CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 gennaio 2019, n. 2436
Licenziamento – Appropriazione indebita di ingenti quantitativi di prodotti carburanti – Sussistnza del fatto
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Bari, con sentenza del 19.9.2017, respingeva il reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Bari che, in sede di giudizio di opposizione all’ordinanza emessa in sede sommaria, aveva rigettato la domanda proposta da D.M., intesa all’accertamento della nullità e/o illegittimità e/o inefficacia del licenziamento intimatole sul presupposto, escluso dal giudice del merito, che lo stesso fosse stato riconducibile a motivo illecito determinante, e, in via gradata, alla declaratoria di illegittimità del recesso per insussistenza del fatto e non imputabilità alla lavoratrice, con conseguenze reintegratorie, o per inesistenza di motivazione, in tal caso con richiesta di condanna della resistente società E. s.p.a. al pagamento di indennità risarcitoria;
2. la Corte rilevava che alla M. era stata contestata la partecipazione ad una associazione a delinquere finalizzata all’appropriazione indebita ed al traffico illecito di ingenti quantitativi di prodotti carburanti finiti, nonché, stante la sua posizione di funzionario E., l’attività di intermediazione tra G.C. e la società C.C. s.r.l. per la vendita, dal primo alla seconda, di diverse partite di gasolio di tipo bunker di provenienza illecita in quanto acquisito dallo stesso C. in pregiudizio del delitto di contrabbando e di altri reati;
3. la condotta posta in essere era consistita nella sottrazione, durante la fase di trasporto, di prodotti grezzi destinati alla raffinazione, che venivano scaricati in depositi controllati dall’associazione e sostituiti, quindi, con acqua colorata, che veniva poi consegnata in raffineria; nel ritiro dalla raffineria del prodotto finito (gasolio bunker per navi), che veniva scaricato nei depositi controllati dall’associazione; nella consegna alle navi, al posto dei prodotti finiti, dei prodotti grezzi previamente sottratti (buidisel), mentre il prodotto finito alimentava un circuito di contrabbando essendo venduto al mercato nero o ai distributori di carburanti;
4. la Corte condivideva la ricostruzione effettuata dal Tribunale, secondo cui la M., non potendo provvedere all’incasso di somme, aveva agito al di fuori delle proprie mansioni ed osservava che dalle intercettazioni telefoniche del procedimento penale, il cui contenuto era stato posto a fondamento dell’ordinanza cautelare, era emerso un quadro indiziario che aveva trovato conferma in sede di prova testimoniale, attestante l’abuso della propria posizione da parte della lavoratrice, che aveva incassato somme nonostante che i pagamenti delle società acquirenti dovevano avvenire a mezzo bonifico bancario o RID;
5. le intercettazioni telefoniche avevano, secondo la Corte, confermato l’attività di intermediazione commerciale tra il C. (venditore del gasolio bunker di illecita provenienza) e la C. Carburanti s.r.I., rivenditrice di carburante in Gravina di Puglia,
nonché la circostanza che la M. si occupava del passaggio di danaro dalla seconda al primo; inoltre, al momento della contestazione disciplinare (8.7.2013), gli atti di indagine erano venuti a conoscenza della predetta, attinta da misura cautelare del 11.6.2013, in cui veniva dato atto del contenuto dì tali atti di indagine, riferiti al contenuto delle intercettazioni;
6. la Corte rilevava che ben potevano essere poste a fondamento del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, essendovi la piena legittimazione del giudice civile ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti di indagini preliminari svolte ritualmente in sede penale, nonché delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziari in sede di sommarie informazioni; che la estraneità della M. era da escludere anche se alcuni dei soggetti coinvolti nella vicenda erano stati assolti per insussistenza dei fatti e che, in ogni caso, in virtù della separazione dei giudizi penale e civile, l’applicabilità del criterio del “più probabile che non” del giudizio civile portava a prescindere dall’esito del giudizio penale assolutorio nella vicenda scrutinata in diversa sede;
7. la gravità degli addebiti era, secondo la Corte, tale da incidere in concreto sul vincolo fiduciario e pertanto la misura espulsiva adottata era ritenuta del tutto proporzionata alla condotta accertata;
8. di tale decisione ha domandato la cassazione la M., affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui ha resistito, con controricorso l’E. spa, che ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Considerato che
1. con il primo motivo, si denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 329, 60 c.p.p.e 27 Cost., sul rilievo che la Corte di Bari si sia avvalsa, nella propria valutazione, dei brogliacci delle intercettazioni telefoniche, sui quali aveva fondando l’impianto accusatorio, osservandosi che gli atti compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria, ai sensi del primo degli articoli richiamati, erano secretati fino a quando l’imputato non ne potesse avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari e che il termine “imputato” utilizzato dalla norma era indicativo della circostanza che la persona alla quale era attribuito il reato al momento della contestazione disciplinare non aveva ancora assunto tale qualità; si assume che, non essendosi concluse le indagini preliminari (non vi era stata richiesta di rinvio a giudizio, ovvero di giudizio immediato o di decreto penale di condanna, o di applicazione di pena ex art. 447, comma 1, c.p. nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo), i richiesti presupposti per la desecretazione degli atti non ricorrevano al momento di avvio del procedimento disciplinare e che le espressioni di giudizio contenute in provvedimenti anche di contenuto decisorio del magistrato penale fin che assumano il carattere della definitività, e a maggior ragione quando emessi in fase di cognizione sommaria, prodromiche all’accertamento della verità in sede dibattimentale, non possano assurgere al rango di prove;
2. con il secondo motivo, si lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 5. L. 604/66, per avere il giudice del gravame ritenuto esaustivo che la nota disciplinare dell’8.7.2013 rinviasse alle intercettazioni telefoniche espletate nel procedimento penale, il cui contenuto viene sinteticamente riportato nell’ordinanza cautelare;
3. violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 116 e 115, 420, II co., c.p.c., vengono ascritte alla sentenza impugnata, per avere ritenuto la Corte che “l’odierna reclamante” si sarebbe “limitata a contestare in via del tutto generica i fatti posti a base della predetta contestazione, durante il corso del giudizio, avendo solo in grado di appello fornito una diversa interpretazione delle suddette conversazioni telefoniche”;
4. con il quarto motivo, si deduce omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di decisione tra le parti, per avere la stessa Corte ritenuto che la “D. M. abbia agito al di fuori delle proprie mansioni, abusando della propria posizione” in quanto “la stessa non poteva occuparsi della commercializzazione del gasolio bunker e non poteva in alcun modo incassare somme (come invece è accaduto) dovendo avvenire i pagamenti delle società acquirenti a mezzo bonifico bancario o RID, come affermato dai testi R. e T.”, al contempo facendo malgoverno delle norme processuali richiamate, considerando come integranti piena prova elementi al più indiziari, soggetti a valutazione, non ammettendo in sede di reclamo la prova testimoniale articolata, che riproduceva quella non ammessa in sede di opposizione, così determinando una omissione di motivazione su un punto decisivo; ciò in quanto la prova non ammessa si sarebbe rivelata utile e idonea a superare ed a travolgere gli elementi indiziari, invalidando con giudizio di certezza l’efficacia di quegli elementi che avevano determinato il convincimento della Corte territoriale; si assume che era stato inibito alla M. di provare circostanze che sarebbero state asseritamente dedotte in sede di opposizione, relative a contatti telefonici del tutto normali e leciti nell’ambito dei rapporti intrattenuti e di avere, invece, il giudice del merito ritenuto che dette telefonate vertessero sulla commercializzazione di gasolio bunker, in assenza di qualsivoglia prova, laddove si intendeva dimostrare il contrario attraverso i riportati capitoli;
6. quanto al primo motivo, al di là del richiamo suggestivo alle norme processualpenalistiche, la decisione si è fondata sulla considerazione che all’atto della contestazione la lavoratrice già conosceva il contenuto delle intercettazioni, posto che l’ordinanza cautelare, che faceva riferimento al contenuto di tali intercettazioni, era stata emessa nei suoi confronti il 11.6.2013, data precedente al momento della contestazione disciplinare del 8.7.2013, ed, in ogni caso, la decisione si è fondata sull’utilizzabiltà delle prove atipiche nell’ambito di un giudizio in cui l’accertamento dei fatti è improntato ad un criterio del “più probabile che non” e non di esclusione di ogni ragionevole dubbio; il principio affermato, inoltre, è conforme a quello già affermato da questa Corte, secondo cui “Il giudice del lavoro, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, può valutare gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto la parte può sempre contestare nel giudizio civile i fatti acquisiti in un procedimento penale” (cfr. Cass. 2 marzo 2017 n. 5317); da tale principio emerge, quindi, che in caso di contestazione, come nella specie, gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni possono ben essere sottoposte a nuovo esame al cospetto di ulteriori prove emerse nel giudizio in sede civile, nell’ambito di una valutazione complessiva che può condurre anche a disattenderne o sminuire la valenza probatoria con riferimento al caso esaminato; ciò trova conferma in ulteriori pronunce della S.C., affermative del principio secondo cui il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (cfr. Cass. 30.1.2013 n. 2168, in senso conforme Cass. 2.2.2016 n. 1948);
7. il quadro indiziario è stato ritenuto confermato dall’espletata prova testimoniale, ritenuta sufficiente e tale da non rendere necessaria l’acquisizione di ulteriori elementi probatori, attraverso la prova richiesta, della quale peraltro non si indica la sede di reiterazione nel ricorso in appello, con specifica riproduzione dei capi di prova; inoltre va considerato (a confutazione anche dei rilievi espressi nel secondo motivo) che “le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della l. n. 300 del 1970, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale” (cfr., Cass. 15 maggio 2016 n. 10017);
8. in relazione al terzo motivo, deve ancora ribadirsi che, nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. 8.5.2017 n. 11176), peraltro, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (tra le altre, v., da ultimo, Cass. 23.10.2018 n. 26769);
9. il quarto motivo, posto quanto sopra precisato in ordine al potere discrezionale del giudice di ammettere o non ammettere le prove, si sostanzia in una richiesta di rivalutazione del merito, essendovi peraltro una doppia conforme ostativa alla deducibilità del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., per effetto di quanto previsto dall’art. 348 ter, 5 comma, c.p.c. che – richiamando disposizione di cui al quarto comma – preclude la proposizione del ricorso per il motivo di cui al numero 5 del primo comma dell’art 360 c.p.c. avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado; tale disposizione è applicabile, come previsto dall’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012; nella specie, l’ appello è stato proposto successivamente alla entrata in vigore della suddetta normativa, che deve ritenersi ratione temporis applicabile;
10. per tutte le svolte considerazioni, il ricorso deve essere respinto;
11. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
12. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1bis, del citato D.P.R..
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