CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 maggio 2018, n. 13604
Imposte dirette – IRPEF – Accertamento – Redditometro – Incremento reddituale – Procedimento
Ritenuto in fatto
1. Con accertamento sintetico l’Agenzia delle entrate rilevava nei confronti di Z. A. e M. A., per l’anno di imposta 1996, ai sensi dell’art. 38 comma 4 del d.p.r. 600 del 1973, ai fini Irpef, un maggior reddito di lire 316.307.000, pari ad € 163.359,00. In particolare, la sussistenza del maggior reddito veniva desunta dal possesso di due autoveicoli e da spese sostenute per incrementi patrimoniali per lire 1.833.000.000 nel periodo 1995/2000.
2. Avverso tale avviso proponevano ricorso i coniugi rilevando che l’Ufficio non aveva tenuto conto del fatto che gli incrementi patrimoniali erano stati realizzati anche per la disponibilità di sovvenzioni bancarie per complessive lire 1.350.0. 000, pari ad € 697.216,81 e per non avere tenuto conto del reddito prodotto dall’intero nucleo familiare.
3. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso dei contribuenti.
4. Presentava appello l’Agenzia delle entrate evidenziando che vi era stato un errore di calcolo, ma che, comunque, restava un maggior reddito di € 45.878,59.
5. La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate.
6. Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione l’Agenzia delle entrate.
7. Resistevano i contribuenti notificando il controricorso.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce l’omessa , insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., in quanto la Commissione tributaria regionale non ha correttamente valutato la circostanza che nel giudizio di appello l’Agenzia ha provveduto a ridurre le proprie pretese, tenendo conto delle sovvenzioni bancarie per lire 1.350.000.000, quindi € 697.216,81, residuando però un incremento reddituale di € 45.878,59 (somma già divisa per i sei anni di accertamento dal 1996 al 2001), dato dalla differenza fra gli incrementi complessivi di € 972.488,35 e le sovvenzioni bancarie per € 697.216,81. Sulla determinazione di tale, pure se ridotto, incremento patrimoniale, i contribuenti non hanno fornito la prova contraria.
1.1. Tale motivo è fondato.
Invero, a fronte della riduzione della pretesa tributaria in sede di appello da parte della stessa Agenzia delle entrate, la Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello della amministrazione, rilevando che gli errori commessi minavano in radice la legittimità dell’accertamento sintetico (“Più chiaramente, pur trattandosi di presunzione legale relativa il contribuente non ha potuto fornire alcuna prova contraria, essendosi fondato l’accertamento su documenti già in possesso dell’Ufficio che, peraltro, ha espressamente riconosciuto nell’atto di appello l’erroneità nella valutazione dell’ammontare degli incrementi patrimoniali e quindi dei conseguenti calcoli che hanno condotto all’adozione dell’iter procedimentale proprio dell’accertamento in base al redditometro. Il che significa che i criteri e le modalità indicati nei relativi D.M. non sono stati osservati per cui il ricorso al procedimento adottato dall’Ufficio non può ritenersi legittimo. Pertanto, non può ritenersi provato che il reddito dichiarato si discosti da quello accertabile in quanto non correttamente quantificato con l’atto impugnato per cui la pretesa non risulta fondata“).
La motivazione della Commissione tributaria regionale è sicuramente illogica e contraddittoria.
Invero, la mera riduzione dell’importo dovuto dai contribuenti, pienamente giustificata dalla Agenzia delle entrate, in ragione delle sovvenzioni bancarie ricevute dagli stessi, non può inficiare del tutto l’accertamento, ma ne può consentire una rideterminazione, nella specie correttamente effettuata dalla Agenzia delle entrate in sede di appello.
Infatti, si rileva che l’Agenzia delle entrate si è limitata con l’atto di appello a diminuire le proprie pretese, in quanto dalle spese per incrementi patrimoniali pari ad € 972.488,35, ha correttamente detratto, a seguito del ricorso dei contribuenti, la somma di € 275.271,54, relativa al finanziamento ottenuto dalle banche, residuando la somma di € 275.271,54, il cui sesto è di € 45.878,59 (tenuto conto dei sei anni di accertamento dal 1996 al 2001) e rappresenta un incremento reddituale che incide sulla ricostruzione sintetica del reddito operata dall’ufficio.
La mera riduzione della pretesa non può portare all’annullamento dell’intero importo contenuto nell’avviso di accertamento, dovendo il Giudice tributario accertare la legittimità di una pretesa eventualmente ridotta, come nel caso in esame.
Per la Suprema Corte, infatti, poiché anche nel processo tributario le parti conservano la disponibilità dei diritti in contestazione, qualora l’Amministrazione finanziaria si avveda in corso di causa che è corretta e da accogliere una eccezione del contribuente relativa all’erroneo computo del credito d’imposta indicato nell’avviso impugnato, non per questo deve rinnovare l’intero procedimento amministrativo di accertamento, avendo il potere – dovere di ridurre la domanda originaria. Tale riduzione della domanda, non equivalendo a diverso e autonomo accertamento in via di rettifica da parte dell’Amministrazione, è ammissibile anche se operata per la prima volta in 1^3 grado d’appello, con conseguente dovere del giudice di valutare la pretesa V1 fiscale residua (Cass.Civ., 21 giugno 2017, n. 15413; Cass.Civ., 18 luglio 2003, n. 11265).
Si è, infatti, precisato che alla natura del processo tributario – il quale non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra i processi di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio – discende che ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte – nel caso deciso dalla Corte la sentenza impugnata – a fronte dell’avvenuta rideterminazione dell’imponibile da parte dell’ufficio, in occasione della costituzione in giudizio, in somma minore di quella già determinata in sede di accertamento sintetico del reddito – si era limitata ad annullare l’avviso di accertamento impugnato, sul rilievo che non fosse compito dei giudici tributari procedere “alla liquidazione delle imposte e delle relative penalità”. Enunciando il principio in massima, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione, osservando come la rideterminazione dell’imponibile operata dall’ufficio costituisse una semplice diminuzione della maggiore pretesa tributaria contenuta nell’atto impugnato e, dunque, una mera riduzione del “quantum” oggetto del contendere tra le parti, sul quale il giudice avrebbe dovuto comunque giudicare – (Cass.Civ., 12 luglio 2006, n. 15825).
Allo stesso modo, è del tutto illogica la parte della motivazione della sentenza, in cui la Commissione tributaria regionale indugia nel sottolineare che, in realtà, i documenti erano tutti nella disponibilità dell’amministrazione, sicché i contribuenti non erano stati posti in grado di fornire la prova contraria alle risultanze dell’accertamento sintetico (cfr. motivazione della sentenza della commissione regionale “Trattandosi, però, di presunzioni legali relative, il contribuente può fornire prova contraria ai sensi dell’espressa previsione contenuta nel su cit. art. 38. Nel caso considerato, poiché l’Ufficio ha proceduto in base a documenti in possesso dello stesso (documentazione bancaria e dati risultanti dalla dichiarazione congiunta del contribuente con il coniuge) non ricorre l’ipotesi prevista dal legislatore (commi 5 e 5 cit. art. 38) in cui il contribuente avrebbe potuto produrre idonea documentazione per dimostrare le proprie ragioni e quindi contrastare la pretesa erariale. Più chiaramente, pur trattandosi di presunzione legale relativa il contribuente non ha potuto fornire alcuna prova contraria essendosi fondato l’accertamento su documenti già in possesso dell’Ufficio….”)
Pertanto, si rileva che, una volta accertato in modo sintetico il reddito da parte dell’Agenzia delle entrate, sussisteva soltanto una presunzione legale relativa, avverso la quale i contribuenti avrebbero potuto fornire prova contraria, a prescindere dalla circostanza che l’ufficio avesse già esaminato i conti correnti bancari degli stessi.
Inoltre, la mera riduzione della pretesa erariale, e quindi l’abbattimento del quantum dell’accertamento sintetico, non poteva, di certo, comportate solo per questo l’illegittimità dell’intero accertamento.
Infatti, la disponibilità di beni e redditi costituisce una presunzione di capacità contributiva da qualificare “legale”, ai sensi dell’art. 2728 c.c., perché è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto (certo) di tale disponibilità la esistenza di capacità contributiva (Cass.Civ., 4 febbraio 2011, n. 2726, in motivazione).
Inoltre, il giudice tributario, una volta accertata la effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’ufficio, non ha il potere di togliere a tali elementi la capacità contributiva che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma.
Anche se la documentazione era stata analizzata dall’ufficio ed era nella sua disponibilità, ciò non impediva ai contribuenti di fornire la prova contraria all’assunto dell’amministrazione con ulteriori e diversi mezzi di prova.
2. La sentenza impugnata, quindi, va cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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