CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 dicembre 2019, n. 34642
Tributi – IVA – Rimborso – Diniego – Società di comodo
Rilevato che
dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che:
l’Agenzia delle Entrate aveva notificato a T.V.L. di B. G & c. s.a.s un avviso di sospensione del rimborso Iva per l’anno 2007, un avviso di diniego del rimborso Iva per l’anno 2006 ed un avviso di diniego del rimborso Iva per l’anno 2007, atteso che la società doveva essere qualificata di comodo e quindi doveva essere disconosciuto il diritto al rimborso Iva; avverso i suddetti atti impositivi la società aveva proposto distinti ricorsi che erano stati rigettati dalla Commissione tributaria provinciale di Lecce; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;
la Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che la società non aveva prodotto prova idonea a vincere la presunzione di inoperatività, di cui all’art. 30, legge n. 724/1994; sotto tale profilo, la circostanza che l’immobile della società era in corso di costruzione alla data del sopralluogo non poteva essere considerato fatto idoneo al superamento della prova presuntiva, atteso che la società non aveva dato prova del fatto che il protrarsi della costruzione era stato causato da fatti di forza maggiore o comunque non riconducibili alla volontà degli amministratori della società; assumeva, peraltro, rilievo, il fatto che, ultimata la costruzione nel 2009, l’immobile era stato locato a terzi, profilo da cui evincere che la società non era stata costituita per scopo di lucro, ma per consentire il perseguimento di vantaggi personali dei soci;
avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la società affidato a tre motivi di censura;
si è costituita l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 30, legge n. 724/1994, nonché degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., dell’art. 2697, cod. civ.; in particolare, si censura la sentenza per avere ritenuto che, nonostante la società fosse proprietaria solo di un terreno e del capannone soprastante ancora in corso di costruzione, la stessa era assoggettabile alla normativa sulle società di comodo e quindi onerata di provare che i lavori di costruzione dell’immobile (ultimati solo nel 2008), non erano stati ancora ultimati, negli anni 2006 e 2007, per motivi ad essa non imputabili;
si censura, altresì, la sentenza per la parte in cui ha ritenuto non offerta la prova contraria della sussistenza di motivi non dipendenti dalla volontà della società che avevano comportato la protrazione della realizzazione definitiva della costruzione, nonostante il fatto che era stata fornita adeguata prova documentale in ordine alla circostanza che il ritardo nell’ultimazione dell’immobile era dipeso dalla particolare onerosità dell’impegno economico e dalla difficoltà di reperire le ingenti somme nel mercato finanziario, nonché da un contenzioso insorto con il direttore dei lavori, oltre che dalle problematiche riguardanti il rilascio dell’agibilità da parte del Comune e di reperimento delle maestranze, in tal modo violando l’art. 2697, cod. civ., e gli artt. 115 e 116, cod. proc. civ.;
il motivo è infondato;
il profilo centrale della censura prospettata con il presente motivo attiene alla ritenuta non applicabilità della disciplina delle c.d. “società di comodo” nei confronti della contribuente, tenuto conto del fatto che la stessa, per gli anni 2006 e 2007, era proprietaria solo di un terreno e del capannone soprastante ancora in corso di costruzione, sicchè non sussisterebbe il presupposto di fatto richiesto in quanto i suddetti beni non erano idonei a produrre utilità;
va osservato, sul punto, che la disciplina fiscale delle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’articolo 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, ed ha una finalità antielusiva, in quanto tende a contrastare le c.d. società di comodo e, in particolare, di disincentivare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario, costituendo società al mero fine di gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, anzichè per esercitare un’effettiva attività commerciale;
in particolare, i soggetti di cui all’articolo 30, comma 1, della legge n. 724 del 1994 (società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato) si considerando “non operativi” quando non superino il “test operatività” di cui al medesimo comma 1, ossia quando l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando determinati coefficienti;
il mancato superamento del test di operatività, ai fini IVA, comporta l’impossibilità di chiedere a rimborso, utilizzare in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, o di cedere ai sensi dell’articolo 5, comma 4- ter, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione;
l’articolo 30, comma 1, ultimo periodo, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, indica, inoltre, le ipotesi verificandosi le quali la disciplina antielusiva sulle società di comodo non si applica; nel caso in cui, quindi, sussistano le condizioni soggettive e oggettive di applicabilità della disciplina relativa alle società di comodo, il contribuente è tenuto a fornire la prova contraria, in particolare a provare che sussistano obiettive situazioni che hanno determinato l’impossibilità di conseguire per la società l’ammontare minimo di ricavi, di incrementi delle rimanenze e di proventi, nonché del reddito, previsto dal comma 1 dell’articolo 30 della legge n. 724 del 1994, allegando e provando, quindi, la presenza di quelle oggettive situazioni che non hanno consentito di effettuare operazioni rilevanti ai fini dell’IVA e che consentono la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive;
va evidenziato, in questo contesto, che il comma 1 dell’articolo 30 della legge n. 724/1994, nella versione precedente alle modifiche apportate dal decreto-legge n. 223 del 2006, escludeva tout court dall’applicazione della disciplina delle società non operative anche i “soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento dell’attività”;
l’art. 35, comma 15, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, ha eliminato dal novero delle cause di esclusione detta circostanza, per cui la stessa rileva, sempre che sia debitamente provata e giustificata, come una delle possibili “oggettive situazioni” di cui al comma 4-bis, del citato articolo 30, che prevede che “In presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può interpellare l’amministrazione ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente”;
il che implica che la circostanza, evidenziata dalla ricorrente, di essere proprietaria solo di beni immobili non ultimati può costituire elemento che rileva non quale causa di esclusione ai fini dell’applicabilità della disciplina in esame, ma, eventualmente, ai fini della sussistenza di una circostanza oggettiva idonea a superare la presunzione relativa derivante dal mancato superamento del test di operatività;
sicchè, il fatto che l’attività economica non sia stata posta in essere in quanto la realizzazione dell’immobile da utilizzare per lo svolgimento dell’attività si è protratta per un certo tempo ovvero che vi sia stato un ritardo nel rilascio delle necessarie autorizzazioni, possono assumere rilevanza, al fine del superamento della presunzione relativa, purchè il contribuente non si limiti a dedurre la sussistenza dei suddetti fatti, ma provi, altresì, che le ragioni della protrazione o del ritardo non siano dipesi da un proprio comportamento, ma da ragioni estranee alla propria volontà, quindi da causo fortuito o forza maggiore;
non rileva, quindi, solo il fatto in sé della mancata conclusione dei lavori di costruzione dell’immobile, ma anche il fatto che l’intenzione del contribuente era effettivamente finalizzata a intraprendere l’attività economica e che solo circostanze estranee alla propria volontà ne ha impedito il concreto ed effettivo svolgimento;
tali considerazioni sono in linea con i principi espressi dalla Corte di giustizia, secondo cui il diritto a detrazione rimane acquisito qualora, a causa di circostanze estranee alla sua volontà, il soggetto passivo non abbia mai fatto uso dei suddetti beni e servizi per realizzare operazioni imponibili (sentenza C-37/95 del 15/01/1998), atteso che osta ai principi in materia di armonizzazione delle imposte sulla cifra d’affari la perdita del diritto alla detrazione o il differimento dell’esercizio di tale diritto fino all’inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili (sentenza C-110/98 del 21/03/2000); infatti, anche le attività preparatorie devono già essere considerate attività economiche (sentenza C-268/83 del 14/02/1985), al pari delle prime spese di investimento effettuate con la dichiarata intenzione dell’impresa di avviare un’attività soggetta all’IVA (sentenza C-I 10/94 del 29/02/1996);
il che comporta che, se è vero che il diritto alla detrazione dell’Iva deve essere riconosciuto anche relativamente ad un periodo precedente all’effettivo svolgimento abituale delle operazioni imponibile, è comunque sempre necessario verificare, con adeguate prove, che l’inizio effettivo dell’attività economica sia stato differito per circostanze estranee alla volontà del contribuente;
sotto tale profilo, non è in contrasto con i suddetti principi la decisione del giudice del gravame laddove ha ritenuto di dovere valutare se la contribuente aveva offerto idonea prova contraria e verificare se il protrarsi della realizzazione definitiva della costruzione era giustificato da fatti di forza maggiore o comunque non riconducibili alla volontà degli amministratori della società;
né può trovare accoglimento la ragione di censura relativa alla violazione dell’art. 2697, cod. civ., basata sulla circostanza che la contribuente aveva comunque fornito la prova contraria; invero, il giudice del gravame ha chiaramente precisato che l’oggetto della prova doveva riguardare la sussistenza di fatti di forza maggiore o comunque non riconducibili alla volontà degli amministratori e, di conseguenza, ha ritenuto che nessuna prova in tal senso era stata offerta dalla contribuente;
in sostanza, il giudice ha compiuto una valutazione della idoneità degli elementi di prova addotti dalla contribuente ed ha concluso ritenendo che tale prova non era stata raggiunta, sicchè non sussiste alcuna violazione dell’art. 2697, cod. civ.;
peraltro, la ritenuta non idoneità delle prove contrarie fornite dalla contribuente esclude che possa sussistere la violazione dell’art. 116, cod. proc. civ., e dell’art. 115, cod. proc. civ., neppure sotto il profilo della violazione del principio di non contestazione (prospettato con riferimento al fatto che la documentazione prodotta non era stata contestata dalla controparte): la circostanza che le allegazioni difensive non erano state contestate dalla controparte non implica che debba farsi derivare il venire meno del dovere del giudice del gravame di verificare se le stesse erano idonee al raggiungimento della prova contraria circa la sussistenza del caso fortuito o della forza maggiore, profili che attengono, invero, al momento valutativo delle circostanze di fatto allegate dalla parte;
con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., in relazione all’art. 2697, comma primo, cod. civ., 115, comma primo e secondo, cod. proc. civ., 116, comma primo, cod. proc. civ., per non avere valutato le prove documentali offerte e non avere posto a base della decisione i fatti come provati e non contestati;
il motivo è inammissibile;
questa Corte ha più volte affermato che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 cod. proc. civ., comma primo, n. 4), bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma primo, n. 5), come riformulato dal decreto legge n. 83/2012, art. 54, conv., con modif., dalla legge n. 134 del 2012 (Cass. Civ., n. 23940 del 2017);
inoltre, con riferimento alla ritenuta violazione dell’art. 2697, cod. civ., riproposto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., va osservato che la violazione del precetto di cui alla previsione normativa citata è censurabile per cassazione ai sensi del’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., ed è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il Giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i limiti di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ. (Cass. Civ., 23 ottobre 2018 n.26769);
né, peraltro, rileva, come visto, la circostanza che il giudice ha ritenuto di dovere valutare la idoneità della prova contraria offerta dalla contribuente, avendo correttamente applicato i principi in ordine al riparto dell’onere della prova;
non riconducibile, infine, al parametro normativo di cui all’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., è la ragione di censura relativa al passaggio motivazionale secondo cui ulteriore argomento della non operatività della ricorrente era la circostanza che questa, nel 2009, dopo l’ultimazione della costruzione, aveva locato l’opificio; con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 633/1972, per avere negato il diritto alla detrazione, non potendo trovare ostacolo nell’assenza di una attività imprenditoriale in corso;
il motivo è infondato;
il mancato riconoscimento del diritto alla detrazione deriva dalla circostanza che la società è stata ritenuta dal giudice del gravame non costituita per scopi di lucro ma per vantaggio personale dei soci, con conseguente applicazione della disciplina delle società non operative concernenti, in particolare, ai fini IVA, l’impossibilità di chiedere a rimborso, utilizzare in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, o di cedere ai sensi dell’articolo 5, comma 4-ter, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione;
la circostanza relativa alla notoria crisi economica che negli anni 2008 e 2009 avrebbe colpito l’economia nazionale nel suo insieme e, per quel che rileva, il settore della produzione della carta, e che avrebbe determinato la contribuente a seguire una diversa linea imprenditoriale attiene a profili di merito, non sindacabili in questa sede;
in conclusione, il primo e terzo motivo sono infondati, inammissibile il secondo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite del presente giudizio;
si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano in complessivo euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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