CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 dicembre 2020, n. 29767
Risarcimento del danno biologico – Mobbing – Condotta dolosamente preordinata alla vessazione ed emarginazione della dipendente – Molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori – Nesso eziologico tra condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore – Prova dell’elemento soggettivo – Onere della prova a carico del lavoratore
Ritenuto
1. Che la Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza n. 126 del 2015, pronunciando sull’appello proposto dal Comune di Piombino nei confronti di B.M.C., in ordine alla sentenza emessa dal Tribunale di Livorno tra le parti, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda di risarcimento del danno biologico per mobbing proposta dalla B. rispetto al Comune.
2. Il Tribunale aveva condannato il Comune a pagare alla lavoratrice, che aveva presso il Comune di Piombino il profilo professionale di funzionario e ricopriva l’incarico di responsabile del servizio personale e organizzazione del Comune (pag. 2 del ricorso per cassazione), la somma di euro 18.927,08 a titolo di risarcimento del danno biologico da mobbing.
3. La Corte d’Appello, dopo aver ripercorso la giurisprudenza in materia di mobbing e i principi enunciati da questa Corte, ha accolto l’appello in quanto l’istruttoria espletata non aveva provato la sussistenza di una condotta dolosamente preordinata alla vessazione ed emarginazione della dipendente, essendo emerse circostanze che, eventualmente, erano suscettibili di configurare una mera difficoltà di rapporti con amministratori dell’Ente o superiori gerarchici.
Ha affermato la Corte d’Appello che: la circostanza che il segretario comunale omettesse di salutare l’appellata o correggesse taluni atti da lei redatti, non denotava emarginazione della lavoratrice, documentando unicamente la difficoltà nei rapporti lavorativi tra i due; parimenti in relazione alla vicenda dell’ipotesi di assunzione del sig. B., dalla stessa relazione della B. emergeva una mera divergenza di opinioni tra quest’ultima e altri responsabili del Comune, inidonea a configurare vessazione, così come avveniva in relazione alla divergenza di opinioni in merito al sistema informatico. Analogamente, la mancata partecipazione dell’appellata, in qualità di esperta, alle riunioni di giunta poteva, al più, determinare la riduzione di talune attività precedentemente svolte, ma non costituire prova di una condotta persecutoria, perché era emerso (e non era comunque contestato) che la lavoratrice non aveva subito demansionamento, avendo continuato a svolgere le funzioni di responsabile del servizio personale e organizzazione.
Pertanto, concludeva la Corte d’Appello, in difetto di prova di una esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio, non poteva ritenersi provata la responsabilità dell’amministrazione datrice di lavoro ex art. 2087 cod. civ.
4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando un unico motivo di ricorso.
5. Resiste il Comune di Piombino con controricorso.
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.
Considerato
1. Che l’unico motivo di ricorso è prospettato in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 2103. cod. civ., e 115 cod. proc. civ., nonché ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
La ricorrente, dopo aver ricordato che condotta significativa del mobbing è il demansionamento, riporta la motivazione posta dalla Corte d’Appello a fondamento del rigetto della domanda, già sopra illustrata, contestando la nozione di demansionamento che se ne trae, e cioè che lo stesso sussisterebbe solo se il dipendente fosse rimosso dalla propria posizione lavorativa, o privato del tutto delle mansioni svolte.
Ed infatti, assume la ricorrente, il demansionamento sussiste anche a fronte di una riduzione o sottrazione delle mansioni, o di progressivo depauperamento delle mansioni e dei compiti più qualificanti e operativi.
La Corte d’Appello aveva poi trascurato l’esame dell’istruttoria, pretermettendo numerosi fatti, esposti sin dal ricorso introduttivo – ricorso di cui la ricorrente riporta uno stralcio – nonché nelle note conclusive del primo grado e nella memoria in appello, dai quali il demansionamento emergeva con chiarezza, così violando l’art. 115 cod. proc. civ.
La Corte d’Appello aveva pretermesso, senza fame menzione nella motivazione, che: alla ricorrente era stato sottratto il compito di rilasciare pareri tecnici; la stessa era stata esclusa dalla partecipazione alla contrattazione decentrata; le era stato impedito l’aggiornamento in ragione della mancata consegna delle Gazzette Ufficiali; era stata esclusa dalla supervisione della gestione informatizzata delle presenze e del personale, dalle procedure per l’assunzione di nuovo personale; le era stato sottratto in gran parte il coordinamento del personale del servizio a cui era preposta.
Inoltre, la sentenza di appello ridimensionava la portata delle continue vessazioni subite dalla lavoratrice, quale il rifiuto del saluto e le correzioni.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1. E noto che il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate e che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, esso designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (si v.. Corte cost., sentenza n. 359 del 2003; Cass., sentenze n. 18927 del 2012, n. 17698 del 2014).
Come ricordato dalla Corte d’Appello, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697, cod. civ., e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass., n. 26684 del 2017).
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’elemento qualificante del mobbing, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (Cass., n. 26684 del 2017).
Dunque, come recentemente affermato da questa Corte, ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., n. 10992 del 2020).
2.2. La Corte d’Appello ha rigettato la domanda della lavoratrice ponendo a fondamento della decisione la mancanza dell’intento persecutorio, che costituisce elemento necessario per la sussistenza del mobbing.
2.3. Tale statuizione che costituisce la ratio deciderteli della sentenza di appello non è stata specificamente censurata dalla ricorrente, che si è limitata a dedurre la sussistenza di demansionamento quale fattore di per sé stesso integrante mobbing.
La censura, peraltro, non contrasta adeguatamente l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui era emerso (e non era comunque contestato) che la lavoratrice non aveva subito demansionamento, in quanto la stessa aveva continuato a svolgere le funzioni di responsabile del servizio personale e organizzazione, rispetto alle quali non erano rilevanti le circostanze, quali l’omessa trasmissione delle Gazzette Ufficiali, sulle quali aveva fatto leva la ricorrente.
2.4. Il motivo di ricorso, inoltre, non adempie ai prescritti oneri di specificità, atteso che nello stesso, in relazione ai vizi denunciati, non vi è alcun riferimento alla allegazione e prova tempestiva nelle fasi di merito delle vicende di demansionamento che sono richiamate peraltro in modo non circostanziato, in contrasto con le regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, che non sono derogate dall’eventuale estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, ove vengano in rilievo atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, cod. proc. civ., n. 3, di carenze motivazionali, ai sensi dell’art. 360, cod. proc. civ., n. 5. o anche di un error in procedendo, è necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indicata l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità, senza che possa attribuirsi rilievo al fatto che nell’indice si indicano come allegati i fascicoli di parte di primo e secondo grado (Cass., S.U., n. 22726 del 2011, Cass., S.U., n. 8077 del 2012, Cass., n. 10992 del 2020).
I requisiti imposti dall’art. 366, comma 1. n. 6, e dall’art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo, perché solo l’esposizione chiara e completa dei fatti di causa e la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori e degli atti processuali rilevanti consentono al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle censure.
Gli oneri sopra richiamati sono altresì funzionali a permettere il pronto reperimento degli atti e dei documenti il cui esame risulti indispensabile ai fini della decisione sicché, se da un lato può essere sufficiente per escludere la sanzione della improcedibilità il deposito del fascicolo del giudizio di merito, ove si tratti di documenti prodotti dal ricorrente, oppure il richiamo al contenuto delle produzioni avversarie, dall’altro non si può mai prescindere dalla specificazione della sede in cui il documento o l’atto sia rinvenibile e dalla sintetica trascrizione nel ricorso del contenuto essenziale del documento asseritamente trascurato od erroneamente interpretato dal giudice del merito (Cass.. S.U, n. 5698 del 2012; Cass. S.U., n. 25038 del 2013, Cass., S.U.. n. 34469 del 2019).
Non è a ciò sufficiente, nella specie, la trascrizione nel ricorso di uno stralcio del ricorso introduttivo, senza peraltro un richiamo del contenuto motivazionale della sentenza di primo grado e dei motivi di appello del Comune, necessari sia in relazione agli oneri di allegazione e specificità sopra richiamati sia ai fini della valutazione del giudizio di rilevanza della censura.
2.5. Infine, si rileva che è applicabile alla fattispecie l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’ 11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 19881 del 2014 e Cass., S.U., n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius comlitulioms e non dello ius lidgatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia non è ravvisabile nella specie, atteso che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi, come prospetta, tra l’altro con le suddette carenze, la ricorrente.
3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13. comma 1 -bis, se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.000,00, per compensi professionali, oltre euro 200.00, per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.
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