CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26484
Rapporto di lavoro dipendente – Amministratore unico – – Attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di altri – Assenza di prova
Fatti di causa
1. G.I. ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, contro il decreto del Tribunale di Napoli del 21 novembre 2019, reiettivo dell’opposizione ex art. 98 l.fall. da lui promossa avverso la mancata ammissione al passivo del fallimento J.A. s.r.l., con il privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 1, cod. civ., del proprio preteso credito di € 324.689,91 (di cui € 101.635,58 per T.F.R.) asseritamente derivante dal rapporto di lavoro dipendente, con qualifica di “Quadro”, dal medesimo intrattenuto con la menzionata società in bonis (di cui era il socio unico al momento della sua dichiarazione di fallimento, ed era stato amministratore unico in plurimi periodi della storia imprenditoriale della società) dall’1 giugno 1990 all’1 giugno 2015. La curatela fallimentare resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ., altresì proponendo ricorso incidentale con un motivo.
1.1. Quel tribunale, ricordato che la richiesta di insinuazione dello I. era stata rigettata dal Giudice delegato, «in conformità al parere espresso dalla curatela fallimentare, in ragione di una eccezione di inadempimento nello svolgimento della sua attività di amministratore e con riserva di esercitare nei confronti dell’istante l’azione di responsabilità», ha preliminarmente osservato che, «a fondamento della propria richiesta, l’opponente, pur in assenza di un contratto scritto costitutivo del rapporto di lavoro, produce buste paga, certificazioni uniche ed estratto contributivo che, nella sua prospettazione, dimostrerebbero l’esistenza del rapporto di lavoro ed il suo svolgimento», e che, «nel corso del giudizio di opposizione, si è costituita la procedura fallimentare, che introduce una obiezione ancor più radicale, in quanto deduce la nullità/inesistenza del rapporto di lavoro ed in via subordinata l’annullabilità dello stesso per essere stato instaurato in conflitto di interessi. […]. La curatela opposta produce, infatti, in giudizio la visura storica della società fallita da cui emerge che G.I. era il socio unico della J.A. s.r.l. al momento della dichiarazione di fallimento ed è stato amministratore unico in plurimi periodi della storia imprenditoriale della società e da ciò desume l’assenza di prova dei fatti costitutivi del rapporto di lavoro, non essendovi dimostrazione del fatto che l’opponente abbia prestato la propria attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di altri». Successivamente ha così opinato: i) «in accoglimento della ricostruzione storico-giuridica formulata dalla parte opposta, e con considerazione assorbente e logicamente precedente rispetto al vaglio dell’eccezione subordinata di compensazione con il maggiore controcredito che la curatela afferma di vantare per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni di amministrazione, la domanda di ammissione veicolata nell’opposizione deve essere rigettata. La parte opposta ha infatti dimostrato in giudizio che G.I. è stato socio unico ed amministratore della società fallita mediante la suddetta visura camerale storica, oltre che in ragione dello stesso meccanismo istruttorio della non contestazione. […] Inoltre, e a conferma del fatto che la persona fisica dell’opponente esercitasse effettivamente l’attività di amministratore, la procedura opposta ha anche prodotto in giudizio la lettera di licenziamento dell’opponente, quale lavoratore dipendente con qualifica di quadro, firmata da lui stesso in veste di amministratore […]. Da ciò si desume che effettivamente non vi è prova alcuna del fatto che G.I. esercitasse un reale ruolo di lavoratore dipendente nella fallita J.A. s.r.l. e la documentazione da lui depositata in giudizio, di formazione della fallita società e quindi riconducibile allo stesso amministratore, non consente di ritenere provato l’effettivo svolgimento di attività lavorativa subordinata. Nella stessa prospettazione contenuta nella citazione in opposizione, e dai successivi verbali ad atti di causa del giudizio di opposizione, non emerge chi sarebbero le persone sotto la cui direzione l’opponente avrebbe esercitato le proprie attività di quadro né quali fossero in concreto le mansioni da lui svolte. L’assenza di indicazione nell’atto introduttivo anche di quali fossero l’orario di lavoro ed i giorni di lavoro rende quindi inammissibile la prova testimoniale richiesta dall’opponente e corrobora la prospettazione di controparte secondo cui, in realtà, G.I. non ha mai svolto un ruolo di lavoratore dipendente entro la compagine della società fallita, per essere invece il vertice dell’impresa e quindi colui che esercitava l’attività di gestione della società. L’opponente, che in veste di attore è gravato dell’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa (art. 2697 c.c.), non ha quindi dimostrato l’esistenza di un effettivo e valido rapporto di lavoro subordinato con la società fallita…».
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo del ricorso dello I., rubricato «Violazione e falsa applicazione di norma di diritto ed in particolare degli artt. 95 e 99 del r.d. n. 267/42, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.», ascrive al tribunale di aver «accolto l’eccezione di nullità/inesistenza del rapporto di lavoro sollevata, per la prima volta, dalla curatela in sede di giudizio di opposizione, non considerando che il fatto presupposto (id est il rapporto di lavoro subordinato intercorso con la soc. J.A. s.r.l.) era stato ammesso e non contestato in sede di verifica della domanda di ammissione al passivo dalla stessa curatela che, di contro, aveva proposto la esclusione del credito in virtù della eccezione di compensazione con un presunto controcredito da inadempimento». Assume il ricorrente che «il riesame a cognizione piena del risultato della cognizione sommaria del rito della verifica demandato al giudice dell’opposizione, se, da un lato, non esclude l’immutabilità del thema probandum, aperto a nuove allegazioni istruttorie, dall’altro esclude la modifica del thema disputandum».
Una siffatta doglianza si rivela infondata.
1.1. Costituisce, infatti, consolidato principio di questa Corte che, «nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore può introdurre eccezioni nuove, ossia non formulate già in sede di verifica» (cfr. Cass. n. 27940 del 2020; Cass. n. 27902 del 2020; Cass. n. 22386 del 2019; Cass. n. 22784 del 2018; Cass. n. 8246 del 2013). Si tratta, invero, di una facoltà che può essere espletata in ogni caso, come ragione di contrasto nel merito all’altrui opposizione al decreto ex artt. 98-99 l.fall., per cui il corrispondente giudizio, anche per questa via, declina la sua portata di riesame a cognizione piena della pretesa avanzata, secondo l’effetto pienamente devolutivo e sia pure entro i limiti della questione posta con la domanda. Del resto, il contegno difensivo, ove pure adesivo, eventualmente assunto in sede di verifica dal curatore non esime il giudice dall’esame della stessa domanda, senza alcun automatismo.
1.1.1. In altri termini, alla stregua del ruolo e dei poteri del curatore, come ridisegnati dopo la riforma del 2006-2007, «nel giudizio di opposizione allo stato passivo non opera, nonostante la sua natura impugnatoria, la preclusione di cui all’art. 345 cod. proc. civ., in materia di ius novorum, con riguardo alle nuove eccezioni proponibili dal curatore, in quanto il riesame, a cognizione piena, del risultato della cognizione sommaria proprio della verifica, demandato al giudice dell’opposizione, se esclude l’immutazione del thema disputandum e non ammette l’introduzione di domande riconvenzionali della curatela, non ne comprime tuttavia il diritto di difesa, consentendo, quindi, la formulazione di eccezioni non sottoposte all’esame del giudice delegato» (cfr., ex multis, Cass. n. 27940 del 2020, in motivazione; Cass. n. 27902 del 2020; Cass. n. 21490 del 2020; Cass. n. 19003 del 2017; Cass. n. 25728 del 2016).
1.2. Va considerato, poi, che le Sezioni Unite di questa Corte, componendo il contrasto tra i due orientamenti formatisi nella giurisprudenza di legittimità in relazione alla natura del rapporto tra società di capitali e suo amministratore, hanno sancito che l’amministratore unico di una tale società (nella specie si trattava di una s.p.a., ma, evidentemente, conclusioni analoghe valgono per la s.r.l.) è legato alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c. (cfr. Cass., SU, n. 1545 del 2017). In tale sentenza, peraltro, è stato opportunamente precisato che non può escludersi che s’instauri, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice di merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera (come già indicato da Cass. n. 1796 del 1996).
1.2.1. Posto, allora, che la richiesta di insinuazione dello I. si fondava sull’asserita esistenza di un rapporto di lavoro dipendente da lui intrattenuto con la J.A. s.r.l. in bonis, evidentemente diverso ed ulteriore rispetto a quello, di tipo societario, da lui pure pacificamente mantenuto, con la medesima società, in qualità di suo amministratore unico, sarebbe stato onere del medesimo allegare e provare i fatti costitutivi dell’invocato rapporto lavorativo, sicché le ulteriori eccezioni sollevate dalla curatela costituendosi in sede di opposizione investivano, comunque, quei fatti costitutivi e non certo altri rapporti giuridici.
1.2.2. In altri termini, il rapporto controverso dedotto in giudizio con il ricorso in opposizione è rimasto identico e la curatela, ivi costituendosi, lungi dal dilatarne il perimetro, ha sollevato eccezioni – la validità del contratto di lavoro sub specie nullità o annullamento ex artt. 1394 e 1395 cod. civ.; l’esecuzione della prestazione come elemento costitutivo della pretesa alla retribuzione ovvero l’inadempimento, la sufficienza e l’opponibilità del materiale istruttorio prodotto – riguardanti i fatti costitutivi del medesimo rapporto già devoluto alla cognizione del tribunale, il quale, del resto, ha ben inteso l’identità del thema disputandum laddove ha osservato che «la curatela opposta (…) da ciò desume l’assenza di prova dei fatti costitutivi del rapporto di lavoro, non essendovi dimostrazione del fatto che l’opponente abbia prestato la propria attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di altri» (cfr. pag. 3 del decreto impugnato). E ciò rimarcandosi, comunque, la rilevabilità di ufficio dell’eccezione di nullità in ogni stato e grado del giudizio.
2. Il secondo motivo del ricorso principale, recante «Violazione e falsa applicazione di norma di diritto e, segnatamente, degli artt. 2709, 2710 e 2735 cod. civ. e dell’art. 115 c.p.c., nonché del d.l. n. 112/2008 e della legge n. 4/1953 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.», censura le argomentazioni con cui il tribunale ha ritenuto insussistente la prova del dedotto rapporto di lavoro. Assume il ricorrente che «le buste paga – prodotte in giudizio […] – rappresentando la copia di competenza del lavoratore del libro unico del lavoro, fanno piena prova nei confronti del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2709 e 2710 c.c., e costituiscono una confessione stragiudiziale di cui il giudice doveva necessariamente tenere conto. E’ pertanto incorso in errore di diritto il tribunale nell’aver escluso il credito del ricorrente risultante dalle busta paga, in quanto le stesse dimostravano di per sé la sussistenza del rapporto e dei diritti vantati dal dipendente, i relativi fatti costitutivi e l’adesione ai contratti collettivi di categoria mediante la loro diretta applicazione». Anche questa doglianza non merita accoglimento.
2.1. Invero, giova premettere che «al curatore … che agisca non in via di successione in un rapporto precedentemente facente capo al fallito ma nella sua funzione di gestione del patrimonio di costui, non è opponibile l’efficacia probatoria tra imprenditori, di cui agli artt. 2709 e 2710 cod. civ., delle scritture contabili regolarmente tenute, senza che tale inopponibilità, in sede di accertamento del passivo, resti preclusa ove non eccepita, trattandosi di eccezione in senso lato – e, dunque, rilevabile d’ufficio in caso di inerzia del curatore – poiché non si riconnette ad una azione necessaria dell’organo ma al regime dell’accertamento del passivo in sé, nel cui ambito il curatore, quale rappresentante della massa dei creditori, si pone in posizione di terzietà rispetto all’imprenditore fallito» (cfr. Cass. n. 27902 del 2020; Cass. n. 22053 del 2019; Cass. n. 15947 del 2017; Cass. n. 14054 del 2015).
2.2. E’ sicuramente vero, poi, che, come questa Corte ha già più volte statuito, in sede di accertamento del passivo fallimentare, le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di quest’ultimo, hanno piena efficacia probatoria del rapporto di lavoro esistente e del credito insinuato, alla stregua del loro contenuto, obbligatorio e penalmente sanzionato dall’art. 5 legge 25 gennaio 1953 n. 4 (cfr. Cass. n. 32395 del 2019; Cass. n. 18169 del 2019; Cass. n. 17413 del 2015), ma è altrettanto vero che, come puntualizzato proprio dalle testé citate Cass. n. 32395 del 2019 e Cass. n. 18169 del 2019, resta ferma la facoltà della controparte di contestarne le risultanze con mezzi contrari di difesa o, semplicemente, con specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrarne l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
2.2.1. Nella specie, il tribunale partenopeo ha adeguatamente motivato («…a conferma del fatto che la persona fisica dell’opponente esercitasse effettivamente l’attività di amministratore, la procedura opposta ha anche prodotto in giudizio la lettera di licenziamento dell’opponente, quale lavoratore dipendente con qualifica di quadro firmata da lui stesso in veste di amministratore […]. Da ciò si desume che effettivamente non vi è prova alcuna del fatto che G.I. esercitasse un reale ruolo di lavoratore dipendente della fallita J.A. s.r.l. e la documentazione da lui depositata in giudizio, di formazione della fallita società e quindi riconducibile allo stesso amministratore, non consente di ritenere provato l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa subordinata. Nella stessa prospettazione contenuta nella citazione in opposizione, e dai successivi verbali ed atti di causa del giudizio di opposizione non emerge chi sarebbero le persone sotto la cui direzione l’opponente avrebbe esercitato la propria attività di quadro, né quale fossero, in concreto, le sue mansioni». Cfr. pag. 4 del decreto impugnato) la ragione della ritenuta insufficienza delle buste paga allegate dall’odierno ricorrente a fondare la sua pretesa creditoria.
2.2.2. La doglianza, dunque, si risolve, sostanzialmente, nel tentativo dello I. di opporre alla ricostruzione fattuale definitivamente sancita dal decreto impugnato una propria alternativa sua interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui la denuncia di violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 21381 del 2006, nonché la più recente Cass. n. 8758 del 2017).
3. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso dello I., entrambi formulati con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., denunciano l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti. I fatti il cui esame sarebbe stato omesso sarebbero, rispettivamente: i) «la sussistenza del rapporto di lavoro alla luce della documentazione prodotta», ascrivendosi al tribunale di avere del tutto omesso di valutare le buste paga prodotte dall’opponente; ii) «la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nel periodo in cui l’odierno ricorrente era sottoposto al potere di controllo del consiglio di amministrazione», non rivestendo la carica di amministratore unico.
3.1. Tali doglianze sono scrutinabili congiuntamente perché affette dalla medesima ragione di inammissibilità.
3.1.1. Le stesse, infatti, obliterano completamente, da un lato, che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (ivi formalmente invocato dallo I.), – nel testo, introdotto dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio reso il 21 novembre 2019 – riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 395 del 2021, in motivazione, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017); dall’altro, che non costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato (nella specie, l’asserito svolgimento di attività lavorativa dipendente con mansioni di “quadro”) sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).
3.1.2. Nella specie, peraltro, si è già detto, disattendendosi il secondo motivo del ricorso dello I., che il tribunale ha espressamente valutato le buste paga da quest’ultimo prodotte, ritenendole inidonee, alla stregua dell’effettuata complessiva ponderazione delle risultanze istruttorie, a dimostrare il preteso rapporto lavorativo.
3.1.3. A tanto deve solo aggiungersi che, in ogni caso, come condivisibilmente affermato dalla difesa della curatela controricorrente, quando vi è un consiglio di amministrazione, l’amministratore che intenda chiedere il riconoscimento del proprio diritto di lavoratore subordinato deve dimostrare che le deleghe conferite non integrino la situazione di identità soggettiva tra le funzioni di datore di lavoro (titolare del potere di direzione e sanzionatorio) e la posizione di lavoratore (soggezione al potere del datore). Alteris verbis, lo I. avrebbe dovuto dimostrare di aver svolto mansioni lavorative tali da non interferire con le deleghe conferitegli quale amministratore. Tale prova, però, non è stata fornita.
4. Venendo, ora, all’unico motivo di ricorso incidentale del Fallimento J.A. s.r.l., lo stesso – in relazione al quale solo nella memoria depositata ex art. 380-bis cod. proc. civ. il controricorrente ne invoca la formulazione in via condizionata, smentita, invece, dal tenore delle argomentazioni del suo originario controricorso – rubricato «Violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché degli artt. 2094, 2380-bis, 1418, 1325 e 1395 cod. civ. con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.», ascrive al tribunale di avere «omesso di decidere […] sulle eccezioni di nullità del contratto di lavoro per mancanza e/o impossibilità della causa […] e di annullabilità del contratto per conflitto di interessi del procuratore nell’autocontrattazione, pur avendo il Fallimento attribuito un preciso ordine di priorità alle proprie eccezioni cui ha corrisposto una gerarchia di interessi». Una siffatta doglianza si rivela, però, infondata.
4.1. Si è già detto, infatti, che il decreto impugnato ha respinto l’opposizione ex art. 98 l.fall. dello I. perché, sostanzialmente, quest’ultimo «gravato dell’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa (art. 2697 c.c.), non ha […] dimostrato l’esistenza di un effettivo e valido rapporto di lavoro subordinato con la società fallita…» (cfr. pag. 4 del decreto impugnato).
4.2. Non è ipotizzabile, dunque, il vizio di mancata pronuncia sulle suddette eccezione di merito sollevate dalla curatela costituendosi in sede di opposizione ex art. 98 l.fall., perché queste ultime, benché non espressamente esaminate, si rivelano comunque incompatibili con la statuizione di rigetto della pretesa dello I. per carenza di prova proprio di quello stesso rapporto di cui era stata eccepita la nullità o l’annullabilità, così deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima (arg. da Cass. n. 24593 del 2020; Cass. n. 20718 del 2018).
4.3. Va precisato, inoltre, in merito a quanto dedotto dalla curatela, nel suo controricorso, circa il proprio interesse ad ottenere una pronuncia sulle menzionate eccezioni (al fine di esercitare successivamente, nei confronti dello I., un’eventuale azione di indebito oggettivo), che i limiti del cd. giudicato endofallimentare, previsti dall’art. 96, comma 6, l.fall. – secondo cui «Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di cui all’art. 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso» – implicano una precisa individuazione e limitazione dell’oggetto del processo fallimentare: che è nel senso secondo cui gli effetti della decisione non vanno oltre il concorso, perché quella decisione non fa stato fra le parti fuori dal fallimento (cfr. Cass. n. 27709 del 2020).
Ne deriva il principio della natura endofallimentare dell’accertamento del credito nell’ambito del procedimento di ammissione al passivo e delle sue impugnazioni, con effetti dunque limitati al concorso allo stato passivo (cfr., ex multis, Cass. n. 27709 del 2020; Cass. n. 3957 del 2018; Cass. n. 1646 del 2018; Cass. n. 6524 del 2017; Cass. n. 21201 del 2017; Cass. n. 525 del 2016; Cass. n. 19960 del 2015; Cass. n. 5095 del 2012; Cass. n. 18832 del 2008). In altri termini, una cosa è la conclusione del procedimento volto all’insinuazione al passivo fallimentare, altra sarebbe il giudizio di ripetizione di indebito, eventualmente intrapreso, innanzi al giudice competente, con l’ordinario processo di cognizione dal fallimento, nel quale non potrebbe avere effetti di giudicato l’esito della questione sull’ammissione, o non, al passivo del credito oggi (vanamente) invocato dallo I. come risolta in sede fallimentare: dovendosi in sede ordinaria di cognizione, al contrario, valutare ex novo, in definitiva, la configurabilità, o meno, ancor prima della sua nullità e/o annullabilità con i conseguenti effetti restitutori, del rapporto di lavoro dipendente oggi dedotto da quest’ultimo.
5. In conclusione, sia il ricorso principale dello I. che quello incidentale del Fallimento J.A. s.r.l. vanno respinti, potendosi procedere, pertanto, stante la reciproca soccombenza, alla integrale compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
5.1. Infine, deve darsi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/02, i presupposti processuali per il versamento, da parte dello I. e del Fallimento J.A. s.r.l., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto, rispettivamente, per il ricorso principale e quello incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre «spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento».
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale dello I. e quello incidentale del Fallimento J.A. s.r.l.
Compensa interamente tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dello I. e del Fallimento J.A. s.r.l., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto, rispettivamente, per il ricorso principale e quello incidentale, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.