CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 luglio 2019, n. 20460
Tributi – Ritenute alla fonte – Ritenute di imposta su royalties – Contratto di merchandising – Possibilità di utilizzare il marchio della concedente – Qualificazione del contratto
Rilevato che
A seguito di verifica effettuata dalla G.d.F. nei confronti della J. M. s.r.l., successivamente denominata D. s.r.l., l’A.d.E. di Torino emetteva avvisi di accertamento ai fini Irpeg ed Iva per l’anno 2003 ed avviso di contestazione sanzioni per omessa esecuzione da parte della società di ritenuta di acconto sulle royaities versate alla società di diritto olandese The J. Corporation Holland BV in esecuzione di un contratto di “merchandising” stipulato fra le due società, versamento che era effettuato ad una consociata della J. con sede in Svizzera. La società ed il suo legale rapp.te S. L. G. impugnavano tali avvisi, sostenendo che in realtà il contratto da cui scaturiva l’obbligo di versamento delle royaities, pur denominato di “merchandising” era in realtà da qualificarsi come contratto di procacciamento di affari, onde le somme corrisposte in forza di tale accordo andavano qualificate come provvigioni. In subordine, la D. s.r.l. sosteneva che le supposte royalties andavano assoggettate alla ritenuta ridotta del 5% sul 75% del loro ammontare, in applicazione della Convenzione italo-svizzera contro la doppia imposizione; analoga convenzione con analogo contenuto era stata, del resto, stipulata anche fra Italia ed Olanda.
La CTP, previa riunione dei ricorsi proposti separatamente, nel costituito contraddittorio con l’Ufficio, accoglieva il ricorso. L’appello proposto dall’Agenzia veniva rigettato dalla CTR del Piemonte con sentenza n. 27/29/11 del 29.3/14.4.11.
Avverso tale decisione propone ricorso l’A.d.E. affidato a due motivi. La società contribuente D. s.r.l. in liquidazione ed il S. sono rimasti intimati.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e degli artt. 1 e 6, comma 3, d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.
1.1. La ricorrente lamenta che la CTR ha rigettato l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso introduttivo avente ad oggetto l’atto di contestazione delle sanzioni conseguenti all’omesso versamento delle ritenute alla fonte a titolo di imposta, rilevando che la sospensione del termine di decadenza per l’impugnazione dell’avviso di accertamento, conseguente alla presentazione della istanza del contribuente volta a richiedere la formulazione della proposta di accertamento con adesione ex art. 6, comma 3, d.lgs. n. 218/97, doveva intendersi estesa anche all’atto di contestazione delle sanzioni in quanto il provvedimento sanzionatorio aveva natura accessoria ed era dipendente dall’atto impositivo.
Sostiene, invece, l’Agenzia fiscale che la sospensione del termine di impugnazione, conseguente alla presentazione della istanza di formulazione della proposta di accertamento con adesione, avrebbe ad oggetto esclusivamente gli atti impositivi, sicché, essendo stato contestato l’illecito tributario con atto separato notificato il 7.4.2008, la mancata impugnazione dello stesso nel termine stabilito dall’art. 21 d.lgs. n. 546/92 avrebbe reso il provvedimento sanzionatore definitivo.
1.2. Il motivo è infondato.
Su analoga questione questa Corte si è già espressa (cfr. Cass. Sez. 5, n. 18377 del 18/09/2015, Rv. 636553 – 01), enunciando il principio secondo cui « in tema di accertamento con adesione, la presentazione da parte del contribuente della relativa istanza determina, a norma degli artt. 6 e 12 del d.lgs. n. 218 del 1997, la sospensione di novanta giorni del termine di decadenza per l’impugnazione oltre che dell’atto impositivo anche del provvedimento sanzionatorio, pur se adottato e notificato con atto separato rispetto all’avviso di accertamento, ove, trattandosi di una violazione sostanziale, la condotta risulti strumentale all’inadempimento dell’obbligazione tributaria».
Nell’articolata motivazione della citata decisione, questa Corte ha, fra l’altro, osservato:
«Pertanto, ravvisato il nesso di pregiudizialità tra accertamento del tributo ed irrogazione della sanzione, la “ratto legis” che assiste il procedimento di accertamento con adesione (che è quella di risolvere preventivamente i conflitti potenziali con i contribuenti assicurando una entrata certa ed immediata all’Erario, evitando inutile esercizio di attività amministrativa e le difficoltà connesse ai tempi del contenzioso) avuto riguardo agli effetti e benefici di cui può fruire il contribuente aderente, tra cui specificamente la riduzione delle sanzioni collegate al tributo, impone di ricondurre nella disciplina sospensiva del termine di decadenza di cui all’art 21 Dlgs n. 546/1992 anche il provvedimento sanzionatorio, quando anche adottato e notificato separatamente dall’avviso di accertamento, sempre che la violazione finanziaria contestata integri una condotta materiale strumentale alla evasione della imposta accertata».
E ancora: «Alla stregua degli indicati criteri ermeneutici appare del tutto avulsa dal contesto normativo la tesi interpretativa restrittiva prospettata dalla Agenzia delle Entrate, fondata sul mero argomento letterale del testo dell’art. 1 del d.lgs. n. 218/97: la norma, infatti, si limita a definire il perimetro di applicazione della “adesione” del contribuente “secondo le disposizioni seguenti”, in base al criterio oggettivo della natura del tributo (comma 1: imposte sui redditi ed imposta sul valore aggiunto; comma 2: imposte sulle successioni e donazioni, di registro, ipotecaria e catastale, INVIM), e, se interpretata letteralmente come volta ad escludere i provvedimenti sanzionatori delle violazioni relative a quei tributi, verrebbe a determinare una ingiustificata disparità di trattamento nell’applicazione del medesimo “procedimento di accertamento con adesione”, tra i contribuenti cui è stato notificato un atto impositivo contestuale alla sanzione e quelli invece cui sono stati notificati atti separati, onerati della previa proposizione dell’opposizione all’atto di contestazione dell’illecito, esclusivamente al fine di poter richiedere la riduzione della sanzione in esito al procedimento di adesione (onere di introduzione del giudizio che viene ad integrare un adempimento non richiesto dal procedimento disciplinato dal d.lgs. n. 218/1997 e che viene ad innescare un Inutile contenzioso avanti il Giudice tributario in palese antitesi con la “ratio legis” del decreto legislativo volta a prevenire proprio tale contenzioso, con pregiudizio ai principi costituzionali di pari trattamento di situazioni Identiche e di efficienza dell’azione amministrativa ex artt. 3 e 97 Cost.)».
Essendo pacifico, nel caso che qui occupa, che si sia trattato di violazione sostanziale strumentale all’inadempimento dell’obbligazione tributarla (omesso versamento) e non meramente formale, il Collegio ritiene di condividere e di dare continuità al delineato orientamento interpretativo.
Il motivo, pertanto, deve essere rigettato.
2. Il secondo motivo di ricorso concerne la censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ. e dell’art. 25, ultimo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., nonché il vizio di insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.
2.1. Secondo la ricorrente, la CTR ha erroneamente ritenuto che il contratto di merchandising avente efficacia per gli anni 1998/2000 abbia poi mutato oggetto a seguito dell’intervenuto rinnovo, connotandosi quale contratto atipico di procacciamento di affari, in ragione delle modalità di determinazione dei corrispettivi riconosciuti dalla società D. alla società olandese e del ruolo attivo assunto dalla stessa compagine olandese nei termini che si preciseranno meglio nella trattazione. Conseguentemente, la CTR sarebbe incorsa nel doppio vizio di violazione dei criteri legali di interpretazione del contratto (con particolare riferimento all’art. 1363 cod. civ., secondo cui le clausole contrattuali vanno interpretate le une per mezzo delle altre) e di insufficiente motivazione.
2.2. Preliminarmente, in punto di ammissibilità del motivo, vanno richiamati i principi più volte enunciati alla Corte (cfr. Sez. 3, n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649 – 01) secondo cui «la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra».
In tale ottica, va osservato che il ricorso supera tale vaglio in quanto rispettoso dei criteri indicati, oltre che del principio di autosufficienza.
2.3. Ciò posto, il motivo è complessivamente fondato.
Al fine di meglio inquadrare la sostanza della questione, occorre premettere quanto segue.
Fra le parti veniva stipulato un contratto di “merchandising”, così letteralmente denominato, in base al quale (art. 2) «la concedente (la società olandese The J. Corporation Holland BV) concede alla licenziataria (J. M. s.r.l.) la possibilità di utilizzare il marchio J. di cui gode del diritto di sfruttamento».
Il contratto aveva validità per tre anni (1998-1999-2000) con facoltà di rinnovo alla scadenza.
Il corrispettivo era stabilito in due voci autonome: a) L.50 milioni una tantum ed a fondo perduto; b) royalties pari al 7% del fatturato annuo netto realizzato dalla licenziataria a carico della clientela segnalata, o il cui contratto era stato favorito, dalla concedente, con previsione di un ammontare minimo garantito indipendente dal fatturato determinato anno per anno.
Con delibera del C.d.A. della J. M. s.r.l. del 13 novembre 2000, si deliberava «di accettare il rinnovo del contratto di merchandising sino al 31 dicembre 2003 alle condizioni prima d’ora pattuite così come proposto dalla società concedente», conferendo a quest’ultima la possibilità di rivendicarne i diritti, anche in termini di addebito dei corrispettivi, per il tramite di atre società del gruppo della concedente, informando la licenziataria.
Sempre a fini di migliore inquadramento delle questioni problematiche sottese al ricorso, è opportuno ricordare che il merchandising è il contratto attraverso il quale il titolare di un segno distintivo (merchandisor o licenziante) cede ad un altro imprenditore (merchandisee o licenziatario) il diritto alla sua utilizzazione per contrassegnare prodotti o caratterizzare servizi in un settore diverso rispetto a quello in cui il segno ha assunto notorietà, al fine di trarne un tornaconto economico, generalmente realizzato tramite la previsione di una percentuale sui guadagni del licenziatario (royalties) e talora con la previsione di un compenso minimo garantito per il titolare, ovvero la possibilità per quest’ultimo di acquistare a condizioni di favore i prodotti commercializzati dal licenziatario.
2.4. Ciò posto, nell’interpretare le manifestazioni di volontà sopra evidenziate, la CTR ha affermato che:
1) non vi è dubbio che le parti abbiano definito il contratto come “merchandising” e che, al di là della definizione nominalistica adottata, abbiano chiaramente espresso che oggetto del contratto era la possibilità per la licenziataria di fare uso del marchio J.; in tal senso, la CTR ha precisato che rientrava nel contratto anche l’uso della denominazione dell’impresa concedente nell’attività svolta in concreto dalla licenziataria e nei servizi dalla stessa prestati (servizi di installazione, revisione e manutenzione di impianti elettrici ed industriali). La conclusione per tale via attinta è che, «pertanto, non può negarsi che il contrato in questione per una sua parte preveda ¡a concessione dell’uso di un marchio e possa definirsi di merchandising»;
2) tuttavia, la concessione del marchio veniva contrattualmente regolata < attraverso un corrispettivo fisso una tantum (L.50.000.000), nonché attraverso un ammontare minimo garantito indipendente dal fatturato, determinato annualmente per anni 3.
Per gli anni successivi, quale era il 2003, oggetto di accertamento, la licenziataria era obbligata soltanto a corrispondere il 7% sul fatturato relativo alle prestazioni effettuate utilizzando le informazioni fornite dalla concedente olandese («clientela segnalata, o il cui contratto è stato favorito, dalla concedente»). In pratica, la società olandese, nel fornire componenti meccaniche o elettriche ai propri clienti italiani, trasmetteva i nominativi degli stessi alla J. M.- D. s.r.l., la quale poteva così offrire a tale clientela i propri servizi per il M.o dei componenti e la successiva assistenza.
In tale fase, dunque, era previsto che la società olandese non solo concedesse l’uso del marchio, ma, altresi, si attivasse ulteriormente, indicando i suoi clienti e favorendo la conclusione con i medesimi dei contratti di M.o ed assistenza da parte della società italiana;
3) quindi, secondo la CTR, ricorreva nella specie uno schema negoziale complesso, in cui si potevano ravvisare «due distinti momenti»: il primo riguardava la concessione dell’uso del nominativo-marchio J., retribuito con la somma fissa di 50 milioni di lire e con un ammontare minimo garantito per i primi tre anni; il secondo integrava un contratto atipico di intermediazione o procacciamento di affari, retribuito a percentuale sul fatturato dei contratti conclusi per l’attivazione della società concedente;
4) le somme erogate alla società olandese nel 2003 andavano qualificate come provvigioni su intermediazione e, pertanto, non dovevano essere assoggettate alla ritenuta di acconto indicata negli atti di accertamento.
2.5. Va immediatamente precisato che dalla descritta motivazione non emerge l’affermazione che nel rinnovo contrattuale 2000-2003 fosse stata espunta dall’oggetto del contratto la licenza d’uso del marchio e che, conseguentemente, l’oggetto del contratto si fosse ridotto ad un mero accordo di procacciamento d’affari, come pure affermato dall’Agenzia. Emerge, invece, che l’accordo, ad avviso dei giudici di appello, contemplava le due pattuizioni sopra indicate e che, peraltro, le somme tassate in realtà andavano a compensare soltanto il procacciamento d’affari, non soggetto a ritenuta nella misura indicata negli atti di accertamento.
In relazione a tale specifico passaggio motivazionale, va rilevato che la CTR ha ritenuto, in modo sostanzialmente apodittico, che quanto pagato nel 2003 fosse ascrivibile esclusivamente all’attività di procacciamento d’affari, in quanto le royalties per l’uso del marchio erano già state tutte pagate nei primi tre anni: così facendo, ha finito per introdurre una distinzione che non è ravvisabile nel contratto in esame, in cui il corrispettivo, pur articolato, appare comunque riferito ad una controprestazione unitaria.
In tale prospettiva, è vero che una parte del corrispettivo era determinata a percentuale calcolata soltanto sul fatturato dei clienti “segnalati” dalla concedente; ma ciò non toglie che:
a) anche nei confronti di tali clienti “segnalati” la D. s.r.l. utilizzava pur sempre il marchio J. e ne sfruttava l’appeal commerciale, onde la CTR avrebbe dovuto indicare le ragioni per cui le royalties non potevano costituire, anche in tal caso, il corrispettivo del merchandising;
b) l’attività di procacciamento poteva essere vista, in realtà, come una prestazione accessoria e strumentale alla concessione del marchio, che il contratto considerava funzionale esclusivamente quale criterio di calcolo di parte del corrispettivo.
2.6. In tale ottica, la CTR incorre nei denunciati vizi non spiegando, attraverso un iter logico-dimostrativo rispettoso dei criteri di interpretazione legale evocati oltre che logicamente coerente ed esaustivo, le ragioni per cui la concessione dell’uso del nominativo-marchio J. sarebbe stata retribuita soltanto con la somma fissa di L.50.000.000 corrisposta una tantum nel 1997 e con un ammontare minimo garantito per i primi tre anni (1998-2000) e non anche con le royalties maturate durante il periodo di rinnovo, vieppiù alla luce della oggettiva considerazione che le parti avevano inteso espressamente rinnovare il precedente accordo nella sua integralità.
3. In conclusione, il motivo, nei termini così individuati, appare fondato sotto entrambi i profili di legittimità evocati.
La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla CTR del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà altresì alla decisione in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla CTR del Piemonte, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.
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