CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 giugno 2021, n. 18692
Tributi – Imposte sui redditi – Accertamento – Plusvalenza latente – Cessione di ramo d’azienda e del marchio – Disciplina di interposizione ex art. 37, co. 3 del DPR n. 600 del 1973 – Uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico – Necessità di intento fraudolento – Esclusione
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale del Veneto rigettava l’appello proposto da R.B. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza (sentenza n. 122/1/2012), che aveva rigettato il ricorso presentato dal contribuente contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate, su segnalazione pervenuta dalla Direzione Regionale del Veneto, settore controlli, contenzioso e riscossione, per l’anno 2006, a titolo di plusvalenza non dichiarata. In particolare, l’avviso di accertamento si fondava sull’esistenza di un “plusvalenza latente” su partecipazioni, ancora esistente nonostante la presentazione di una tardiva dichiarazione integrativa del modello unico 2007; tale plusvalenza, pari ad € 2.630.708,00, era rinvenuta dalla differenza tra i valori di cessione del conferimento del ramo d’azienda della A.I. s.p.a. (€ 28.800.000) e della cessione del marchio della stessa società alla L. s.p.a. (€12.000.000), concordati dalle parti, per complessivi € 40.800.000,00), ed una maggiore plusvalenza determinata dall’Agenzia in base a calcoli fondati su dati esposti nell’atto (cessione delle quote di A. s.p.a. alle società D. s.p.a. e C. s.p.a. al prezzo di € 38.169.292,47). Secondo il giudice d’appello non era rilevante il fatto che il contribuente non avesse mai incassato somme aggiuntive a quelle dichiarate e tassate, dovendosi considerare, invece, la complessa architettura delle operazioni commerciali realizzate nel giro di pochi giorni l’una dall’altra, con il pacchetto di maggioranza della A. che era stato assunto formalmente dal nuovo soggetto, ossia dalla H. s.s., in luogo di quattro soci persone fisiche (M.G.G., A.G., G.L., R.B.). La società H., quale veicolo societario dell’operazione, non aveva assoggettato a tassazione la plusvalenza conseguita a seguito della cessione del marchio, mentre successivamente il contribuente B. aveva presentato dichiarazione integrativa nel 2008, che veniva ritenuta omessa, in quanto presentata oltre i 90 giorni dalla scadenza dei termini previsti per la presentazione delle dichiarazioni integrative. La determinazione della plusvalenza era stata così determinata da vari elementi: dall’esistenza del procedimento penale a carico della M. e della successione temporale, anche concomitante, dei negozi giuridici posti in essere dalle parti; dalle dichiarazioni rese dai soci, da cui emerge il reale valore della cessione della A.I. s.p.a. composto dalla sommatoria del valore del ramo d’azienda e del marchio, valore quest’ultimo provato dalla perizia; dalla lettura di un file denominato “operazione socio” seguita dal nome del contribuente, tratto dal server della M.; dal compenso riconosciuto al gruppo M.; dall’omessa dichiarazione dei redditi derivanti da plusvalenza e dalla successiva dichiarazione integrativa effettuata sulla base della plusvalenza originaria. Il ruolo svolto dalla H. era, dunque, quella di mero soggetto interposto, per effettuare un risparmio fiscale tramite la neutralizzazione delle plusvalenze della H., con le minusvalenze fittizie della stessa. Non vi era stata, quindi, alcuna violazione del principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. e dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973. Inoltre, non vi era stata violazione degli articoli 7 e 12 della legge n. 212 del 2000, in quanto non vi era mai stata alcuna verifica fiscale, ma solo l’enucleazione di una segnalazione della Direzione Regionale del Veneto, sicché l’Ufficio, esaminate le informazioni e la documentazione acquisita, aveva emesso l’avviso di accertamento ai sensi degli articoli 32 e 33 del d.P.R. n. 600 del 1973. Veniva rigettata anche l’eccezione di legittimità dell’avviso di accertamento per incompetenza territoriale del soggetto che aveva condotto la verifica fiscale.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.
3. Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per violazione e/o falsa applicazione degli articoli 7 e 12, della legge n. 212 del 2000 e dell’art. 24, legge n. 4 del 1929, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. La mancata redazione del processo verbale di constatazione”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto che “non era esistita alcuna verifica fiscale, ma solo l’enucleazione di una segnalazione della Direzione Regionale del Veneto”. In realtà, secondo il ricorrente la contestazione formulata dall’Amministrazione finanziaria nei suoi confronti è sorta a seguito di un “accesso breve” effettuato dalla Direzione Regionale del Veneto a carico della “nuova A., ma né nei suoi confronti, né nei confronti di quest’ultima, è mai stato redatto alcun processo verbale di constatazione. Del resto, se il mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni, di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, che deve necessariamente intercorrere tra il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni e l’emissione dell’avviso di accertamento, comporta l’illegittimità di quest’ultimo, a maggior ragione dovrebbe essere illegittimo l’avviso di accertamento non preceduto dalla redazione di un processo verbale di constatazione, a seguito di accesso breve effettuato dalla Direzione Regionale del Veneto per l’acquisizione dei documenti.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per violazione o falsa applicazione degli articoli 67 e 68, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Della violazione del principio del corrispettivo”. In particolare, il ricorrente contesta l’affermazione dei giudici d’appello per i quali “non è rilevante il fatto che il contribuente non ha mai incassato somme aggiuntive a quelle dichiarate e tassate… l’incasso o meno di somme aggiuntive non era rilevante ai fini del processo”. L’affermazione sarebbe priva di ogni fondamento; i soci della A. storica, in data 20 dicembre 2006, hanno ceduto la totalità delle proprie partecipazioni alle società D. S.p.A. e C. S.r.l. al prezzo pattuito, liberamente, di euro 38.169.292,00, di cui euro 30.595.171,00 di spettanza di H. s.s., quale socio maggioritario. Pertanto, la disciplina fiscale applicabile alle plusvalenze originate è contenuta nell’art. 68 del d.P.R. n. 917 del 1986, al cui comma 6 e sancito il “principio del corrispettivo”. La plusvalenza, dunque, si computa nella differenza tra il corrispettivo percepito ed il costo od il valore di acquisto assoggettato a tassazione. Pertanto, la plusvalenza realizzata da H., partecipata da B. per il 17,65%, per effetto della cessione della partecipazione nella A. storica, è stata di complessivi euro 30.494.723,00, pari alla differenza fra il prezzo pattuito di propria spettanza (euro 30.595.171,00) ed il costo fiscale di acquisto della partecipazione, pari ad euro 100.448,00. Il corrispettivo percepito da H. s.s. è stato di euro 30.595.171,00, proveniente per euro 15.297.585,50 dalla cessione della partecipazione in favore di D. S.p.A., e per euro 15.297.585,50 per la cessione della partecipazione in favore di C. S.r.l. Nessun ulteriore compenso sarebbe mai stato percepito dai cedenti le partecipazioni. L’Agenzia delle entrate non avrebbe mai dimostrato l’esistenza di un corrispettivo maggiore di quello dichiarato in atti e risultante dalla documentazione. L’Agenzia muove da una presunzione “semplicissima”, ipotizzando che i soci della A. storica abbiano venduto le partecipazioni totalitarie detenute nella stessa, non già al dichiarato corrispettivo di euro 38.169.292,00, ma per un valore pari alla sommatoria di: valore di conferimento del ramo d’azienda per euro 28.800.000,00 e valore di cessione del marchio pari ad euro 12.000.000,00, per un totale di complessivi euro 40.800.000,00. Il valore di mercato delle partecipazioni sarebbe dunque superiore al corrispettivo dichiarato in atti, muovendo dalla semplice presunzione che i soggetti coinvolti nelle operazioni commerciali siano sempre medesimi.
Né possono essere sindacate in alcun modo le scelte strategiche dell’imprenditore, sulla base di un giudizio di antieconomicità.
La circostanza che le società terze acquirenti, D. S.p.A. e C. S.r.l. non abbiano regolarmente assoggettata a tassazione quanto di loro spettanza, ossia la plusvalenza conseguita a seguito della cessione del marchio, non comporta conseguenze sulla posizione del contribuente.
3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole “dell’illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (il mancato rispetto da parte dell’Ufficio del principio del corrispettivo ex art. 68, comma 6, d.P.R. n. 600 del 1973), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”. L’omesso esame del fatto decisivo a terrebbe alla violazione del “principio del corrispettivo, di cui al comma 6 dell’art. 68 del d.P.R. n. 917 del 1986, che prevede che le plusvalenze sono costituite dalla differenza tra il corrispettivo percepito ed il costo od il valore di acquisto assoggettato a tassazione. Pertanto, la plusvalenza fiscale realizzata da H. s.s., partecipata da B. per il 17,65%, per effetto della cessione della propria partecipazione nella A. storica, è stata di complessivi euro 30.494.723,00, pari alla differenza fra il prezzo pattuito di propria spettanza (euro 30.595.171,00) ed il costo fiscale di acquisto della partecipazione (euro 100.448,00). Nessun ulteriore compenso sarebbe stato mai percepito dai cedenti le partecipazioni.
4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per violazione o falsa applicazione dell’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, e quindi conseguentemente dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. La totale assenza di interposizioni fittizie e la violazione del principio dell’onere della prova”. Il giudice d’appello avrebbe dunque errato nel ritenere che la società H. s.s. sarebbe stata un “mero soggetto interposto per effettuare un risparmio fiscale tramite la neutralizzazione delle plusvalenze con le minusvalenze fittizie e pertanto l’avviso di accertamento non è stato emesso…. in violazione dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973”. In realtà, non è stato in alcun modo dimostrato che i soggetti partecipanti alle operazioni avessero stipulato un accordo diretto a far apparire l’operazione diversa da quella che era nella realtà (pactum sceleris). Nella interposizione fittizia di persona costituisce elemento imprescindibile il necessario accordo simulatorio tra tutti e tre i soggetti contraenti. Il fatto che nella sentenza di merito impugnata non vi sia mai alcun riferimento ad un pactum sceleris, che costituisce condizione indispensabile perché si possa legittimamente fare riferimento ad una interposizione fittizia di persona, è sintomatico dell’errore commesso dal giudice d’appello.
5. Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (l’assenza di interposizioni fittizie ed il mancato assolvimento dell’onere probatorio), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”. Sarebbe del tutto erronea l’affermazione del giudice d’appello, per il quale la società H. s.s. sarebbe stata un “mero soggetto interposto per effettuare un risparmio fiscale tramite la neutralizzazione delle plusvalenze con a minusvalenze fittizie”. Si ribadisce, che nella sentenza di merito non vi è mai alcun riferimento ad un dimostrato pactum sceleris.
6. Con il sesto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per violazione e/o falsa applicazione del d.l. 29 novembre 2008, n. 185 (convertito in legge 28 gennaio 2009, n. due) ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Della incompetenza territoriale della Direzione Regionale del Veneto”. Il giudice d’appello, sulla questione, si è limitato ad affermare la piena condivisione di quanto esposto nelle “controdeduzioni dell’Ufficio”. Tuttavia, l’avviso di accertamento è scaturito da una verifica fiscale condotta dalla Direzione Regionale del Veneto a carico della società nuova A., oltre che dall’invio di un questionario ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 inoltrato al B. dalla medesima Direzione Regionale. In realtà, secondo il ricorrente le attività di verifica e di ispezione nei confronti dei contribuenti sono attribuite in via esclusiva agli uffici locali dell’Agenzia delle entrate, e non possono essere svolti dalla Direzione Regionale.
7. Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “illegittimità della sentenza della Commissione tributaria regionale per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (di incompetenza territoriale della Direzione Regionale del vento), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”. Nel caso di specie, secondo il ricorrente, la nullità dell’attività accertativa deriverebbe dalla incompetenza ex lege dell’organo verificatore.
7.1. Devono essere esaminati preliminarmente, per la loro potenziale capacità “assorbente” rispetto agli altri, e congiuntamente, per la loro stretta connessione, i motivi sesto e settimo del ricorso.
7.2. Tali motivi sono infondati.
7.3. Invero, l’art. 2, comma 2, del Regolamento n. 4 del 30 novembre 2000 dispone che “l’Agenzia si articola in uffici centrali regionali, con funzioni prevalenti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, e in uffici periferici, con funzioni operative”.
Ciò però non implica che la Direzione Regionale non possa espletare attività di accertamento. Infatti, l’art. 4 del regolamento – strutture regionali di vertice – prevede che “gli organi di cui al comma 1 esercitano, nell’ambito della rispettiva regione…funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo nei confronti degli uffici…svolgono attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento, della riscossione e del contenzioso, e in specie, a decorrere dal 1 gennaio 2009, quelle di cui ai commi 9,11, 12 e 14 dell’art. 27 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, con le attribuzioni i poteri di cui al comma 13 del medesimo articolo nei confronti dei soggetti con volume d’affari, ricavi o compensi non inferiori a 100 milioni di euro”).
Sul punto, non rileva il contenuto dell’art. 7 comma 13 della legge 358/1991, dopo la modifica apportata dall’art. 23 del d.P.R. 107/2001 (“Le attività di verifica e di ispezione nei confronti dei contribuenti sono attribuite alla esclusiva competenza degli uffici indicati nel comma 10 e dei reparti della Guardia di finanza”). Prima di tale modifica, infatti, le attività di verifica e di ispezione erano demandate esclusivamente ai reparti della Guardia di finanza ed agli uffici di cui al comma 10 del medesimo articolo, ossia ai soli uffici periferici (art. 10 “..le funzioni operative dei dipartimenti sono svolte , in periferia, dai seguenti uffici unificati:a) centro di servizio delle imposte dirette ed indirette…b)ufficio delle entrate, cui spettano le attribuzioni in materia di accertamento e riscossione dei tributi di competenza del Dipartimento delle entrate…c)ufficio del territorio…”).
Si precisava, quindi, che “restano tuttavia ferme le competenze attribuite in materia al Servizio centrale degli ispettori tributari”. Dopo la modifica di cui all’art. 23 del d.P.R. 107/2001, è stato soppresso il comma 10 dell’art. 7 legge 358/1991, sicché è venuto meno il rimando agli uffici periferici per quanto attiene alle attività di verifica e di ispezione, che resta comunque ai reparti della guardia di finanza.
La norma, nata per chiarire che sia la guardia di finanza che gli uffici della Agenzia delle entrate (periferici), potevano svolgere attività di verifica, dopo la novella di cui all’art. 23 d.P.R. 107/2001, ha perso tale significato, in quanto non è più possibile il rinvio al comma 10, per l’individuazione degli uffici periferici della Agenzia delle entrate.
Pertanto, la norma non è più utilizzabile per distinguere le attività degli uffici periferici rispetto a quelle degli uffici regionali e centrali, in quanto gli uffici finanziari sono stati organizzati unitariamente come Agenzia delle entrate (Cass., 30 settembre 2019, n. 24296).
Del resto, l’art. 61 del d.lgs. 300/1999 prevede che “Le agenzie fiscali hanno personalità giuridica di diritto pubblico. In conformità con le disposizioni del presente decreto legislativo e dei rispettivi statuti, le agenzie fiscali hanno autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria”.
Sulla base della riconosciuta autonomia regolamentare, è stato adottato il regolamento n. 4 del 30-11-2000, con la previsione delle attività consentite sia alla Direzione Centrale che alle Direzioni Regionali.
Inoltre, per questa Corte l’art. 27 del d.l. n. 185 del 2008, conv. in l. n. 2 del 2009, non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su una norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione Regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi (Cass., 2 novembre 2020, n. 24224, in controversia concernente la medesima questione anche se relativa al socio M.G.G.; Cass., sez. 5, 21 dicembre 2018, n. 33289; Cass., sez. 5, 3 ottobre 2014, n. 20915).
8.1.Il primo motivo, che va esaminato anch’esso preliminarmente, in quanto potenzialmente “assorbente”, è infondato.
8.2. Invero, il necessario rispetto del termine di 60 giorni che deve intercorrere tra il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo e l’emissione dell’avviso di accertamento, trova applicazione nel caso in cui l’Agenzia delle entrate svolga in via autonoma attività istruttoria, consistente anche nella mera acquisizione di documenti presso la sede dell’impresa (accesso breve), prima dell’emissione dell’avviso di accertamento. È necessario, infatti, in questa ipotesi sia la redazione di un processo verbale, di qualsiasi specie, e non quindi con le formalità caratteristiche del processo verbale di constatazione, sia il rispetto del termine dilatorio di giorni 60 prima dell’emissione dell’avviso di accertamento.
La fattispecie in esame, invece, si snoda con un iter del tutto peculiare. Infatti come emerge dagli atti e come risulta in particolare dalla sentenza del giudice d’appello (cfr. pagina 4), è stata la Direzione Regionale della Lombardia, dopo i controlli di sua competenza su fatti riguardanti “pacchetti di risparmio fiscale”, con “giri finanziari”, conseguenti alle cessioni di beni aziendali tramite cessioni di quote di società ed emersione di plusvalenze, a segnalare alla Direzione Regionale del Veneto la posizione fiscale della società A.I. S.p.A., con sede in Zané (VI), della quale era socio il contribuente e che era incentrata “su di una complessa operazione straordinaria avvenuta nel corso del 2006 su proposta della società di consulenza M.”.
A sua volta la Direzione Regionale del Veneto ha effettuato la segnalazione alla Agenzia delle entrate-Direzione provinciale di Vicenza, che ha poi provveduto all’emissione dell’avviso di accertamento.
Il procedimento amministrativo, come si vede, è stato strutturato in modo peculiare, con due segnalazioni, effettuate, la prima, dalla Direzione Regionale della Lombardia, e, la seconda, dalla Direzione Regionale del Veneto.
Trova applicazione, allora, il regime dell’art. 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (accertamento parziale), in base al quale “senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 43, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dalle attività istruttorie di cui all’art. 32, comma primo, numeri da 1 a 4, nonché dalle segnalazioni effettuate dalla Direzione Centrale accertamento, da una Direzione Regionale ovvero da un Ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre agenzie fiscali, dalla Guardia di Finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dei dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazione in società, associazioni ed imprese di cui all’art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, o l’esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonché l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, escluse le ipotesi di cui agli articoli 36-bis e 36-ter, possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare, anche avvalendosi delle procedure previste dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. Non si applica la disposizione dell’art. 44”.
Pertanto, in questi casi l’avviso di accertamento si basa sugli elementi predetti, ossia sulle “segnalazioni” provenienti dalla Direzione Regionale.
Infatti, per questa Corte l’accertamento parziale dell’Iva e delle imposte dirette è uno strumento diretto a perseguire finalità di “sollecita emersione” della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al “mero recepimento” del contenuto della segnalazione della Guardia di finanza, che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di “automatismo argomentativo”, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità ulteriore approfondimento (Cass.Civ., 10 febbraio 2016, n. 2633).
Le segnalazioni erano, dunque, pervenute sia dalla Direzione Regionale della Lombardia, settore controlli, contenzioso e riscossione, con riferimento alla posizione fiscale della società A.I. S.p.A., sia dalla Direzione Centrale accertamento, Ufficio Centrale Antifrode, che ha trasmesso alla Direzione Regionale del Veneto, Ufficio Antifrode, documentazione informatica riguardante vari soggetti: C. S.r.l.; A.I. soc. cons. a r.l., con domicilio fiscale a Milano; A.I. S.r.l., con domicilio fiscale a Zané(VI). L’accesso breve è stato effettuato dalla Direzione Regionale Veneto, Ufficio Antifrode, nei confronti di A.I., con acquisizione di documentazione contabile ed extra contabile afferente le operazioni straordinarie poste in essere dalla società ed i rapporti intercorsi con il gruppo M. per gli anni d’imposta 2006 e 2007.
Va, peraltro, osservato che la segnalazione inoltrata dalla Direzione Regionale del Veneto-Ufficio Antifrode-era fondata anche sulle dichiarazioni rese dal contribuente nel corso del contraddittorio del 20 ottobre 2011, svoltosi a seguito di rituale invito ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973.
È evidente, allora, che l’attività svolta dalla Amministrazione finanziaria non è qualificabile come vera e propria attività di verifica, ma si fonda sulle specifiche “segnalazioni” pervenute dalle Direzioni Regionali del Veneto e della Lombardia.
9.I motivi secondo, terzo, quarto e quinto, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono inammissibili.
9.1. Anzitutto, si rileva che la sentenza della Commissione tributaria regionale è stata depositata il 28 gennaio 2014, mentre l’appello è stato depositato 17 giugno 2013. Ciò comporta, non solo l’applicazione alla fattispecie del vizio di motivazione, di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., secondo la formulazione vigente a seguito del d.l. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012, ma anche l’inammissibilità del motivo di impugnazione fondato sul vizio di motivazione, per la presenza di un doppio giudizio conforme di merito, ex art. 348 ter c.p.c.
La disciplina impugnatoria da applicare era, dunque, quella successiva al d.l. 83/2012, che ha inserito gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., con l’introduzione del divieto di impugnazione sotto il profilo della motivazione in caso di doppia decisione di merito “conforme”, ossia fondata sui medesimi fatti.
Infatti, per questa Corte nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 1, 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass., sez. 5, 11 maggio 2018, n. 11439; Cass., 6 agosto 2019, n. 20994).
Nella specie, l’appello risulta depositato il 17-6-2013, sicché è sicuramente successivo all’11 settembre 2012, con conseguente applicazione dell’art. 348 ter c.p.c.
Il giudice d’appello ha condiviso completamente le motivazioni del giudice di primo grado (cfr. pagina 3 della motivazione “l’appello sostanzialmente ricalca, copiando, le doglianze presentate per il ricorso introduttivo contro l’avviso di accertamento, doglianze tutte ben comprese, esaminate e respinte dei primi giudici. L’appello è dunque presentato con una mera ripetizione dei motivi espressi nel ricorso, con il solo cambio della successione nella numerazione degli stessi e del soggetto a cui si riferiscono, passato dall’avviso di accertamento alla sentenza impugnata… null’altro viene aggiunto di interessante per poter contribuire a cambiare l’orientamento già sentenziato “).
Pertanto, i motivi di ricorso per cassazione fondati sul vizio di motivazione, e segnatamente il terzo ed il quinto motivo di ricorso, sono inammissibili; ciò senza contare che il fatto, il cui omesso esame può costituire vizio di motivazione, nella nuova stesura dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., deve consistere in un fatto storico, primario o secondario, mentre nella specie non possono integrare tale “fatto”, la pretesa violazione del “principio del corrispettivo” (terzo motivo), né l’assenza di “interposizione fittizia” (quinto motivo), che costituisce un mero giudizio.
9.2. Inoltre, deve tenersi conto del giudicato formatosi in ordine alla legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di Mirko Giorgio G., in quanto questa Corte, con ordinanza depositata il 2 novembre 2020, n. 24.224, ha rigettato il ricorso per cassazione proposto dal contribuente che aveva impugnato la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 59/42/2013, che aveva rigettato l’appello proposto dal G. contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lecco, che aveva respinto il ricorso originario del contribuente. Il G. era, infatti, uno dei soci della A.I. S.p.A., che aveva utilizzato interposizione della H. s.s., di cui era pure socio di maggioranza, costituita dal gruppo M., in relazione alla medesima annualità (anno 2006).
9.3.Invero, con riferimento agli effetti verso terzi del giudicato esterno “riflesso” ai sensi dell’art. 2909 c.c., per la Suprema Corte l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato non estende i suoi effetti, né è vincolante, nei confronti dei terzi ma, quale “affermazione obiettiva” di verità, è idoneo a spiegare efficacia riflessa verso soggetti estranei al rapporto processuale sempreché il terzo non sia titolare di un rapporto autonomo ed indipendente rispetto a quello in ordine al quale il giudicato interviene, non essendo ammissibile, in tale evenienza, che egli, salvo diversa ed espressa indicazione normativa, ne possa ricevere pregiudizio giuridico o possa avvalersene a fondamento della sua pretesa (Cass., sez. V, 17 maggio 2017, n. 12252; Cass., sez. 5, 3 marzo 2017, n. 5403; Cass., sez. 1, 2 dicembre 2015, n. 24558; in tema di diritti reale vedi Cass., sez.6, 8 ottobre 2013, n. 22908; Cass., sez. 5, 13 gennaio 2011, n. 691; Cass., 11 marzo 2005, n. 5381).
9.4. Nella specie, infatti, la Corte di cassazione, con l’ordinanza del 2 novembre 2020, n. 24.224, ha ritenuto inammissibili e, comunque infondati il terzo ed il quarto motivo di ricorso proposti dalle G., proprio in relazione alla asserita erronea valutazione da parte del giudice d’appello dell’interposizione fittizia della H. s.s. Per la Cassazione, dunque, “la sentenza impugnata prende in considerazione una serie di elementi indiziari, che valuta in coordinazione tra loro, come il valore attribuito dei soci al ramo d’azienda ed al marchio della A.I. S.p.A., superiore al corrispettivo di cessione controverso; la corrispondenza della differenza de qua con i compensi corrisposti, quali fiduciarie per la gestione delle partecipazioni, a società del gruppo M.; la dichiarazione integrativa del contribuente, relativa alla plusvalenza realizzata con la cessione; la circostanza che, in un contesto temporale ristretto, il duplice passaggio delle quote A.I. S.p.A., dai soci che ne erano titolari alla H. s.s. e da questa alle società cessionaria del gruppo M., e la stessa acquisizione, da parte dei medesimi soci, delle quote della predetta H. s.s., non trovavano una giustificazione razionale, sotto il profilo economico è funzionale”. Tale ricostruzione, non è stata in alcun modo inficiata dagli indicati motivi di impugnazione, tanto che la Corte di Cassazione come il contenuto della sentenza impugnata “fonda il meccanismo elusivo descritto proprio sulla condotta reciprocamente coordinata del contribuente, degli altri soci della A.I. S.p.A. e delle società del gruppo M.”.
9.5. Inoltre, il ricorrente chiede una diversa valutazione degli elementi istruttori, già congruamente e correttamente compiuta dal giudice d’appello, non è consentita in questa sede.
9.6. I motivi sarebbero, comunque, tutti infondati.
9.7. Invero, il 6 dicembre 2006 i soci di maggioranza, fra cui R.B. (12,75%), della A. storica hanno ceduto il pacchetto azionario in loro possesso alla società semplice H. s.s., per il prezzo di euro 100.448,00. Soci della H. s.s. erano i medesimi soci della A. storica, fra cui anche R.B. (17,65 %).
Il 20 dicembre 2006 ha conferito il proprio intero ramo d’azienda, con esclusione del marchio, che sarà oggetto di separata vendita, per il valore di euro 28.800.000,00 alla neocostituita W. s.r.l., interamente controllata, che ha assunto successivamente la denominazione di A.I. S.p.A. (nuova A.).
Nella medesima data del 20 dicembre 2006 tutti i soci della A. storica, fra cui anche la società H. s.s., partecipata sempre dei soci della A., hanno ceduto la partecipazione totalitaria detenuta nella A. storica, alle società D. S.p.A. e C. S.r.l., per il prezzo di euro 38.169.292,47. Il prezzo di spettanza della H. s.s. era, in base alla propria quota, di euro 30.595.171,00, di cui euro 15.297.585,50 derivanti dalla cessione della partecipazione in favore di D. S.p.A., ed euro 15.297.585,50 derivanti dalla cessione della partecipazione in favore di C. S.r.l. Pertanto la plusvalenza civilistica realizzata da H. s.s., partecipata dal B. nella misura del 17,65%, è stata di euro 30.595.171,00, al netto però del valore fiscale di acquisto della partecipazione per euro 100.448,00, riducendosi quindi ad euro 30.494.726,00.
Alcuni giorni dopo la A. storica, detenuta per il 100% dalle società D. S.p.A. e C. S.r.l., ha ceduto il marchio A. alla società L. S.p.A., al prezzo di euro 12.000.000,00, e successivamente tale marchio è stato concesso in leasing dalla loca e S.p.A. alla nuova A..
La H. s.s., quindi, in pochi giorni si svuota totalmente della cessione totalitaria delle quote da essa posseduta, solo dopo avere deliberato, sempre il 20 dicembre 2006, il pagamento di acconto utili per l’anno 2006 di euro 5.356.356,35 in favore del ricorrente. Inoltre, la H. s.s. ha eliminato la plusvalenza con minusvalenze utilizzate di natura fittizia.
Il contribuente B. non ha pagato la sua quota parte di plusvalenza sulla cessione per l’anno 2006. Solo nell’anno 2008 (il 18-3-2008) il B. ha presentato una dichiarato integrativa, tenendo conto che la H. s.s. non aveva sottoposto a tassazione la plusvalenza fiscale di euro 30.494.723,00. Il contribuente ha così indicato nel quadro Rt una plusvalenza di complessivi euro 5.399.158,00, in quanto deteneva nella H. s.s. una partecipazione non qualificata del 17,65%, rendendo comunque come riferimento non il valore fiscale della plusvalenza conseguita da H. s.s., pari ad euro 30.494.723,00, ma il suo valore civilistico di euro 30.595.171,00.
La maggiore plusvalenza a carico di B., che pur aveva pagato già la plusvalenza per euro 5.399.158,00, viene determinata dalla differenza tra il reale valore delle quote della A.I. S.p.A. (euro 40.800.000,00) ed il valore delle stesse indicato nell’atto di cessione del 20 dicembre 2006 (euro 38.169.292,00), per la somma quindi di euro 2.630.708,00. Pertanto, di tale maggiore plusvalenza di euro 2.630.708,00, la quota spettante al contribuente B. era pari al 14, 1453% (€ 372.121.60), quindi una quota rappresentante non la sola partecipazione diretta del 12,75% in H.), ma anche il valore delle azioni proprie detenute dalla società medesima, con assoggettamento all’imposta sostitutiva del 12,50%, trattandosi di partecipazione non qualificata. Pertanto, a fronte di una plusvalenza già tassata in capo al B., a mezzo di dichiarazione integrativa, pari ad euro 5.399.158,00 l’Ufficio ha rideterminato l’importo da assoggettare a tassazione in euro 5.771.275,00, con un maggior reddito imponibile pari ad euro 372.117,60 ed una maggiore imposta sostitutiva del 12,5% pari ad euro 46.514,00.
9.8. Pertanto, è stato rispettato il “principio del corrispettivo” di cui all’art. 68, comma 6, del d.P.R. n. 600 del 1973 che prevede che “le plusvalenze indicate nelle lettere c, c-bis e c.ter, del comma 1 dell’art. 67 sono costituite dalla differenza tra il corrispettivo percepito ovvero la somma od il valore normale dei beni rimborsati ed il costo o di il valore di acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla loro produzione, compresa l’imposta di successione e donazione, con esclusione degli interessi passivi”.
Gli elementi indiziari che hanno comportato l’attribuzione al contribuente B. di una ulteriore plusvalenza, oltre quella dichiarata, seppure tardivamente solo nel 2008, derivano, come correttamente accertato, con congruo giudizio di merito da parte del giudice d’appello, dalla scansione temporale delle numerose operazioni commerciali compiute dai soci della A. storica nel mese di dicembre 2006. Sono state valorizzare in tal senso le dichiarazioni rese dai soci, il procedimento penale a carico della M., la quantificazione del reale valore della cessione della A.I., fondato sulla sommatoria del valore del ramo d’azienda conferito e del marchio successivamente ceduto, il rinvenimento di un file denominato “operazione socio” seguita dal nome del contribuente, nel server della M., il compenso riconosciuto al gruppo M.
9.9.La società H. s.s. è stata, quindi, effettivamente utilizzata come mero soggetto interposto per ottenere un risparmio fiscale tramite la neutralizzazione delle plusvalenze con minusvalenze fittizie. Deve evidenziarsi che, attraverso questa operazione, sia pure realizzata attraverso una società semplice (la H. s.s.), le imposte non sono state versate né da H., né dalle due società cessionarie D. s.p.a. e Criseide s.r.l. Inoltre, pur essendo la H. era una società semplice, con conseguente applicazione del principio di “trasparenza” ex art. 5, primo comma, d.P.R. n. 917 del 1986, tuttavia va sottolineato che il B., che era socio di H. solo per il 17,65 %, con la successiva dichiarazione “integrativa” del 18 marzo 2008, ha pagato le imposte solo sulla plusvalenza “palese” di € 30.494.723,00, ma non sulla plusvalenza “latente” o “mascherata”, pari ad € 2.630.708,00; quest’ultima era individuata dalla differenza della somma di € 40.800.000, rappresentante l’effettivo valore delle partecipazioni in A., con la somma di € 38.169.292,47, dichiarata nella cessione delle quote alle due società D. s.p.a. e Criseide s.r.l. La robusta impalcatura della complessa operazione ha consentito, dunque, di nascondere la plusvalenza “latente”, poi ripresa a tassazione.
10. Né v’è stata violazione da parte del giudice di appello degli articoli 37, comma 3, del d.P.R. N. 600 del 1973, e 2697 c.c.. Secondo il ricorrente la norma sopra citata opera soltanto in presenza di un accordo simulatorio o fra tutti e tre i soggetti stipulanti il contratto, identificandosi esclusivamente nell’interposizione fittizia di persona, che necessiterebbe di un dimostrato pactum sceleris. Inoltre, non è condivisibile neppure la critica prospettata alla sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che “non è rilevante il fatto che contribuente non ha mai incassato somme aggiuntive a quelle dichiarate tassate”.
10.1. Invero, va premesso che, per questa Corte, la disciplina dell’abuso del diritto, di cui all’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, poi modificata nell’art. 10 bis della legge n. 212 del 2000, ha un perimetro che va ben al di là delle condotte ivi indicate, costituendo una sorta di principio generale che avvolge in sé tutte le condotte abusive, ove venga riscontrata la sussistenza di precisi parametri normativi. Il nuovo art. 10 bis della legge n. 212 del 2000, dunque, è intervenuto a mettere ordine in quel vasto mondo dell’abuso “atipico” di derivazione costituzionale ed unionale.
L’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, si pone, allora, come una fattispecie (di interposizione) distinta dall’abuso “atipico” sopra riportato. Tale disposizione è stata conservata dopo la riforma proprio quale indice rivelatore della illiceità fiscale delle variegate ipotesi di schermo elusivo (Cass., sez. 5, 26 novembre 2020, n. 26947).
Pertanto, mentre l’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, poi sostituito dall’art. 10 bis della legge n. 212 del 2000, rappresenta una norma “aperta” volta a ricomprendere tutte quelle fattispecie di abuso del diritto “atipico” di derivazione costituzionale ed unionale, l’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 è stato conservato, con un ambito di applicazione limitato alla “interposizione”.
10.2. Va, ancora, premesso che l’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 ricomprende al suo interno sia la fattispecie della interposizione fittizia che quella della interposizione reale.
10.3. Nell’ambito della simulazione relativa, infatti, si rinviene una ipotesi della simulazione soggettiva o interposizione fittizia di persona, che si ha quando si finge di contrarre con una persona, ma, in realtà, si vuole che gli effetti del negozio si producano nei confronti di un’altra. In questo caso tutti e tre i soggetti sono d’accordo che gli effetti del negozio si producano nei confronti di una persona diversa da quella che appare nell’atto. L’interposto, quindi, resta estraneo al contratto stesso e presta solo il proprio nome (testa di legno). L’accordo simulatorio intercorre tra l’interponente, il terzo e l’interposto (Cass., sez. 2, 23 marzo 2017, n. 7537) e può essere anche a formazione progressiva, in quanto può intervenire tra interponente ed interposto per poi essere portato a conoscenza del terzo, che vi aderisce prima o contestualmente alla stipulazione del contratto. In base alle regole della simulazione, fra i contraenti prevale la situazione voluta e, quindi, il rapporto contrattuale fa capo esclusivamente a chi è realmente parte di esso (interponente) con esclusione della parte apparente (interposto). Il terzo contraente deve dare la propria consapevole adesione all’intesa raggiunta tra interposto ed interponente assumendo i diritti e gli obblighi contrattuali nei confronti del interponente (Cass., sez. 2, 12 ottobre 2018, n. 25578).
10.4. Nella interposizione reale, invece, non vi è una simulazione o un accordo simulatorio tra le persone che prendono parte all’atto, che è effettivamente voluto. Il contratto è sempre e solo bilaterale, tra interponente ed interposto, con assoluta e totale estraneità del terzo contraente. L’interposto è, dunque, vera e propria parte del negozio, sicché non è ravvisabile un’ipotesi di simulazione. In tal caso, tutti gli effetti del contratto si producono direttamente nei confronti dei contraenti, restando del tutto indifferente per l’alienante che l’acquirente non intende acquistare per sé, ma per conto di un terzo, con cui l’alienante non entra in rapporto verso il quale non ha né obblighi né diritti. L’interposizione reale non tocca gli effetti del contratto, i quali si producono regolarmente in capo alla parte interposta. In quest’ambito, si utilizza la figura della rappresentanza indiretta, in forza del quale il mandatario sarà obbligato a ritrasferire al mandante il bene acquistato per suo conto, ma in nome proprio. Infatti, di regola, l’accordo con l’interponente concerne in particolare l’obbligo di ritrasferire il bene, successivamente all’acquisto (Cass., sez. 5, 21 marzo 2016, n. 5507, in tema di intestazione fiduciaria di titoli azionari o di quote di partecipazione societaria; Cass., sez. 1, 8 settembre 2015, n. 17785).
10.5. Per questa Corte, poi, l’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 non esaurisce la sua portata esclusivamente all’ipotesi della simulazione relativa, nell’ambito della quale può comprendersi anche l’interposizione fittizia, ma si estende anche ad operazioni elusive costituite da operazioni effettive e reali, come avvenuto nel caso in esame nella cessione delle quote di partecipazione dalla A. storica alla H. s.s., che le ha poi rivendute dopo pochi giorni alle società D. s.p.a e C. S.r.l.
Pertanto, è pienamente valido l’accertamento con il quale il Fisco imputa al contribuente i redditi che siano formalmente di un soggetto interposto (nella specie la H. s.s.), quando in base a presunzioni gravi, precise e concordanti risulti che il contribuente ne è l’effettivo titolare, senza che si debba distinguere tra interposizione fittizia o reale (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27625). L’art. 37, terzo comma (” sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”) è norma, infatti, che si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, anche a quella reale, né presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consente di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta, potendo l’elusione attuarsi anche mediante operazioni effettive e reali (Cass., sez.5, 15 novembre 2013, n. 25671; Cass., sez. 5, 15 ottobre 2014, n. 21794). Tale disposizione, infatti, intende stigmatizzare quelle operazioni volte ad aggirare la normativa fiscale, a prescindere dalla natura simulata o reale della stessa, e ciò anche alla luce del più generale principio del divieto di abuso del diritto (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27625, cit). L’art. 37, comma terzo, d.P.R. n. 600 del 1973, considera elusive le operazioni che, simulate o reali, costituiscono il mezzo per aggirare l’applicazione della normativa fiscale sfavorevole (Cass., sez. 5, 29 luglio 2016, n. 15830).
Costituisce, infatti, principio consolidato quello per cui, in tema di accertamento di imposte sui redditi, la disciplina dell’interposizione, prevista dal comma terzo dell’art. 37 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale costituente il presupposto d’imposta. Ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito della quale può ricomprendersi l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali (Cass., sez. 5, 21 dicembre 2018, n. 33221; Cass., 5408/2017; Cass. Civ., 10 gennaio 2013, n. 449; tutte in tema di fattispecie realizzate con donazione-vendita di terreni da genitori a figli).
11. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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