CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26451
Rapporto di lavoro – Promotore finanziario – Pagamento della indennità sostitutiva del preavviso – Restituzione di integrazioni provvigionali erogate indebitamente – Notificazione del ricorso introduttivo del giudizio – Nullità
Rilevato che
Il Tribunale di Torino accoglieva la domanda proposta dalla F. s.p.a. nei confronti di M.S. – ex promotore finanziario – rimasto contumace, volta a conseguire il pagamento della indennità sostitutiva del preavviso e la restituzione di integrazioni provvigionali erogate indebitamente.
Avverso tale decisione interponeva gravame tardivo ex art. 327 c. 2 c.p.c. il S., il quale eccepiva la nullità della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio, deducendo di non aver mai ricevuto l’atto né alcun avviso di notifica o di deposito; rimarcava che il giudice di prima istanza aveva dichiarato la sua contumacia senza dare atto del compimento di tutti gli adempimenti essenziali previsti per la notifica ai sensi dell’art.140 c.p.c. ed eccepiva la nullità della sentenza chiedendo la rimessione della causa in primo grado ex art. 354 c.p.c. ed in subordine l’ammissione del ricorso tardivo in appello secondo la disciplina dell’art. 650 c.p.c.
Si costituiva la società appellata che instava per il rigetto delle censure.
L’adita Corte, dato atto della regolarità della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio (ammessa dal medesimo procuratore del ricorrente) e della inapplicabilità alla fattispecie scrutinata dell’art. 650 c.p.c. in quanto norma speciale, rigettava l’appello.
La cassazione di tale pronuncia è domandata da M.S. sulla base di unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., al quale oppone difese con controricorso la F. s.p.a.
Considerato che
1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 327 c.p.c., degli artt. 24 e 111 Cost. nonché dell’art. 6 CEDU in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia precluso al ricorrente, rimasto contumace in primo grado, la possibilità di dimostrare di non aver avuto contezza del processo, per caso fortuito o forza maggiore, non ammettendo gli articolati capitoli di prova per testimoni all’uopo predisposti. Al riguardo si deduce che, diversamente da quanto argomentato dai giudici del gravame, era stata invocata non l’applicabilità diretta alla fattispecie, dei dettami di cui all’art.650 c.p.c., bensì il principio generale dell’ordinamento giuridico che è desumibile da esso, ovverosia il diritto del contumace di essere ammesso a provare l’incolpevole ignoranza del giudizio di primo grado per caso fortuito o forza maggiore.
2. Il motivo è privo di fondamento.
Per un ordinato iter argomentativo, è bene fare richiamo alla disciplina del regime delle impugnazioni rubricata all’art. 327 c.p.c. che sancisce, al comma 1, la decadenza dall’impugnazione (specificamente dall’appello), “indipendentemente dalla notificazione”, decorsi sei mesi (secondo la formulazione introdotta dalla L. n. 69 del 2009) dalla pubblicazione della sentenza.
Il comma 2 del medesimo articolo – non modificato dalla L. n. 69 del 2009 – puntualizza che la disposizione di cui al comma 1 (e, quindi,la relativa decadenza) “non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292”.
Per poter proporre l’impugnazione tardiva di cui all’art. 327, secondo comma, cod. proc. civ. la parte rimasta contumace è tenuta a dimostrare non solo la causa di nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, ma anche il fatto che, a causa di quel vizio, essa non ha potuto acquisire conoscenza dell’atto e del conseguente processo (ex aliis, vedi Cass. 20/11/2012 n.20307, Cass. 14/9/2007 n.19225).
Nella fattispecie, manca il primo elemento del paradigma normativo di riferimento per l’ammissibilità – dell’appello tardivo, ovverosia la nullità della notifica che è stata espressamente esclusa dal difensore del ricorrente, benché il ricorso in appello fosse stato modulato sulla violazione degli adempimenti essenziali previsti dall’art. 140 c.p.c. integranti causa di nullità della sentenza appellata, idonea a giustificare la rimessione della causa al giudice di prima istanza ex art. 354 c.p.c.
A tale carenza il ricorrente ha inteso supplire mediante richiesta di ammissione del ricorso tardivo in appello, in virtù del principio generale dell’ordinamento giuridico consacrato nell’art. 650 c.p.c. “non avendo egli avuto tempestiva conoscenza del ricorso introduttivo per caso fortuito o forza maggiore”.
La problematica sollevata dà parte ricorrente involve la questione della incidenza sulla situazione controversa dell’introduzione dell’art.153 c.p.c., comma 2, da parte della L. n. 69 del 2009 – stante la mancata modifica ad opera della novella medesima, dell’art. 327 c.p.c., comma 2, e dell’art. 161 c.p.c., comma 1;
si era in precedenza osservato come nel processo civile, l’immutabilità dei termini perentori, sia legali che giudiziali, (oltre a rispondere a generali ed indiscutibili motivi di certezza) tende, in particolare a garantire una effettiva parità di diritti delle parti, contemperandone l’esercizio con le esigenze della difesa (vedi C. Cost. n. 900 del 1988) e più in generale a favorire le esigenze dello svolgimento di un processo in congrui termini, tali da garantire la certezza delle situazioni giuridiche coinvolte (vedi Cass. 7/2/2008 n.2946 in motivazione).
Sul rilievo che i termini per l’impugnazione delle sentenze sono perentori, perché si inquadrano nell’istituto generale della decadenza della proposizione di un atto dovuto, è stato affermato che essi non possono essere prorogati, sospesi o interrotti se non nei casi eccezionali espressamente previsti dalla legge (Cass. S.U. 27/6/2006 n.17002).
Più di recente, nella vigenza del testo dell’art. 153 c.p.c. come novellato dalla L. n. 69 del 2009 – con cui è stato generalizzato l’istituto della rimessione in termini attraverso la previsione dell’aggiunto comma 2, estendendone l’astratta applicabilità anche ai poteri d’impugnazione – la remissione in termini è stata ritenuta da questa Corte applicabile al termine perentorio per proporre ricorso per cassazione, ed anche con riguardo a sentenze rese dal Consiglio nazionale forense in esito a un procedimento disciplinare (Cass., Sez. Un., 18/12/2018, n. 32725, Cass., Sez. Un., 10/1/2019, n. 487); in tale ipotesi è stato tuttavia, affermato che a tal uopo è necessaria la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell’assolutezza, e non già un’impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà (vedi Cass. S.U.4/12/2020 n. 27773, Cass. 23/11/2018, n. 30512).
Orbene, nello specifico, il ricorrente ha modulato la propria censura facendo richiamo agli strumenti probatori predisposti in grado di appello, di natura documentale e testimoniale, con i quali intendeva dimostrare il furto di corrispondenza verificatosi durante la sua permanenza al l’estero in coincidenza con la notifica ai sensi dell’art.140 c.p.c. del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, onde conseguire l’ammissione “a provare l’incolpevole ignoranza del giudizio di primo grado per caso fortuito o per forza maggiore, al fine di presentare un’impugnazione tardiva della sentenza”.
Siffatta istanza, tuttavia, non può essere validamente sussunta nella astratta categoria della rimessione in termini come elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte.
Il richiamo alla nozione di caso fortuito o forza maggiore identificate, secondo la tesi prevalente, in vicende costituite da una forza esterna, ostativa in modo assoluto alla conoscenza dell’atto e quindi in un fatto di carattere oggettivo, avulso dalla volontà umana, causativo dell’evento per forza propria (vedi ex plurimis Cass. 24/10/2008 n.25737) appare eccentrico rispetto alla fattispecie scrutinata, atteso che la mancata conoscenza di un provvedimento determinata da assenza dalla propria residenza, è stata ritenuta da questa Corte – con riferimento allo speciale procedimento di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo ex art.650 c.p.c.
– non ascrivibile alle categorie invocate a sostegno della ammissione dell’appello tardivo, configurandosi l’allontanamento come un fatto volontario ed essendo imputabile all’assente il mancato uso di cautele idonee a permettere la ricezione o almeno la conoscenza delle missive pervenutegli nel periodo di assenza (vedi Cass. 24/10/2008 n. 25737, Cass. 4/7/2019 n. 17922).
Deve quindi ritenersi che nello specifico, alla stregua dei su enunciati principi, non si versi in alcuna ipotesi di compressione del pieno esercizio del diritto di difesa, ispirato al principio del giusto processo oltre che a quello di cui all’art. 24 Cost., come prospettata da parte ricorrente.
In definitiva, la censura formulata sotto tutti gli enunciati profili si palesa destituita di fondamento.
Le ragioni esposte assorbono ogni altra sì considerazione in ordine alle questioni di legittimità costituzionale che si è inteso sollevare con il presente ricorso che va, pertanto, respinto.
Il regime delle spese segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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