmente allegata, l’esistenza di un motivo unico e determinante illecito (sulla differenza tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo v. Cass. 07/11/2018 n. 28453). La censura si sostanzia, in realtà, in una diversa lettura dei fatti tutti puntualmente esaminati dalla Corte di merito, con una ricostruzione plausibile ed aderente alle emergenze istruttorie, che è pervenuta alle conclusioni che oggi vengono contestate.
Da quanto esposto consegue che non è ravvisabile né il vizio processuale né quello motivazionale denunciato alle lettere B e C del motivo in esame. La Corte infatti ha valutato le prove secondo il suo discrezionale apprezzamento e senza trascurare elementi decisivi, dovendosi peraltro rilevare che il ricorrente che si duole di un omesso esame di documenti decisivi non ne riproduce il contenuto evidenziandone i profili di decisività, come era suo onere, e si limita a generici riferimenti (cfr. pagg. 33 e 35) ad allegati in atti del giudizio.
In tema di ricorso per cassazione, il principio di autosufficienza – prescritto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. – è volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell’impugnazione ed il ricorrente ha l’onere di operare una chiara funzionale alla piena valutazione di detti motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte di cassazione (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (cfr. Cass. s.u. 11/04/2012 n. 5698 e recentemente tra le tante Cass. 04/10/2018 n. 24340).
9. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 360 primo comma n. 3 in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., agli artt. 1175, 1345, 1362, 2105 e 2118 cod.civ. quest’ultimo in relazione all’art. 35 c.c.n.I. del 2009, dell’art. 7 della I. n. 300 del 1970 in relazione all’art. 2 e ss. d.lgs. 23 del 2015, della direttiva 2000/78/CE e dell’art. 3 della I. n. 108 del 1990 (lett. A); violazione dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. (lett. B); violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. in relazione all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (lett. C).
9.1. Con riguardo al primo profilo, ad avviso del ricorrente, la Corte di merito sarebbe incorsa in errore nel ritenere che i comportamenti contestati al Guicciardo giustificassero il recesso. Sostiene infatti che il tratto distintivo della giustificatezza del recesso è da ravvisare nella sua non pretestuosità e non arbitrarietà. Sottolinea al riguardo che la Corte non ha svolto una istruttoria per accertare la rispondenza al vero degli addebiti ed in particolare non ha verificato se dagli atti di causa fosse possibile desumere l’arbitrarietà del recesso risultante da una condotta datoriale non rispettosa dei principi di correttezza e buona fede ed anche se il provvedimento espulsivo fosse stato tempestivamente adottato rispetto ai fatti da cui era scaturito. Ad avviso del ricorrente ove la Corte avesse proceduto a tale esame si sarebbe convinta del carattere illecito o discriminatorio del recesso. Al contrario la sentenza recupera cumulandoli comportamenti posti in essere nei tre anni precedenti per giustificare il provvedimento espulsivo.
10. Anche tale censura, nei suoi plurimi profili, è in parte inammissibile ed in parte infondata.
10.1. La Corte territoriale, infatti, ha preso in esame le contestazioni ed ha accertato che la condotta addebitata, quale risultava provata, esprimeva un atteggiamento reiteratamente demotivante, di discredito dei superiori e non collaborativo e che il licenziamento era un rimedio “non arbitrario dettato dall’esigenza di recuperare un rapporto armonico tra organo amministrativo e livelli dirigenziali”. In sostanza la Corte di merito, nell’escludere una ritorsività della scelta aziendale l’ha ascritta, piuttosto, alla irreversibile compromissione del rapporto fiduciario con il suo dirigente. In tal modo il giudice di appello ha correttamente applicato i principi più volte affermati da questa Corte che con riguardo alla nozione di giustificatezza del recesso intimato ad un dirigente ha rammentato che tale nozione contrattuale si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d’essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall’altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda (Cass. ord. VI-L n. 27199/2018 e già Cass. n. 23894/2018).
10.2. Quanto alla tempestività del recesso va rilevato che la Corte di appello dà atto che alcuni addebiti riguardano fatti risalenti ma valuta complessivamente tutte le condotte per concludere che i dichiarati dissensi e le intemperanze si risolvevano in un boicottaggio dell’azione dirigenziale dei vertici della società ingenerando demotivazione e sfiducia nell’autorevolezza degli ordini di servizio. In tali termini ha interpretato gli episodi oggetto di addebito, che non risultano essere mai stati contestati nella loro storicità e che convergevano a comporre una unica condotta, così che ne appariva corretta una valutazione globale ed unitaria da parte del datore di lavoro. Come è stato ritenuto da questa Corte, infatti, in una ipotesi di tal fatta l’intimazione del licenziamento ben può seguire l’ultimo dei fatti, anche ad una certa distanza temporale dai fatti precedenti (cfr. Cass. n. 3948 del 2000). Peraltro, si deve rilevare che la Corte nella sua ricostruzione utilizza le circostanze di fatto più risalenti al solo fine di meglio tratteggiare un atteggiamento del lavoratore il cui licenziamento ritiene sia giustificato dalle condotte tenute in prossimità dello stesso, tutte ritualmente contestate. La circostanza che il G. era stato per ben due volte invitato a ritirare le dimissioni presentate non è di per sé decisiva ai fini di una diversa valutazione delle condotte che hanno portato alla risoluzione del rapporto di lavoro ma semmai conferma proprio quei “dichiarati dissensi ed intemperanze” che la Corte di appello afferma che avevano costellato il rapporto lavorativo con il G. negli ultimi tempi. Intemperante che si erano risolte, secondo la valutazione complessiva datane dal giudice di appello a cui è riservata la valutazione dei fatti, in una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che presiedono lo svolgimento del rapporto.
Anche tale motivo di ricorso deve, pertanto, essere rigettato. E resta assorbito l’esame dell’ultimo motivo con il quale è chiesta la riforma della statuizione sulle spese adottata dal giudice di appello che accogliendo il ricorso le ha regolate ex novo. Si tratta infatti di censura subordinata all’auspicato accoglimento del ricorso per cassazione.
11. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Va dato atto, poi, che ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si liquidano in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
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