CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 gennaio 2019, n. 2437
Licenziamento per giusta causa – Operazioni di addebito e accredito sui conti correnti dei clienti – Falsificazione della firma – Tardività della contestazione
Rilevato
1. che la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di F.B. intesa all’accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli con lettera del 10.8.2011 dalla datrice di lavoro Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara;
1.1. che, in particolare, il giudice di appello, esclusa la tardività della contestazione, ha ritenuto che le condotte ascritte – consistenti nell’avere il B., quale cassiere, compiuto operazioni di addebito e accredito sui conti correnti dei clienti senza che le stesse fossero mai state disposte dai clienti medesimi e senza che vi fosse giustificazione causale, provvedendo, inoltre, alla falsificazione della firma di un cliente -, sostanzialmente non contestate nella loro materialità dal lavoratore, configuravano giusta causa di licenziamento. Ha, quindi, escluso, richiamata la consulenza tecnica d’ufficio di primo grado, che tali condotte fossero da porre in relazione alla dedotta violazione da parte della Cassa dell’obbligo di protezione ex art. 2087 cod. civ. per l’adibizione del B. alle mansioni di cassiere da ultimo espletate nonostante le precarie condizioni di salute del detto dipendente; ha, infine, escluso il motivo illecito di licenziamento in assenza di riscontro all’assunto del lavoratore in ordine alla esistenza di un piano della datrice di lavoro finalizzato alla sua espulsione, in ragione della minore “funzionalità” dello stesso connessa alla grave malattia dalla quale era affetto;
2. che per la cassazione della decisione ha proposto ricorso F.B. sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato con memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1. cod. proc. civ.
Considerato
1. che con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 7 Legge 20/05/1970 n. 300 censurando la sentenza impugnata sotto il profilo della corretta sussunzione degli elementi fattuali accertati nell’ambito della giusta causa di licenziamento;
2. che con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., dell’art. 2087 cod. civ., dell’art. 1460 cod. civ. e dell’art. 2967 cod. civ. censurando, in sintesi, la sentenza impugnata in punto di ritenuta non contestazione delle risultanze medico legali della consulenza tecnica d’ufficio e del conseguente rigetto sia dell’eccezione di inadempimento sia della domanda di condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico quale effetto della violazione del disposto dell’art. 2087 cod. civ.;
3. che il primo motivo di ricorso è da respingere. Parte ricorrente, infatti, pur formalmente denunziando l’errata sussunzione dei fatti accertati nell’ambito della giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 cod. civ. si duole anche, in realtà, della mancata interpretazione e valutazione di talune circostanze integranti la fattispecie ascritta e dell’assenza di un corretto giudizio di proporzionalità. Deduce che sotto il profilo oggettivo emergerebbe la non gravità, in termini sia assoluti che relativi, dell’inadempimento contestato e, sotto il profilo soggettivo, l’assenza dell’intenzione di frodare l’istituto datore e di trarne vantaggio personale; rappresenta, inoltre, che i particolari disturbi sofferti all’epoca dal B., quali emergenti dalla documentazione in atti, erano idonei a concretare una situazione di non imputabilità rispetto alle condotte oggetto di addebito;
3.1. che la questione della <<non imputabilità>> delle condotte poste in essere dal B. per effetto della patologia della quale era portatore, non è stata specificamente affrontata dalla sentenza impugnata di talché costituiva onere dell’odierno ricorrente – onere in concreto non assolto – allegarne e dimostrarne la avvenuta e rituale deduzione nelle fasi di merito (Cass. 09/08/2018 n. 20694; Cass. 28/01/2013 n. 1435; Cass. 28/07/2008 n. 20518; Cass. 20/10/2006 n. 22540);
3.2. che la diversa questione della incompatibilità delle menomazioni connesse alla patologia sofferta con il ruolo di cassiere da ultimo affidato al B. e della dipendenza delle condotte addebitate dall’inadempimento datoriale relativo a tale adibizione è stata espressamente esaminata dal giudice di appello e sostanzialmente esclusa sulla base di accertamento di fatto (nell’ambito del quale è stato rilevata anche la immediata attuazione a parte dell’istituto di credito le prescrizioni del medico del lavoro in ordine alla riduzione di orario) che poteva essere incrinato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto storico decisivo, oggetto di discussione fra le parti, nei termini rigorosi delineati dal giudice di legittimità (v. Cass. Sez. Un. 7/4/2014 n. 8053), deduzione neppure prospettata dall’odierno ricorrente;
3.3. che le doglianze articolate con riferimento agli esiti della prova orale e documentale sono inammissibili in quanto intese a sollecitare direttamente un diverso apprezzamento di fatto del materiale probatorio, apprezzamento precluso al giudice di legittimità (Cass. 4/11/2013 n. 24679; Cass. 16/12/2011 n. 2197; Cass. 21/9/2006 n. 20455; Cass. 4/4/2006 n. 7846; Cass. 7/2/2004 n. 2357);
3.4. che alla stregua del rigetto delle precedenti censure, incentrate sulla valutazione dell’elemento soggettivo, è da escludere il denunziato vizio di sussunzione delle condotte ascritte all’ambito della giusta causa ex art. 2119 cod. civ.. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass. 26/04/2012 n. 6498; Cass. 02/03/2011 n. 5095).
3.5. che nel caso di specie non può dubitarsi che i fatti oggetto di addebito si configurino quale grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, potenzialmente destinate a riflettersi anche nei rapporti con i terzi, specie in considerazione del particolare affidamento nella correttezza dello svolgimento delle mansioni che il datore di lavoro deve poter riporre nei confronti del dipendente di istituto di credito adibito a funzioni di cassiere;
4. che il secondo motivo di ricorso è anch’esso da respingere. In particolare, la deduzione di omesso rilievo della avvenuta contestazione delle conclusioni della relazione medico legale, non è articolata con modalità idonee a inficiare la valutazione espressa dalla Corte di merito. La sentenza impugnata ha dichiarato di condividere le conclusioni del consulente di prime cure – il quale aveva escluso che le patologie dalle quali risultava affetto il B. si ponessero in rapporto di causalità diretta con la adibizione alle mansioni di cassiere -, ulteriormente evidenziando che tali conclusioni non avevano formato oggetto di specifiche e circostanziate contestazioni in primo grado e nel ricorso in appello. Quest’ ultima affermazione, che peraltro si pone come argomentazione aggiuntiva rispetto alle ragioni fondanti la decisione sul punto, ragioni ravvisabili nell’adesione alla consulenza tecnica d’ufficio di primo grado, non è inficiata dalle censure articolate. Parte ricorrente nulla, infatti, allega al fine di dimostrare di avere specificamente contestato tali risultanze nel corso del giudizio di primo grado; tantomeno chiarisce in maniera argomentata perché le doglianze a riguardo formulate nel ricorso in appello dovevano considerarsi specifiche, non essendo sufficiente a far emergere ex se tale specificità la mera riproduzione sul punto del contenuto dell’atto di impugnazione di secondo grado in assenza della trascrizione o comunque riassunto dei pertinenti brani della relazione peritale. Le ulteriori deduzioni intese ad inficiare l’accertamento relativo all’assenza di nesso di causalità tra i fatti alla base del recesso datoriale e l’adibizione alle mansioni da ultimo rivestite dal B., accertamento fondato sugli esiti della consulenza tecnica di ufficio, risultano inammissibili in quanto intese sostanzialmente a sollecitare una rivalutazione complessiva del materiale probatorio laddove la ricostruzione fattuale alla base della decisione poteva essere incrinata solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, evocato nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, onere non assolto dall’odierno ricorrente;
5. che alle considerazioni che precedono segue il rigetto del ricorso;
6. che le spese di lite sono regolate secondo soccombenza;
7. che sussistono i presupposti per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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