CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 dicembre 2019, n. 34739
Indebito uso di permessi sindacali a fini personali – Licenziamento per giusta causa – Possibilità per il datore di lavoro di verificare, in concreto, anche mediante attività investigativa – Comportamento illegittimo posto in essere al di fuori dell’orario di lavoro, disciplinarmente rilevante
Rilevato che
– con sentenza in data 26 febbraio 2018, la Corte d’Appello di Milano, ha confermato la sentenza resa dal giudice di primo grado respingendo il reclamo avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto l’opposizione proposta da L. V. avverso l’ordinanza di rigetto dell’impugnativa di licenziamento intimatogli da F. S. S.c.p.a. per giusta causa costituita dall’indebito uso di tre permessi sindacali a fini personali;
– in particolare, il giudice di primo grado aveva ritenuto l’addebito fondato non avendo il dipendente fornito specifiche deduzioni in ordine all’attività sindacale svolta nelle tre giornate considerate, nelle quali si era invece dedicato ad attività personali come legittimamente accertato dalla datrice di lavoro mediante agenzia investigativa;
– ritenuta la tempestività della contestazione, alla luce del carattere continuativo degli atti costituiti dai tre episodi contestati, del tutto legittimo era stato dalla Corte d’appello considerato l’affidamento dell’indagine ad una agenzia investigativa in quanto volta ad accertare un comportamento del lavoratore estraneo all’attività lavorativa ma rilevante sotto il profilo del corretto adempimento dell’obbligazione lavorativa;
– avverso tale pronunzia propone ricorso L. V. affidandolo a cinque motivi;
– resiste, con controricorso, la F. S. S.c.p.a.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 23 e 24 dello Statuto dei Lavoratori per aver la sentenza impugnata ritenuto ammissibile e legittimo il controllo datoriale sull espletamento dell’attività sindacale;
– il motivo è infondato;
– va premessa l’inapplicabilità alla specie della copiosa giurisprudenza di legittimità in tema di permessi retribuiti di cui all’art. 30 L. n. 300/70, (fra le più recenti, si veda Cass. n. 4943 del 20 febbraio 2019) a mente della quale i permessi sindacali retribuiti previsti dall’art. 30 st.lav. per i dirigenti provinciali e nazionali delle organizzazioni sindacali possono essere utilizzati soltanto per la partecipazione a riunioni degli organi direttivi, come risulta dal raffronto con la disciplina dei permessi per i dirigenti interni, collegati genericamente all’esigenza di espletamento del loro mandato, e come è confermato dalla possibilità per i dirigenti esterni di fruire dell’aspettativa sindacale, talché l’utilizzo per finalità diverse dei permessi, comportando una assenza del dipendente da cui deriva una mancanza della prestazione per causa a lui imputabile, può giustificare la risoluzione del rapporto;
– nondimeno, va affermato che la sussistenza di un diritto soggettivo perfetto, anzi potestativo del dirigente sindacale a fruire dei permessi di cui all’art. 24 non esclude la possibilità per il datore di lavoro di verificare, in concreto, eventualmente anche mediante attività investigativa – che non involge direttamente l’adempimento della prestazione lavorativa e non è quindi preclusa dagli artt. 2 e 3 L. n. 300/70 poiché riguarda un comportamento illegittimo posto in essere al di fuori dell’orario di lavoro, disciplinarmente rilevante (ex plurimis, Cass. n. 12810 del 22 maggio 2017) – che effettivamente i permessi siano stati utilizzati nel rispetto degli artt. 23 e 24;
– l’art. 24, infatti, possono essere concessi per “… la partecipazione a trattative sindacali o a congressi o convegni di natura sindacale” e pertanto deve ritenersi che, in assenza di qualsivoglia allegazione da parte del lavoratore circa la riconducibilità dell’attività svolta nei confini, pur ampi, dettati dalla norma, la fruizione dei permessi debba reputarsi illegittima;
– va ribadito, infatti, che la concessione di tali permessi non è soggetta ad alcun potere discrezionale ed autorizzatolo da parte del datore di lavoro (sul punto, Cass. n. 454 del 14 gennaio 2003) e, purtuttavia, essi non possono essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali o, comunque, divergenti rispetto a quelle per le quali possono essere richiesti;
– nel caso di specie, congruamente ha interpretato la norma il giudice di secondo grado nel reputare esulante dalla motivazione “riunione” addotta dal dipendente l’attività espletata e, in assenza di diverse indicazioni del V., che beft avrebbe potuto allegare elementi a sostegno dell’asserita attività sindacale, lo sviamento dei permessi sindacali dai fini loro propri, non ritenendo altresì rilevanti, in senso contrario, le deduzioni probatorie genericamente svolte limitate alla mera elencazione di una serie di “problematiche” di cui il dipendente si sarebbe occupato (peraltro contrastanti con la documentazione fotografica che ritraeva il dipendente in attività ludiche);
– con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 2, 3, 4, 5 dello Statuto dei Lavoratori per aver la sentenza ritenuto ammissibile il provvedimento espulsivo solo sulla base del rapporto di una agenzia investigativa, con il terzo motivo, si deduce la violazione degli artt. 5 L. n. 604/66 e 2697 cod. civ. nonché 2729 cod. civ. per non essere stata fornita dal datore di lavoro la prova della giusta causa di licenziamento, con il quarto motivo, si deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 300/70 e 2119 cod, civ. per non essersi avuta immediatezza nella contestazione, mentre, infine, con il quinto motivo, si deduce la violazione dell’art. 2106 cod. civ. per non essere il provvedimento disciplinare irrogato proporzionato al fatto contestato, nonché omessa ed insufficiente motivazione sul medesimo punto;
– i quattro motivi possono essere esaminati contestualmente e sono infondati;
– con riguardo, infatti, alle dedotte violazioni di legge, va rilevato che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea cognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile , in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione;
– il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa ( cfr. Cass n 7394 del 2010; Cass. n 14468 del 2015);
– il ricorrente, nella specie, deduce il vizio di falsa applicazione per erronea interpretazione della normativa in tema di controlli, giusta causa, immediatezza della contestazione e proporzionalità della sanzione, tuttavia, nel far ciò, formula censure alla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte ed alla riconduzione degli stessi nell’ambito delle norme rilevanti che mirano ad una rivalutazione dei fatti stessi diversa e non piuttosto ad una diversa interpretazione della norma come vorrebbe allegare;
– la piana lettura della formulazione dei motivi induce, infatti, ad affermare che sebbene parte ricorrente lamenti in ciascuno di essi una violazione di legge, in realtà le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, con doglianze intrise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attività asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto tentandosi di portare di nuovo all’attenzione del giudice di legittimità una valutazione del tutto fattuale e, cioè, l’indagine concernente il rilievo del lasso temporale trascorso fra la mancata presentazione della lavoratrice nel nuovo posto di lavoro e l’intervenuta contestazione dell’addebito, apprezzamento del tutto fattuale e, pertanto, sottratto al sindacato di legittimità;
-deve quindi escludersi, ictu oculi, la deduzione di una erronea sussunzione nelle disposizioni normative mentovate della fattispecie considerata, apparendo, invece, chiarissima l’istanza volta ad ottenere una inammissibile rivalutazione del merito della vicenda;
– per quanto concerne, infine, l’omessa motivazione su un fatto decisivo, consistente nell’esame delle risultanze istruttorie acquisite nel giudizio di secondo grado, da cui emergerebbe l’omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo costituito esistenza di un’attività costantemente sottoposta al controllo datoriale, si tratta, anche in tal caso, di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 col, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017);
-alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto;
– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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