CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 novembre 2018, n. 30742
Dichiarazione dei redditi – Accertamento – Investimenti effettuati all’estero – Omessa dichiarazione – Termine di decadenza per l’irrogazione della sanzione
Rilevato
– che l’Agenzia delle entrate ricorre con un unico motivo nei confronti del contribuente, che resta intimato, per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata con la quale la CTR veneta, in controversia relativa ad impugnazione di atti di irrogazione delle sanzioni ex art. 5, comma 2, del d.l. n. 167 del 1990, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 227 del 1990, per avere il contribuente omesso di dichiarare, in violazione dell’art. 4 della citata legge, gli investimenti effettuati all’estero mediante compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi relativa all’anno d’imposta 2007, respingeva l’appello proposto dall’Ufficio finanziario avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, annullando l’atto sanzionatorio perché messo dall’ufficio quando era ormai decorso il termine quadriennale per l’accertamento di cui all’art. 20, comma 1, seconda parte, d.lgs. n. 472 del 1997, applicabile al caso di specie;
— che sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio;
Considerato che
1. Con l’unico motivo di ricorso la difesa erariale, deducendo la violazione e falsa applicazione degli arti. 16 e 20 del d.lgs. n. 472 del 1997 e 4 del d.l. n. 167 del 1990, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 227 del 1990, censura la statuizione impugnata per avere ritenuto applicabile, nell’ipotesi come quella in esame di omessa compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi relativo all’anno 2007 (UNICO 2008), la seconda parte del comma 1 dell’art. 20 del d.lgs. n. 472 del 1997 che stabilisce che l’atto di irrogazione delle sanzioni deve essere notificato nel «termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi», nella specie ritenuto coincidente con quello quadriennale previsto per l’accertamento dell’IRPEF dall’art.1, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973 «in virtù della colleganza fra sanzione per omessa dichiarazione in RW e tributo IRPEF relativo ai proventi frutto di capitali esteri» (sentenza, pag. 5);
2. Il motivo è fondato e va accolto per le ragioni di seguito indicate.
3. Premesso che nel caso in esame non è in contestazione l’omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi relativi all’anno 2007 di investimenti detenuti all’estero, il Collegio, andando di contrario avviso alla tesi della ricorrente, ritiene che proprio la natura tributaria della sanzione di cui all’art. 5, commi 4 e 5, della legge n. 227 del 1990 (desumibile, secondo Cass. n. 24009 del 2013 «/dal l’obbligo di dichiarazione dei redditi costituiti dai trasferimenti da e per l’estero di denaro o altri valori, [dal] la presunzione legale di redditività fiscale degli stessi, e dalla stessa natura di specifiche manifestazioni di capacità contributiva ascrivibile a tali trasferimenti, e desumibile dalla ratio della normativa in esame»; in termini anche Cass. n. 26848 del 2014, nonché Cass. n. 17051 del 2010, che ha ravvisato «l’indissolubile collegamento genetico e funzionale (.. .) tra la sanzione irrogata per la disponibilità di capitali all’estero e l’imponibilità fiscale dei redditi presuntivamente tratti da quella disponibilità») induca a ritenere che il termine di decadenza per l’irrogazione della sanzione prevista dalla sopra citata disposizione per l’omissione dichiarativa degli investimenti esteri, vada individuato non nel termine di cui alla prima parte del comma 1 dell’art. 20 d.lgs. n. 472 del 1997, che fa riferimento al tempo della commissione della violazione, bensì in quello «diverso» previsto per l’accertamento del tributo dovuto, di cui alla seconda parte della citata norma (in tal senso le pronunce sopra citate, ancorché emesse con riferimento a tale disposizione nella versione ratione temporis vigente, che individuava tale termine in quello «maggiore previsto per l’accertamento del tributo»).
4. Va però osservato che sia il termine di accertamento dei tributi, che quello di applicazione delle sanzioni, sono stati raddoppiati dai commi 2—bis e 2—ter dall’art. 12 del d.l. n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009.
4.1. Prevede il comma 2-bis che: «Per l’accertamento basato sulla presunzione di cui al comma 2, i termini di cui all’articolo 43 , primo e secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 , e successive modificazioni, e all’ articolo 57, primo e secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, sono raddoppiati».
4.2. Il comma 2-ter a sua volta prevede che «Per le violazioni di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, e successive modificazioni, riferite agli investimenti e alle attività di natura finanziaria di cui al comma 2, i termini di cui all’ articolo 20 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, sono raddoppiati».
4.3. Tali disposizioni sono state introdotte dall’art. 1, comma 3, del d.l. n. 194 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 25 del 2010, e sono entrate in vigore il 30/12/2009 (data di pubblicazione nella G.U. del citato decreto legge, posto che nessuna modifica ha subito in sede di conversione), ovvero quando i termini dell’accertamento operato nei confronti della società contribuente per l’anno d’imposta 2007 non erano ancora scaduti.
5. Ciò posto, osserva il Collegio che alla domanda se tali disposizioni abbiano natura procedimentale, e quindi efficacia retroattiva e come tali applicabili anche ai periodi di imposta precedenti a quello della loro entrata in vigore (30/12/2009), deve darsi risposta positiva.
6. Al riguardo pare necessario premettere che alla fattispecie non è applicabile il principio espresso da questa Corte nell’ordinanza n. 2662 del 02/02/2018 (Rv. 647493), in cui si è affermato che «La presunzione di evasione sancita, con riferimento agli investimenti ed alle attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, dall’art. 12, comma 2, del d.l. n. 78 del 2009, conv., con modi”‘, dalla l. n. 102 del 2009, in vigore dal 1° luglio 2009, non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzioni collocate, tra quelle sostanziali, nel codice civile, ed inoltre perché una differente interpretazione potrebbe -in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.- pregiudicare l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione».
6.1. Trattasi, invero, di affermazione di principio fatta con riferimento a disposizione (il comma 2 del citato art. 12) del tutto diversa da quelle che qui vengono in rilievo, le quali hanno natura chiaramente procedimentale, non apportando modifiche all’obbligazione tributaria o alla posizione soggettiva del contribuente, come la disposizione oggetto della sopra citata pronuncia giurisprudenziale, ma esclusivamente sui termini di esercizio del potere di controllo, accertamento e contestazione delle violazioni, con la conseguenza che alle stesse va riconosciuta valenza retroattiva.
6.2. A conforto della tesi qui sostenuta può richiamarsi quanto affermato da questa Corte nel caso di modifica di norma in materia probatoria, ovvero di “estensione retroattiva” dell’art. 18 della L. n. 413 del 1991, che, modificando l’art. 51 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ha consentito all’ufficio erariale ed alla Guardia di finanza di accedere ai conti intrattenuti” dal contribuente con “aziende e istituti di credito” o con l’allora “amministrazione postale”. In quell’occasione si è detto, peraltro ribadendo un principio già affermato da questa Corte, che «l’utilizzazione dei poteri riconosciuti da detta norma anche ai fini dell’accertamento” delle imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto relative ad annualità precedenti la sua entrata in vigore non configura affatto una applicazione retroattiva della disposizione in quanto non determina una “modificazione sostanziale della posizione soggettiva del contribuente” atteso che gli obblighi di questo nei confronti del Fisco “restano quelli separatamente contemplati dalle leggi in vigore al tempo della dichiarazione”: il momento dell’accertamento, infatti, per sua natura, non è idoneo a modificare l’obbligazione tributaria né il contenuto della dichiarazione, il cui parametro di legittimità è costituito dalla sua veridicità, per cui la contestata applicazione incide solo sul controllo di tale dichiarazione, più specificamente sull’acquisizione della prova (Cass., Sez. trib., 13 maggio 2003, nn. 7329 e 7344; Id., Sez. trib., 19 luglio 2002, n. 10598; Id., Sez. trib., 29 marzo 2002, n. 4601; Id., Sez. trib., 20 novembre 2001, n. 14567; Id., Sez. trib., 21 luglio 2001, n. 9611). La Corte Costituzionale (sentenza n. 260 del 6 luglio 2000), poi, dal suo canto, ha espressamente (e convincentemente F…)) escluso che l’applicazione della norma anche agli accertamenti relativi ad annualità d’imposta anteriori alla sua entrata in vigore violi sia il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione (…), in quanto “norme sostanzialmente analoghe … sono previste ai fini dell’accertamento, nei confronti di tutti i contribuenti”, che il diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione, osservando che il contribuente è “tempestivamente informato delle richieste di acquisizione delle copie dei conti” e può “pienamente esercitare, già in sede amministrativa, e quindi in sede giurisdizionale, il suo diritto a fornire documenti, dati, notizie e chiarimenti idonei a dimostrare che le risultanze dei conti non sono in contrasto con le dichiarazioni presentate o che esse non riguardano operazioni imponibili”. Le disposizioni contestate, poi, tendono proprio a fare emergere la capacità contributiva reale del contribuente per cui va escluso qualsiasi contrasto con l’art. 53 della Costituzione» (cfr Cass. n. 19947 del 2005; n. 7344 del 2003 e n. 11778 del 2001).
6.3. Peraltro, «è inconferente il principio del favor rei, perché l’applicazione di tale principio è predicabile unicamente al cospetto di norme sanzionatorie, non già allorquando si tratti dei poteri di accertamento oppure della formazione della prova» (Cass. n. 21041 del 2014, richiamato anche da Cass. n. 22744 del 2015, in materia di applicazione retroattiva del “nuovo redditometro” di cui al D.M. 24/12/2012).
6.4. Ad ulteriore conforto della tesi sostenuta, deve osservarsi che la natura procedimentale delle disposizioni sul raddoppio dei termini, oltre a porsi in linea con la ratio della disposizione di cui all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, che a quei fini accomuna imposte e sanzioni, è anche conforme ai principi convenzionali, secondo cui alle norme procedimentali e/o processuali, anche penali o di diritto punitivo in senso lato, non si estende la tutela apprestata dall’art. 7 della Convenzione EDU (v. CEDU; sent. 20402 del 12/04/2007, Martelli c. Italia; sentenza 22 giugno 2000, Coeme ed altri c. Belgio).
7. Dal complesso delle argomentazioni svolte discende che l’estensione retroattiva deve ritenersi applicabile sia alle norme incidenti in materia probatoria, che a quelle regolanti i tempi di accertamento e contestazione delle violazioni tributarie.
8. A quanto fin qui detto aggiungasi che questa Corte ha affermato (Cass. n. 24009 del 2013, 5 1.3.3) che il termine per l’accertamento, in caso di omessa dichiarazione, è quello di cui al «D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 2, (con riferimento, nella specie, all’omessa dichiarazione della disponibilità delle somme in contestazione)», che scadeva, nel caso concreto, il 31/12/2013 (31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata, ossia il 2008), con la conseguenza che la notifica dell’atto di irrogazione delle sanzioni, avvenuta il 14/11/2013 (come si afferma in sentenza e come ammesso dalle stesse parti nei rispettivi scritti difensivi) deve ritenersi tempestiva.
9. Conclusivamente, in accoglimento del motivo di ricorso per le ragioni sopra spiegate, la sentenza impugnata va cassata e la causa decisa nel merito non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, con rigetto dell’originario ricorso del contribuente che va condannato al pagamento delle spese sostenute dalla ricorrente nel presente giudizio di legittimità, compensandosi quelle dei gradi di merito in ragione dei profili sostanziali della vicenda processuale.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso del contribuente che condanna al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 13.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito, compensando le spese dei giudizi di merito.
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