CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 maggio 2019, n. 14681
Licenziamento collettivo – Violazione dei criteri di scelta – Trasferimento di ramo di azienda – Prosecuzione del rapporto in capo alla cessionaria
Rilevato che
1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 5221 del 2017, per quanto ancora rileva nella presente sede, confermava in sede di reclamo la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Roma n. 8938/2016 del 18 ottobre 2016, con cui, in esito al giudizio ex art. 1, comma 51 l. 92 del 2012, in accoglimento dell’opposizione proposta dal lavoratore S.G., era stato annullato il licenziamento intimato dalla società Gruppo C. al predetto G. ed era stata ordinata la reintegra del ricorrente nel posto di lavoro, con condanna della società convenuta al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto per dodici mensilità.
2. In particolare, il Giudice di primo grado aveva respinto l’eccezione sollevata dalla difesa della società opposta che aveva prospettato l'”inammissibilità” delle avverse pretese per essere stato accertato in altro procedimento (R.G. 27581/2015) con sentenza n. 5113 del medesimo Tribunale, depositata il 18 giugno 2016, il diritto del ricorrente ex art. 2112 cod. civ. di proseguire il rapporto di lavoro alle dipendenze di Gruppo C.F. s.p.a. con decorrenza dal 1 marzo 2014, nonché il diritto del predetto G. a percepire le retribuzioni a far data dal 13 febbraio 2015 sino al 30 settembre 2015. Il Tribunale di Roma aveva poi affermato che la società Gruppo C., nella procedura di licenziamento collettivo, aveva violato il dettato di cui al comma 1 dell’art. 5 I. 223 del 1991, essendo incorsa nella violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
3. In sede di reclamo, Gruppo C. s.p.a. aveva reiterato l’eccezione di inammissibilità delle domande, poiché queste avrebbero violato la statuizione contenuta nella sentenza n. 5113/2016 secondo cui il G. apparteneva al ramo di azienda ceduto a Gruppo C. F. s.p.a., la quale pertanto, a decorrere dal 1 marzo 2014, era divenuta ex art. 2112 cod. civ. ad ogni effetto unico datore di lavoro del ricorrente, con decorrenza anteriore all’intimato recesso oggetto del giudizio.
4. La Corte di appello di Roma, ricostruito l’iter procedimentale concernente l’operazione di trasferimento di ramo di azienda da Gruppo C. s.p.a. a Gruppo C.F. s.p.a. che aveva interessato – tra gli altri – gli addetti all’unità produttiva di Roma sita in via C.R., operazione conclusasi con verbale del 25 febbraio 2014, con cui 21 dipendenti (ma non il G.) erano transitati ex art. 2112 cod. civ. alla Gruppo C. F. (GCF) s.p.a a decorrere dal 1 marzo 2014, argomentava, in sintesi, come segue:
– il G. non era stato ricompreso nel novero dei dipendenti transitati per effetto della cessione, rimanendo in CIGS alle dipendenze della s.p.a. Gruppo C., venendo poi interessato dalla procedura di riduzione del personale ex artt. 24 e 4 legge 223 del 1991, avviata con lettera 17 ottobre 2014 e conclusasi con verbale di mancato accordo del 21 novembre 2014, cui aveva fatto seguito la lettera del 22 dicembre 2014 di risoluzione del rapporto di lavoro;
– sul piano giudiziario il G., oltre al ricorso dell’8 luglio 2015 di impugnativa del licenziamento, aveva proposto in data 29 luglio 2015 separato ricorso per lamentare il mancato trasferimento ex art. 2112 cod. civ. alle dipendenze di Gruppo C.F. (GCF) s.p.a. e in tale sede il giudice adito, con sentenza 5113 del 2016, aveva dichiarato il diritto del ricorrente alla prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della s.p.a. Gruppo C.F. con decorrenza 1° marzo 2014, ma inammissibile la domanda di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della medesima società, in quanto alla fine di settembre del 2015 la cedente Gruppo C. s.p.a. e l’originaria cessionaria Gruppo C. F. s.p.a. avevano risolto il contratto di affidamento in gestione del reparto, con conseguente retrocessione del ramo di azienda e del relativo personale in capo a Gruppo C. s.p.a., riconoscendo esclusivamente le retribuzioni non corrisposte dalla data del 13 febbraio 2015 (data successiva al licenziamento intimato da Gruppo C. s.p.a.) alla data del 30.9.2015 (data in cui era avvenuta la retrocessione);
– il G. nel corso dell’anno 2016 aveva agito nei confronti di Gruppo C. s.p.a. e di C.D.K. chiedendo il ripristino del rapporto nei confronti quest’ultima società, nuova cessionaria del reparto alimentare, e il Tribunale di Roma con sentenza n. 7446 del 2017 aveva integralmente respinto il ricorso, escludendo che il contratto di affidamento in gestione del reparto, concluso tra Gruppo C. s.p.a. e C.D.K. il 22 settembre 2015, fosse qualificabile come cessione d’azienda o di un suo ramo, affermando altresì l’inapplicabilità dell’ultimo comma dell’art. 111 cod. proc. civ., in quanto il successore a titolo particolare della società Gruppo C. F. doveva essere correttamente identificato nel Gruppo C. s.p.a. a seguito della retrocessione del ramo d’azienda, per cui la società C.D.K. restava soggetto terzo rispetto alla materia controversa;
– contraddittoriamente la reclamante aveva inteso trarre argomenti a sé favorevoli dalla sentenza, nelle more intervenuta e non ancora passata in giudicato, con cui era stata accolta la pretesa del ricorrente di essere considerato ex art. 2112 cod. civ. dipendente della Gruppo C. F. s.p.a., quale cessionaria di ramo di azienda, affermando che, per effetto di tale pronuncia, la Gruppo C. s.p.a. non sarebbe stata all’epoca del licenziamento datrice di lavoro del reclamato: in sostanza la reclamante era giunta a sostenere di avere intimato il licenziamento senza averne il potere per non essere la datrice di lavoro, licenziamento di cui contestualmente aveva rivendicato la legittimità;
– per altro verso, il motivo di reclamo non considerava neppure che, dal tenore della decisione invocata, non era stata accolta la domanda di ripristino del rapporto di lavoro in capo alla cessionaria Gruppo C. F. s.p.a., in quanto nelle more le parti avevano risolto il contratto di affidamento in gestione del reparto e il ramo di azienda era retrocesso in capo alla Gruppo C. s.p.a.;
– non può considerarsi illegittimo che il lavoratore abbia perseguito più iniziative giudiziarie e varie tutele (che non si escludono, ma si sommano) a fronte delle scelte imprenditoriali della società reclamante, che dapprima aveva affidato il reparto F. scegliendo arbitrariamente il personale da trasferire alla cessionaria sua controllata, operazione già riconosciuta in sede giudiziaria come illegittima; poi aveva licenziato il personale che lei stessa aveva deciso di non trasferire alla cessionaria, né di rioccupare o riqualificare; infine aveva proceduto nuovamente a concedere in gestione il reparto ad altra società; tutto ciò nelle more del giudizio di impugnazione delle precedenti operazioni, in cui era stata sollevata analoga eccezione di inammissibilità, invocando l’ultimo affidamento in gestione come preclusivo del diritto del lavoratore a rivendicare la reintegra nel posto di lavoro;
– nessuna implicita rinuncia da parte del lavoratore può dirsi intervenuta, poiché le azioni proposte nei confronti della cessionaria non denotano affatto una implicita volontà abdicativa, rappresentando piuttosto legittima reazione tutelata dall’ordinamento a plurimi e distinti inadempimenti posti in essere da datore di lavoro;
– nel merito, va ribadito quanto già affermato dal giudice di primo grado, secondo cui il trasferimento di ramo d’azienda non può costituire legittimo motivo di licenziamento dei lavoratori addetti al settore ceduto, che obbligatoriamente transitano in capo alla cessionaria unitamente all’attività cui sono addetti; quindi, o il dipendente appartiene al ramo ceduto e con esso il suo rapporto lavorativo transita in capo alla cessionaria, oppure non vi appartiene ed allora il suo rapporto di lavoro rimane in capo alla cedente;
– nella specie, di fatto, gli esuberi finivano per essere identificati nei dipendenti che arbitrariamente la società aveva deciso di non trasferire ex art. 2112 cod. civ., di non ricollocare e di non riconvertire mediante idonea formazione, come invece si era impegnata a fare nel verbale del 25 novembre 2013;
– dunque, la società reclamante, non operando il trasferimento di parte del personale già addetto al supermercato, lo aveva trattenuto presso di sé ritenendolo parte integrante dell’organico complessivo dell’azienda, rimasta nella sua disponibilità;
– nella scelta dei lavoratori da licenziare erano stati ignorati i criteri oggettivi, viceversa necessariamente concorrenti, dei carichi di famiglia e dell’anzianità di servizio di cui all’art. 5 l. n. 223 del 1991; sul punto il reclamo è del tutto generico perché non specifica quali fossero le circostanze asseritamente non valutate dal giudice di primo grado.
5. Per la cassazione di tale sentenza Gruppo C. s.p.a. propone ricorso affidato a sei motivi. Resiste con controricorso il G..
6. La società Gruppo C. ha depositato memoria inammissibile, oltre termine di cui all’art. 380-bis.1 cod. proc. civ. (inserito dall’art. 1, lett. f, del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. n. 25 ottobre 2016, n. 197).
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.): il posto di lavoro presso il quale il G. chiedeva di essere reintegrato era il supermercato di via C.R., del quale la s.p.a. Gruppo C. non aveva al momento della proposizione della domanda giudiziale alcuna titolarità, spettando quest’ultima alla società Gruppo C. F. fino al settembre 2015 e poi dal 1° ottobre 2015 a C.D.K.. In ogni caso, la Corte d’appello avrebbe dovuto rigettare quanto meno la domanda reintegratoria e quella risarcitoria formulate da controparte.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 legge n. 223 del 1991 e dell’art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970 (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.). Si sostiene l’erroneità della sentenza per avere accolto la domanda di reintegra in capo a Gruppo C. s.p.a. sebbene il supermercato alimentari di via C.R., al momento della proposizione del giudizio di opposizione, fosse gestito dalla C.D.K. s.r.I..
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per avere i giudici di merito pronunciato oltre i limiti della domanda. Si assume che in fase di opposizione il lavoratore aveva chiesto la reintegrazione presso il supermercato alimentari di via C.R., mentre la sentenza aveva affermato la reintegrazione alle dipendenze della Gruppo C. s.p.a., senza ulteriori specificazioni.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 81 cod. proc. civ. per difetto di legittimazione passiva di Gruppo C. s.p.a. rispetto alla pretesa risarcitoria e a quella reintegratoria, per essere ancora sub iudice le altre due domande formulate dal ricorrente nei confronti di Gruppo C. F. s.p.a. e di C.D.K. s.r.I..
5. Il quinto motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per la definizione del giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.): il ricorso in opposizione proposto dal G. risultava incardinato successivamente al ricorso proposto ex articolo 414 cod. proc. civ. nei confronti di Gruppo C. F. s.p.a..
6. Con il sesto e ultimo motivo si denuncia violazione falsa applicazione dell’art. 5, comma 1, legge n. 223 del 1991, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che nel caso di specie erano stati violati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) e violazione dell’art. 41 Cost.. Si rappresenta che la società aveva posto in essere una ristrutturazione aziendale attraverso varie operazioni commerciali e che all’esito permaneva un’eccedenza di 24 lavoratori, la cui professionalità era maturata esclusivamente nel settore alimentare e che questi lavoratori erano addetti a specifiche posizioni lavorative e, per caratteristiche, attitudini, orientamenti e contenuti professionali, erano ritenuti non riqualificabili né riutilizzabili in altre unità produttive.
7. Il primo motivo è inammissibile. Innanzitutto, la circostanza che l’odierno resistente sia stato ritenuto, in altro giudizio, dipendente della società Gruppo C.F. a decorrere dal 10 marzo 2014, data anteriore al licenziamento intimato dall’odierna ricorrente (22 dicembre 2014), non è stata omessa ma, al contrario, espressamente considerata e valutata dalla Corte territoriale. Questa, dal relativo esame, ha argomentato, per un verso, l’illogicità e incongruità della tesi della reclamante che, per contrastare l’impugnativa del licenziamento, aveva sostanzialmente prospettato di avere intimato un licenziamento senza averne il potere, in quanto priva di titolarità del rapporto di lavoro. Dall’altro, quanto alle domande di reintegra e risarcitoria, ha argomentato che la sentenza emessa nel giudizio relativo al trasferimento di ramo d’azienda (sentenza n. 5113 del 2016) aveva dichiarato inammissibile la domanda di ripristino del rapporto di lavoro presso Gruppo C. F. s.p.a. in quanto alla fine del settembre 2015 era avvenuta la retrocessione del ramo di azienda e del relativo personale da Gruppo C. F. s.p.a. a Gruppo C. s.p.a.
Il motivo non si confronta con tale motivazione ed è quindi anche inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 n. 4 cod. proc. civ..
8. Anche il secondo motivo è inammissibile. La sentenza impugnata ha valorizzato l’accertamento giudiziale con cui il Tribunale di Roma (sentenza n. 7446 del 2017) aveva respinto la pretesa del G., su domanda proposta nei confronti di Gruppo C. s.p.a. e di C.D.K. s.r.I., intesa ad ottenere ripristino del rapporto di confronti di quest’ultima società, quale nuova cessionaria del reparto alimentare. Con tale sentenza è stato accertato che il successore a titolo particolare della società Gruppo C. F., a seguito della retrocessione del ramo di azienda, doveva essere identificato nel Gruppo C. s.p.a. e non nella società C.D.K. s.r.I..
Pertanto, al momento della sentenza impugnata in questa sede, non vi erano elementi che ostassero ad una pronuncia di reintegra nei confronti di Gruppo C. s.p.a..
9. Il terzo motivo viola il canone di indicazione e di allegazione di cui all’art. 366, primo comma, nn. 3 e 6 cod. proc. civ., non essendo state trascritte nel ricorso per cassazione le conclusioni formulate in sede di opposizione, dalle quali il giudice di primo grado si sarebbe discostato. Per altro verso, non risulta che tale violazione fosse stata sottoposta all’esame del giudice di appello come motivo di reclamo; neppure è denunciata un’omessa pronuncia su specifici motivi di reclamo in ipotesi formulati da Gruppo C. s.p.a..
10. Il quarto motivo ripropone, sotto diverso profilo processuale, gli argomenti di cui ai precedenti primo e secondo motivo e per le stesse ragioni resta inammissibile.
11. Il quinto motivo, formulato in termini del tutto generici, non consente di comprendere quale sia la censura mossa alla sentenza impugnata.
12. Il sesto motivo reitera il carattere generico della censura già proposta dinanzi al giudice di appello. Nel denunciare un errore di diritto, in realtà si ripropone la tesi difensiva secondo cui sarebbero stati legittimamente licenziati i lavoratori individuati come tali dalla società. E’ evidente la tautologia della prospettata legittimità della scelta aziendale.
13. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, con distrazione in favore degli avv.ti P.L.P. e C.G., dichiaratisi antistatari.
14. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge, da distrarsi in favore degli avvocati P.L.P. e C.G..
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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