CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26450
Rapporto di lavoro – Lavoro straordinario prestato oltre il limite massimo previsto dalla legge e dal CCNL – Maggiorazioni retributive e risarcimento danno
Rilevato che
Il Tribunale di Torino accoglieva in parte la domanda proposta da F.S. nei confronti della Vigilanza M.T. s.p.a. fusa per incorporazione nella A. s.p.a. volta a conseguire il pagamento di maggiorazioni retributive e risarcimento danno per lavoro straordinario prestato oltre il limite massimo previsto dalla legge e dal contratto collettivo nel periodo 2006-2008, e condannava la società al pagamento della somma di euro 9.990,96 per il titolo descritto, compensando per due terzi le spese di lite, per il residuo poste a carico della A. s.p.a.;
detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che, accogliendo il motivo di gravame proposto dalla società, attinente alla erroneità dei conteggi allegati al ricorso e posti a base della decisione, disponeva condanna di parte appellante al pagamento del minore importo di euro 7.556,19, compensando per un terzo le spese del doppio grado di giudizio e condannando l’appellante alla rifusione del residuo;
la cassazione di tale decisione è domandata dalla A. s.p.a. sulla base di tre motivi;
resiste F.C. con controricorso successivamente illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c.;
Considerato che
1. con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.;
ci si duole che il giudice di seconda istanza sia pervenuto al riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a prestazioni lavorative rese oltre i limiti di legge e di contratto, in assenza di qualsivoglia allegazione e prova della natura ed esistenza del danno lamentato, della sua entità, del nesso causale dell’asserito danno, con la propria vicenda lavorativa;
gli approdi ai quali è addivenuto, non sono coerenti con i principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità alla stregua dei quali l’accertamento del diritto in questa sede rivendicato, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione in ordine alla natura ed alle caratteristiche proprie del pregiudizio che si asserisce risentito;
si addebita quindi, al giudice del gravame, di aver fatto ricorso ad una nozione di prova del danno in via presuntiva, inammissibile nel nostro ordinamento;
2. il motivo non è fondato;
la pronuncia della Corte distrettuale, nei suoi esiti applicativi, si colloca nel solco dell’orientamento espresso da questa Corte secondo cui la prestazione lavorativa “eccedente”, che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura-psico fisica, di natura non patrimoniale e distinto da quello biologico, la cui esistenza è presunta nell’an in quanto lesione del diritto garantito dall’art.36 Cost., mentre ai fini della determinazione occorre tenere conto della gravità della prestazione e delle indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolare il risarcimento in oggetto (in termini Cass. 14.7.2015 n. 14710; Cass. 23.5.2014 n. 11581, Cass. 10.5.2019 n.12540);
come accertato in precedenti arresti di legittimità inerenti a fattispecie sovrapponibili a quella qui scrutinata, con riguardo al principio sopra esposto, nessun difetto di allegazione e prova è ravvisabile nello specifico, essendo stati prospettati dal ricorrente nei gradi di merito sia il numero delle ore straordinarie svolte che il periodo di riferimento, elementi dai quali la Corte territoriale, con argomentazioni congruamente motivate, ha rilevato la “abnormità” della prestazione eseguita e, quindi, tale di per sé da compromettere l’integrità psico-fisica e la vita di relazione del lavoratore, secondo un corretto ragionamento logico-giuridico (in termini, vedi Cass. cit. n. 12540/2019, Cass.10.5.2019 n.12538, Cass.10.5.2019 n. 12539);
3. il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt.1362, 1366, 1367 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si critica la statuizione con la quale la Corte di merito ha proceduto alla esegesi del Contratto Integrativo Regionale affermando che la nuova disciplina della banca ore ivi prevista, decorresse dal 2009; si osserva per contro che, in applicazione del c.c.n.l. del 2006, detto contratto integrativo territoriale – che aveva previsto per le ore di lavoro prestate in eccedenza, una maggiorazione retributiva del 50% – benché sottoscritto il 19/3/2009, avrebbe dovuto rinvenire applicazione a far tempo dal 18/7/2007; »
l’espressa deroga a tale decorrenza, prevista dall’art. 12 con riferimento alla elevazione della banca ore da una a due ore di accantonamento per ogni giorno di effettivo lavoro, non era invece contenuta nel quarto comma in tema di remunerazione delle ore prestate oltre il tetto di banca ore, fissato nella misura del 50% della normale retribuzione; detto comma non poteva che essere interpretato, quindi, nel senso che la nuova determinazione della misura della maggiorazione, dovesse decorrere dal luglio 2007;
4. il motivo è inammissibile;
al di là di ogni pur assorbente considerazione in ordine alla mancanza di produzione in forma integrale del c.c.n.l. di settore e del difetto di specificità del motivo che non riporta il tenore delle disposizioni del contratto integrativo, giova rimarcare che, per l’interpretazione del Contratto Integrativo Regionale, devono essere adottati i criteri ermeneutici negoziali, non essendo possibile procedere ad una interpretazione diretta delle sue clausole ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., riguardando, tale norma, esclusivamente i contratti collettivi nazionali . di lavoro (Cass. 3.12.2013 n. 27062; Cass. 17.2.2014 n. 3681);
orbene, nella fattispecie in esame, l’interpretazione fornita dalla Corte di merito (richiamando anche i propri precedenti in materia) sulla non retroattività dell’art. 12 del C.I.R. è plausibile, perché non contrasta con i criteri di letteralità e di interpretazione complessiva delle clausole ed è ragionevole perché, oltre alla previsione della maggiorazione della percentuale di risarcimento (dal 35% al 50%), la contrattazione integrativa ha modificato da una a due le ore confluibili nella “banca ore”, di talché sarebbe ingiustificato applicare il solo aspetto economico ad un sistema di regime orario fondato invece su diversi presupposti;
la censura si limita, pertanto, a contrapporre un diverso risultato interpretativo rispetto a quello giudiziario in assenza, però, di acclarate violazioni in ordine ai criteri ermeneutici di riferimento (Cass. 22.2.2007 n. 4178; Cass. 3.9.2010 n. 19044);
5. il terzo motivo attiene alla violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.;
ci si duole del governo delle spese disposto dalla Corte distrettuale che, nonostante avesse ridotto l’entità delle somme oggetto di condanna rispetto a quelle liquidate dal giudice di prima istanza, aveva proceduto a parziale compensazione delle spese ponendole a carico della società in misura superiore (due terzi) rispetto a quelle liquidate dal Tribunale (un terzo);
6. il motivo non è fondato;
è bene rammentare che in materia di procedimento civile, il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all’esito finale della lite, sicché è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta, a nulla rilevando che siano state disattese eccezioni di carattere processuale o anche di merito (ex aliis vedi Cass. 2/9/2014 n.18503);
va altresì considerato che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (vedi Cass. 20/12/2017 n.30592);
in tale prospettiva la statuizione emessa dai giudici di seconda istanza, disposta all’esito dello scrutinio dell’esito complessivo della lite, si sottrae alla censura all’esame, atteso che la ricordata ripartizione delle spese di lite, frutto del corretto vaglio del criterio della soccombenza riferito all’intero giudizio, non è scrutinabile nella presente sede di legittimità;
il ricorso, alla stregua delle superiori argomentazioni, va, pertanto respinto;
le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi éd euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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