CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 ottobre 2020, n. 23866
Tributi – Accertamento – Maggior reddito – Costi per operazioni inesistenti o non inerenti – Prove presuntive – Onere di prova contraria a carico del contribuente
Rilevato che
la C. s.r.l. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 396/25/14, depositata il 18 febbraio 2014 dalla Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Foggia, con la quale è stato parzialmente accolto l’appello proposto dall’Ufficio avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Foggia n. 93/02/2013, che aveva annullato gli avvisi di accertamento, notificati alla società e ai suoi soci, relativamente agli anni d’imposta 2004 e 2005.
Ha riferito che, a seguito di verifica condotta da militari della GdF presso la società, erano stati ripresi a tassazione costi riconducibili ad operazioni inesistenti o non inerenti, detrazioni Iva ritenute non spettanti, nonché rideterminato l’imponibile Irap per gli anni d’imposta 2003, 2004 e 2005.
Era seguito il contenzioso, separatamente introdotto per l’anno 2003, e con il presente giudizio per gli anni 2004 e 2005. Per gli anni d’imposta oggetto della presente controversia la Commissione provinciale di Foggia aveva integralmente accolto le ragioni dei contribuenti.
All’esito dell’appello presentato dall’Agenzia la Commissione tributaria regionale, con la decisione ora al vaglio della Corte, aveva dichiarato cessata la materia del contendere con riferimento all’anno 2005 per adesione della contribuente al condono, e, con riguardo all’anno 2004, aveva ridotto da 976.827,46 ad € 225.675,46 i maggiori utili accertati, con relativa Iva. Ha in particolare riconosciuto le ritenute evidenziate dalla contribuente nella misura di € 525.476,54, che l’Ufficio non aveva inteso riconoscere, ed ha ulteriormente dimezzato la differenza tra il dichiarato dalla società e l’accertato in sede di verifica (pari ancora ad € 451.350,92).
La società ha censurato la sentenza con due motivi:
con il primo per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., in riferimento, per quanto comprensibile, alla circostanza che la riforma parziale della sentenza sia stata fondata sulla sola contestazione della presunta ipotesi di mancata emissione di fatture;
con il secondo per nullità della sentenza, limitatamente alla parte in cui la contribuente è risultata soccombente, per omessa motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.;
Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza e, ritenendo non necessaria la rimessione della causa alla Commissione regionale, ha chiesto la decisione anche nel merito, con declaratoria di insussistenza delle pretese dell’Agenzia perché fondate su presunzioni semplici, in subordine per l’illegittimità dell’operato dei verbalizzanti.
Si è costituita l’Agenzia, che ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per mancanza di specificazione del fatto decisivo che dimostrerebbe la totale infondatezza dell’accertamento, la cui considerazione sarebbe stata omessa dal giudice d’appello. Ha inoltre spiegato ricorso incidentale, censurando la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c., nonché dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. ed all’art. 62, primo comma, d.lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, per malgoverno delle prove presuntive. Ha quindi a sua volta chiesto la cassazione della decisione, per quanto soccombente, con ogni consequenziale statuizione.
Considerato che
Esaminando i motivi del ricorso principale, il primo, con il quale si lamenta un vizio di motivazione, è inammissibile. A parte la genericità della sua formulazione, che rende difficoltosa anche la mera comprensione della doglianza, se con esso in ogni caso si vuole insistere sulla supposta determinante importanza di un più approfondito esame delle scritture di magazzino, trattasi sempre di motivo inammissibile alla luce della nuova formulazione del vizio di motivazione.
In particolare, a seguito della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 22 giugno 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 7 agosto 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità su di essa resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, sent. n. 8053/2014; n. 23828/2015; n. 23940/2017). Si è opportunamente evidenziato che con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., ord. n. 27415/2018).
Perimetrato dunque lo spazio d’indagine in sede di legittimità del vizio motivazionale, dalla sentenza emerge che il giudice regionale abbia valorizzato le “scritture contabili”, tanto da riconoscere ulteriori ritenute che l’Amministrazione negava, così riducendo significativamente le pretese contenute nell’atto impositivo. Ha inoltre dimezzato questo risultato, con argomentazioni censurabili sotto il profilo dell’errore di diritto, ma certo non sotto l’aspetto del vizio motivazionale, atteso il ristretto alveo d’indagine che su tale vizio impone la nuova formulazione della norma, senza peraltro considerare che la richiesta della società, se volta a sollecitare verifiche delle scritture e delle giacenze di magazzino, di fatto sollecita una rivisitazione nel merito delle emergenze processuali, inammissibili già con la precedente formulazione del vizio di motivazione.
Infondato è poi il secondo motivo, che per la sua generica formulazione sfiora anche l’inammissibilità, atteso che la riconosciuta esistenza di una motivazione, come appena chiarito, impedisce di condividere il denunciato vizio processuale dell’omessa motivazione.
In conclusione il ricorso principale va rigettato.
Esaminando ora quello incidentale, con esso l’Amministrazione finanziaria si duole dell’error iuris in iudicando, in cui sarebbe incorso il giudice d’appello nel ridurre ulteriormente, in particolare del 50%, l’imponibile di € 451.350,92, senza conforto di alcuna prova, anche solo presuntiva.
Sulle concrete modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, di cui con il ricorso incidentale se ne denuncia sostanzialmente un malgoverno anche in riferimento alla distribuzione dell’onere della prova, deve premettersi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).
Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha comunque tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Occorre allora verificare se nella sentenza gravata sia stato fatto buon governo dei principi appena esposti. La Commissione regionale, nel dimezzare la differenza ancora rilevata tra il dichiarato e l’accertato, ha affermato che <<Tali maggiori utili debbono poi essere abbattuti del 50% per presumibili sprechi, piccoli furti ed errori di doppia registrazione di merce in uscita, per tentata vendita, e successivamente in entrata per vendita fallita..>>. Nella spiegazione così articolata non emerge a quali riferimenti presuntivi sia possibile ancorare le considerazioni del giudice d’appello. Manca cioè un riscontro, non necessariamente oggettivo, ma quanto meno sufficiente a ricondurre tali considerazioni nell’alveo di elementi che superino la mera astratta supposizione, assumendo dignità di indizio. La decisione sul punto è pertanto viziata dal malgoverno dei principi sulla prova e in particolare sulla prova presuntiva.
Il motivo trova pertanto accoglimento.
La sentenza va pertanto cassata, limitatamente all’ulteriore dimezzamento dell’importo di € 525.476,54. Il giudizio deve rinviarsi alla Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Foggia, che in diversa composizione rivaluterà la questione tenendo conto dei regole sulla prova, anche quella presuntiva, provvedendo inoltre anche alla liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale; accoglie quello incidentale; cassa la sentenza nei limiti dell’accoglimento del motivo di ricorso incidentale; rinvia il giudizio dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Foggia, che in diversa composizione provvederà anche alla liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità. In ragione del rigetto del ricorso principale ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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