CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 marzo 2019, n. 8671
Lavoro pubblico – Conversione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine – Divieto
Rilevato che
la Corte d’Appello di Bari, riformando con sentenza n. 723/2013 la pronuncia di accoglimento del Tribunale di Foggia, rigettava la domanda di G. C., G. M. e G. C. finalizzata ad ottenere la conversione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine intercorsi con la A.S.L. di Foggia ed il risarcimento del danno per abusivo ricorso a tale tipologia contrattuale;
la Corte territoriale, pur ritenendo che i contratti a termine fossero illegittimi perché era illegittima la seconda proroga del termine e la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro oltre la durata di cui all’art. 5, co. 2 d. Igs. 368/2001, affermava, rigettando l’appello incidentale della lavoratrice, che non potesse disporsi la conversione del rapporto e, accogliendo l’appello principale dell’Azienda, che neppure la pretesa risarcitoria potesse avere corso, in quanto subordinata alla prova, insussistente, del pregiudizio patito;
avverso tale sentenza il C. ed il M. hanno proposto ricorso per cassazione con un unico motivo, poi illustrato da memoria, resistiti da controricorso dell’Azienda, anch’esso corredato da memoria difensiva;
Considerato che
con l’unico motivo di ricorso i lavoratori adducono, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 1, 4, 5 del d. Igs. 368/2001 e dell’art. 36 d. Igs. 165/2001, sostenendo che, a fronte dell’illegittima apposizione del termine a contratti di lavoro a tempo determinato presso le Pubbliche Amministrazioni, sussisterebbe il diritto alla conversione a tempo indeterminato e, comunque, sulla base dei precedenti di questa Corte in tal senso, al risarcimento del danno da riconoscere, in funzione sanzionatoria dell’illegittimo comportamento datoriale, senza che i lavoratori possano ritenersi gravati dell’onere probatorio rispetto al pregiudizio patito;
la pretesa, ulteriormente chiarita ed approfondita nella memoria ex art. 380-bis 1 c.p.c., dell’affermazione di una regula iuris nel senso della possibilità di convertire i contratti, in quanto caratterizzati dalla presenza di illegittimità sotto il profilo dell’apposizione del termine, in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, è in ogni caso infondata;
il divieto di tale conversione è stato costantemente affermato da questa Corte, senza condizioni, in plurime pronunce nel corso del tempo, con orientamento poi confermato al massimo livello di nomofilachia (Cass. S.U. 15 marzo 2016, n. 5072) e successivamente ancora costantemente reiterato (tra le molte, in progressione temporale, Cass.2 agosto 2016, n. 16095; Cass. 6 aprile 2017, n. 8927; Cass. 19 febbraio 2019, n. 4801); non può quindi ritenersi che l’isolato precedente di Cass. 15 ottobre 2018, n. 25728, citato dai ricorrenti nelle proprie difese finali, in cui si argomenta sulla possibilità che anche nel pubblico impiego vi sia conversione a tempo indeterminato, nel caso in cui all’illegittimità del termine si associ un’originaria assunzione per il tramite di un concorso o di una selezione ad esso assimilabile, possa considerarsi l’incipit di una nuova riflessione sulla questione;
ancora più di recente si è del resto ribadito (Cass. 4801/2019, cit.) che «nel rapporto di pubblico impiego a tempo determinato l’eventuale violazione delle norme sul contratto a termine non può mai tradursi nella conversione del rapporto per espressa disposizione legislativa (art. 97 Cost. e art. 36 d.lgs. n.165 del 2001)»;
si rende in proposito necessario riepilogare, ed approfondire per quanto opportuno, i tratti fondamentali delle ragioni che escludono, a diritto vigente, la possibilità di conversione a tempo indeterminato, nel pubblico impiego, dei rapporti a tempo determinato, pur quando si determini un’abusiva reiterazione di contratti a termine;
il ragionamento, stante anche la gerarchia delle fonti coinvolte, non può che muovere dall’ambito eurounitario;
all’interno di esso, sulla base di un’intensa elaborazione giurisprudenziale, sono stati ormai fissati chiari parametri generali che definiscono l’ambito delle misure che gli Stati membri sono tenuti ad adottare al fine di assicurare che le norme sostanziali limitative del ricorso abusivo a contratti a termine adottate in attuazione dell’art. 5 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE (e consistenti in almeno una fra le ipotesi elencate in tale disposizione attinenti, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi) siano assistite da un apparato sanzionatone non solo proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme stesse (Corte Giustizia 12 dicembre 2013, Papalia, punti 19 e 20; Corte di Giustizia 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, punto 49); tali parametri possono essere così sintetizzati:
-ammissibilità di una normativa interna che riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico (Corte di Giustizia 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, punto 48);
– inammissibilità di una normativa interna che preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto, allorquando sia esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e quando il diritto a detto risarcimento sia subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione (Corte Giustizia 12 dicembre 2013, Papalia);
– ammissibilità di una normativa interna che, pur non consentendo la conversione a tempo indeterminato, preveda la concessione di un’indennità […], accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (Corte di Giustizia 7 marzo 2018, Santoro)-, il giudice interno, nella propria massima espressione nomofilattica, aveva già precedentemente affermato che il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è «presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente» (poi fissato dalla medesima pronuncia, senza vincoli di oneri probatori sul danno, nella misura di cui all’art. 32 , comma 5, della I. n. 183 del 2010, salvo dimostrazione anche dell’eventuale maggior pregiudizio) « anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine», sicché deve ritenersi che «l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale» (Cass. S.U. 5072/2016 cit.), con orientamento ora avallato anche dalla Corte Costituzionale, che nel respingere la questione di legittimità inerente l’art. 36, comma 5, d. Igs. 165/2001, ha fatto espressamente leva sulla compatibilità eurounitaria delle statuizioni contenute nella citata sentenza delle S.U. (Corte Costituzionale 27 dicembre 2018, n. 248);
pertanto, il combinarsi della giurisprudenza eurounitaria, con il citato intervento delle Sezioni Unite e della Corte Costituzionale, consentono di ritenere legittimo un sistema che, in caso di abusiva reiterazione di contratti a termine, preveda quale conseguenza, nell’ambito del rapporto di diritto privato tra lavoratore e datore di lavoro, il riconoscimento di un’indennità nella misura di cui all’art. 32 cit. infondato è d’altra parte il richiamo nelle difese dei ricorrenti a Corte di Giustizia 25 ottobre 2018, Sciotto, al fine di avvalorare la tesi del diritto alla conversione del rapporto, in quanto quella sentenza riguardava un caso specifico (lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche) e giustificava la conversione sul presupposto dell’assenza nell’ordinamento di ogni altra misura sanzionatoria, al contempo richiamando come sistema legittimo (v. punto 72) quello che, per i lavoratori pubblici in genere, prevede la sanzione risarcitoria con una base svincolata da oneri probatori del danno a carico del lavoratore, secondo quanto ritenuto da Corte di Giustizia 7 marzo 2018, Santoro;
quello sopra ricostruito (divieto di conversione assistito da misure pecuniarie caratterizzate da automatismi risarcitori) è del resto, come innanzi evidenziato, il sistema vigente rispetto ai rapporti di lavoro a tempo determinato con la Pubblica Amministrazione presso la quale, secondo quanto affermato dalla già citata Cass. 4801/2019 cit., «l’eventuale violazione delle norme sul contratto a termine non può mai tradursi nella conversione del rapporto per espressa disposizione legislativa»;
venendo quindi ancor più da vicino al tenore del diritto positivo, si osserva che la norma secondo cui “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione», salvo affinamenti mediante aggiunte inerenti la responsabilità dirigenziale, è rimasta invariata, pur nei mutamenti della sua collocazione, fin dalla prima introduzione di cui all’art. 22 d. Igs. 80/1998, fino poi a confluire nell’art. 36 d. Igs. 165/2001, al co. 2, divenuto ad oggi l’attuale comma 5;
il disposto letterale non lascia adito a dubbio alcuno ed è perentorio nel disporre che «in ogni caso» (tradotto da Cass. 4801/2019 in quell’evocativo «mai» di cui si è detto) dalle violazioni delle norme sul contratto a termine possa derivare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni;
Cass. S.U. 5072/2016 cit. ha poi chiarito ulteriormente e definitivamente (punto 5) come la norma sia da considerare speciale e certamente sopravvissuta all’entrata in vigore (in allora) del d. Igs. 368/2001 e sul punto non vi è ragione di tornare;
la radice di tale divieto di conversione è tradizionalmente riportata alla necessità che, per espressa previsione costituzionale (art. 97, co. 3, Cost.) l’assunzione presso le Pubbliche Amministrazioni avvenga mediante pubblico concorso, salva la possibilità di derogare per legge a tale principio solo nei casi in cui (Cass. 30 marzo 2018, n. 7982) ciò risulti maggiormente funzionale al buon andamento dell’amministrazione e corrispondente a straordinarie esigenze d’interesse pubblico individuate dal legislatore in base ad una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza (vedi, per tutte, Corte Costituzionale 19 maggio 2017, n. 113; 12 maggio 2014, n. 134; 13 settembre 2012, n. 217; 27 marzo 2003, n. 89);
ciò vale ad escludere a priori che si possa ragionare di conversione allorquando l’assunzione non sia avvenuta mediante concorso o selezione ad esso assimilabile e da qui il costante richiamo in tal senso di tutta la giurisprudenza, ma non significa che, a fronte di assunzioni a tempo determinato mediante concorso o selezione ad esso assimilabile, ne possa derivare, in caso di illegittimità del termine, la conversione a tempo indeterminato;
in uno dei principali interventi in materia la Corte Costituzionale, nell’escludere che il divieto di conversione in ambito di pubblico impiego fosse illegittimo proprio perché caratterizzato dalla necessità del concorso, ebbe già cura di precisare che tale affermazione veniva svolta «limitando l’esame al solo profilo genetico del rapporto, che nella specie viene in considerazione» (Corte Costituzionale 27 marzo 2003, n. 89), con ciò lasciando apertamente trapelare come la questione sulla conversione a tempo indeterminato investisse ambiti ben più ampi rispetto, appunto, a quello “genetico” del rapporto, ovverosia attinente alle modalità di selezione dei dipendenti;
al contempo si osserva come Corte Costituzionale 17 giugno 1996, n. 205, dichiarò l’illegittimità di una normativa regionale siciliana che prevedeva la stabilizzazione di borsisti di ricerca a termine, sul presupposto che l’ampliamento e rideterminazione erano stati disposti da tale normativa «in assenza di una qualsiasi istruttoria e quindi in mancanza di una preventiva acquisizione di dati di conoscenza», in violazione della «necessità che le piante organiche non vengano ampliate e nuovo personale non venga assunto nei ruoli, se non a seguito di una rilevazione dei carichi di lavoro», con sostanziale infrazione «del canone generale del buon andamento, di cui all’art. 97 Cost»; tali principi evidenziano come il divieto di trasformazione in rapporti a tempo indeterminato dei contratti a termine illegittimi affondi più ampiamente le proprie radici all’interno dell’art. 97 Cost., sicché è limitante la prospettiva che faccia riferimento soltanto, quale espressione del buon andamento ed imparzialità di cui al co. 1 di tale norma costituzionale, al pubblico concorso ed al co. 3 della stessa norma;
muovendo dal diritto positivo, è palese come l’architettura del d. Igs. 165/2001 si fondi su un sistema di programmazione e piani di fabbisogno (art. 6), poi richiamati come base per il reclutamento del personale (art. 35, co. 4), che palesemente verrebbe alterato dalla possibilità di conversione a tempo indeterminato di rapporti a termine sulla sola base di meri comportamenti, inevitabilmente eccentrici rispetto ad una programmazione rigorosa quale quella prevista dalla normativa, di reiterazione illegittima di contratti a tempo determinato; quell’ «in ogni caso», di cui all’art. 36, va dunque collocato in questa prospettiva, rispettosa del principio di buon andamento quale richiamato da Corte Costituzionale 205/1996 cit.;
inoltre, una diversa posizione che intendesse alterare quel quadro, sulla base di un’indiscriminata equazione tra illegittimità del termine e conversione a tempo indeterminato del rapporto, oltre a non risultare come detto necessitata sulla base della disciplina eurounitaria, finirebbe altresì, derogando senza presupposto all’art. 36 cit. ed alle citate norme (art. 6 e 35) che con esso fanno sistema, per interferire indebitamente anche con il principio di cui alla prima parte del primo comma dell’art. 97, sulla base del quale l’organizzazione della Pubblica Amministrazione è destinata a muoversi solo «secondo disposizioni di legge»;
d’altra parte, tornando perciò ancora al diritto positivo, l’attuale formulazione dell’art. 36 prevede, tra l’altro, che «per prevenire fenomeni di precariato le amministrazioni pubbliche nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per i concorsi pubblici a tempo indeterminato» e ciononostante ribadisce (attraverso il richiamo al «rispetto delle disposizioni del presente articolo», tra cui quindi anche quella del divieto di conversione), l’impossibilità di ogni forma di conversione, sicché anche l’evoluzione della norma (l’obbligo di individuare i destinatari del rapporto a termine fra i vincitori e gli idonei di concorsi per posti a tempo indeterminato risale alla L. 125/2013, di conversione del d.l. 101/2013, art. 4) conferma che il fondamento del divieto di conversione va ricercato, oltre che nel principio del pubblico concorso, anche nei principi di efficienza e buon andamento della Pubblica Amministrazione, che impediscono la conversione, in caso di illegittimo ricorso al rapporto a termine, anche nell’ipotesi in cui il destinatario dei contratto di lavoro flessibile sia stato dichiarato idoneo all’esito di una procedura concorsuale bandita per posti a tempo indeterminato; tale dato normativo, pur successivo alla disciplina concreta applicabile ratione temporis alla presente fattispecie, viene tuttavia ad attestare un principio già sotteso alla precedente normativa ed in particolare al mai mutato testo dell’art. 35, co., 1, d. Igs. 165/2001;
va dunque affermato, in continuità con la sopra citata giurisprudenza di questa Corte, il principio per cui «in materia di impiego pubblico contrattualizzato nel caso di utilizzazione di contratti di lavoro flessibile, che deve sempre avvenire ex art. 36, primo comma, del d.lgs n.165 del 2001 nel rispetto delle procedure di reclutamento di cui dall’art. 35 del citato d.lgs n. 165 del 2001, la regula iuris secondo la quale, in ipotesi di violazione da parte delle pubbliche amministrazioni di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, non può in ogni caso comportare, ai sensi dell’originario comma 2 e poi del comma 5 dell’ art.36 del richiamato d.lgs n. 165 del 2001, la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato non ammette eccezioni e riguarda anche l’ipotesi in cui l’individuazione del lavoratore assunto a termine, o con altre forme di lavoro flessibile, è avvenuta all’esito delle procedure di reclutamento sopra richiamate o utilizzando le graduatorie di procedure concorsuali»;
va disattesa altresì l’istanza, sempre contenuta nelle note finali, di proposizione di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, al fine di sentir valutare se le clausole 4, punto 1 e 5 e 5, punti 1 e 2, dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 199/70/CE, nonché gli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ostino ad una normativa nazionale, quale l’art. 36 d. Igs. 165/2001 la quale in caso di accertato abusivo ricorso ai contratti a termine impedisce la conversione dei rapporti, a tempo indeterminato, così discriminando i lavoratori del settore pubblico rispetto a quelli del settore privato, oltre che rispetto ad altri lavoratori del settore pubblico, per i quali la tutela sanzionatola sarebbe rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato;
in particolare il richiamo ai lavoratori del settore privato è inconferente in quanto, come già detto, la Corte di Giustizia ha da tempo ritenuto l’infondatezza di un raffronto in tal senso (Corte Giustizia 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, punto 48);
quanto invece alla asserita discriminazione rispetto ad altri lavoratori del settore pubblico, per i quali la tutela sanzionatoria sarebbe rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il rilievo è del tutto aspecifico, essendo stato prospettato il raffronto rispetto a tredici diverse categorie di lavoratori, senza alcuna concreta analisi di dettaglio che illustri le diverse discipline e le ponga a confronto critico con quella generale di cui all’art. 36 cit., nelle sue plurime implicazioni di cui si è detto (in tal senso Corte Cost. 248/2018 cit., punto 6.1);
tale generica impostazione impedisce di percepire l’effettiva sussistenza, nonostante la specialità delle categorie e delle situazioni di lavoro pubblico elencate, di tratti differenziali che, anche ove esistenti, non discendano appunto da tali specialità, ma si manifestino come concretamente discriminatori; l’istanza, così prospettata, non può pertanto avere corso;
il motivo è invece da accogliere nella parte in cui contesta la tesi della Corte territoriale secondo cui i lavoratori sarebbero onerati della prova del danno subito per l’illegittima apposizione del termine; rispetto a ciò opera infatti quanto deciso dalle Sezioni Unite di questa Corte, nel senso che «in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della I. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito» (Cass., S.U., 5072/2016, cit.);
la Corte d’Appello, onerando i lavoratori della prova in ogni caso della ricorrenza di un danno risarcibile (pur a fronte di accertate violazioni rispetto al regime della seconda proroga ed al perdurare dei rapporti dopo lo spirare del termine e dunque a disposizioni destinate appunto ad impedire l’abusivo protrarsi contra legem del rapporto precario) ha deciso in difformità dal predetto principio e la sentenza va quindi cassata con rinvio della causa alla medesima Corte territoriale in diversa composizione, la quale procederà adeguandosi ai principi di cui sopra;
nelle memorie conclusive di cui all’art. 380-bisl c.p.c. la controricorrente ha peraltro sollecitato il rilievo in ordine all’intervenuta conclusione con i ricorrenti di un contratto a tempo indeterminato, sostenendo che l’inserirsi dei pregressi contratti a termine in un procedimento di stabilizzazione regolato dalla legislazione regionale (art. 3, co. 38, L.R. 40/2007; art. 30 L.R. 10/2007) determinerebbe la cessazione della materia del contendere e comunque, essendo stata ottenuta una tutela più ampia, escluderebbe che si possa ancora discutere di diritti risarcitori, evidentemente sulla falsariga dei precedenti in senso analogo di questa Corte (Cass. 3 luglio 2017 n. 16336, sulle stabilizzazioni presso il Ministero di Giustizia, Cass. 7 novembre 2016, n. 22552, sulle stabilizzazioni nel settore scolastico);
tali difese sono inammissibili, in quanto esse, pur riguardando fatti storici (stipula di contratti a tempo indeterminato in esito ad apposite delibere) pacificamente verificatisi nel corso del giudizio di appello, si sorreggono su documenti di cui neppure si afferma nel ricorso l’avvenuta produzione almeno nel predetto grado di merito, i quali non possono pertanto avere ingresso (art. 372 c.p.c.) in sede di legittimità, così come, parimenti, non si precisa neppure se e come i suddetti fatti storici, lo si ribadisce verificatisi nel corso del giudizio di appello, fossero emersi o comunque fossero stati acquisiti al processo almeno entro quel grado;
il ricorso va dunque accolto, limitatamente a quanto sopra specificato, ovverosia in riferimento all’erronea affermazione della Corte d’Appello secondo cui in favore dei ricorrenti non opererebbe il riconoscimento del danno su base presuntiva, da attuare secondo le modalità di cui all’art. 32 cit.;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Bari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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