CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2021, n. 37440

Tributi – Accertamento – Accesso breve – Omessa indicazione di costi nello studio di settore – Ricalcolo studi di settore – Accertamento analitico-induttivo – Presunzioni semplici – Legittimità

Rilevato

1. Il contribuente, odontoiatra, veniva attinto in data 23.12.2010 da un avviso di accertamento con cui l’Ufficio rideterminava, per l’anno d’imposta 2005, il reddito di lavoro autonomo in euro 102.395,00 contro i 17.563,00 euro dichiarati, con conseguente ripresa a tassazione ai fini Irpef e Irap, addizionali regionale e comunale, oltre interessi e sanzioni. Segnatamente l’Amministrazione finanziaria effettuava un accesso breve presso la sede lavorativa del contribuente, ivi acquisendo documentazione contabile al fine di verificare i costi e le spese sostenute per le prestazioni odontoiatriche. Acquisiti detti costi non riportati nello studio di settore, l’Ufficio rielaborava lo studio evidenziando incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli determinati dall’Ufficio.

2. Il contribuente impugnava l’atto impositivo avanti la Commissione tributaria provinciale, ivi svolgendo plurime censure. I due gradi di merito esitavano in senso favorevole all’Ufficio, con conseguente conferma della legittimità dell’atto impositivo.

3. Insorge con ricorso il contribuente che svolge tre motivi di ricorso, cui replica l’Avvocatura generale dello Stato con tempestivo controricorso.

Il contribuente deposita memoria.

Considerato

1. Con il primo motivo il ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, primo comma, lett. d) d.P.R. n. 600/1973 e 62 bis e sexies del d.l. 30.08.1993 n. 331, convertito con modificazioni dalla L. 29.10.1993 n. 427, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.

1.1 In buona sostanza il contribuente lamenta l’erroneità della sentenza impugnata per non essersi la CTR avveduta della natura dell’accertamento condotto. Afferma, in particolare, che l’Ufficio avrebbe rideterminato i ricavi del contribuente mediante l’applicazione dei soli studi di settore con conseguente illegittimità dell’accertamento per assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti. Deduce altresì che la CTR avrebbe errato nel ritenere l’atto impositivo come avente natura “mista” essendosi l’Ufficio limitato a inserire i dati contabili – reperiti dalla documentazione acquisita – negli studi di settore, poi effettivamente adoperati per portare a compimento l’accertamento. In altri termini, i dati contabili erano stati utilizzati solo per “completare” gli studi di settore, ma l’accertamento era stato “di fatto” compiuto con il solo uso di questi ultimi.

2. Con il secondo motivo di ricorso il contribuente denunzia nuovamente la violazione e la falsa applicazione degli artt. 39, primo comma, lett. d) d.P.R. n. 600/1973 e 62 bis e sexies del d.l. 30.08.1993 n. 331, convertito con modificazioni dalla l. 29.10.1993 n. 427 in riferimento ex art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. ma sotto un diverso profilo.

2.1 Segnatamente, muovendo dallo stesso presupposto, ovverossia l’accertamento condotto unicamente sulla scorta degli studi di settore, la parte ricorrente critica la sentenza nella parte in cui la CTR ha ritenuto non obbligatorio il contraddittorio preventivo.

Il Giudice d’appello avrebbe infatti errato nel qualificare l’accertamento condotto come di natura “mista”, ritenendo pertanto non dovuto il contraddittorio, peraltro obbligatorio solo nelle ipotesi di accertamenti standardizzati.

3. I due motivi, strettamente connessi tra loro, possono essere trattati congiuntamente e sono entrambi infondati.

3.1 In materia questa Corte ha affermato che in caso di accertamento condotto con il metodo analitico-induttivo «… la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non consente di prescindere del tutto dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore solo a completare le lacune riscontrate, utilizzando anche presunzioni semplici, rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ.» (Cfr. Cass., V, n. 7290/2020). È stato inoltre affermato che «in tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dal d.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, primo comma, lett. d), sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’Ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse (cfr. Cass. nn. 27804/2018, Cass. 30/10/2018, n. 27552; Cass., sez. 5, n. 33508 del 2018; conf.: n. 8923/2018, 22347/2018; 6918/2013)» (Cfr. Cass., V, n. 7382/2021). Invero «Il metodo di accertamento “misto”, a differenza del metodo induttivo puro, ha ad oggetto la ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi e passivi, non del reddito nella sua totalità. Pertanto, nel metodo “misto” la determinazione del reddito è effettuata sulla base delle risultanze del bilancio, discostandosi dalle stesse, ma senza contestarne l’attendibilità complessiva e solo per individuare talune voci che il contribuente ha erroneamente indicato. Deve osservarsi, allora, che nel metodo misto ovvero analitico induttivo, come sostenuto dalla dottrina, la determinazione del reddito è effettuata nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, di cui risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza» (Cfr. Cass., V, n. 7025/2018).

3.2 Nella fattispecie in esame l’Ufficio ha eseguito un accesso presso la sede della società all’esito del quale è stata appurata “l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione” tanto da aver utilizzato quei dati ulteriori per portare a compimento la verifica fiscale nei confronti del contribuente.

Conseguentemente è indubbia la natura “mista” dell’accertamento condotto dall’Amministrazione finanziaria.

4. Da quanto sopra consegue anche l’infondatezza del secondo motivo giacché «Va premesso che non è dubbio il fatto che l’accertamento in questione sia di tipo analitico – induttivo ex art. 39, primo comma, lett. d) d.P.R. n.600 del 1973, nel cui quadro l’uso degli studi di settore è stato solo lo strumento per determinare la misura della ripresa. A proposito del rapporto tra contraddittorio endoprocedimentale ex art.12 Statuto e contraddittorio finalizzato all’adesione in presenza di studio di settore va rammentato che: «La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale fase, infatti, quest’ultimo ha la facoltà di contestare l’applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l’ufficio – ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte – ad integrare la motivazione dell’atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento. Tuttavia, ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l’ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri.» (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15859 del 12/11/2002, Rv. 558424 – 01; principio accolto da Cass. Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009 e, più di recente, reiterato da Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9484 del 12/04/2017). – Orbene, come sopra visto, nella fattispecie non si verte in un caso di accertamento da studio di settore “puro”, bensì “misto” ossia nel quale lo scostamento dagli indici parametrici è soltanto uno degli elementi probatori che basano la pretesa creditoria fiscale, invero nemmeno quella principale, essendolo piuttosto decisiva antieconomicità” della gestione aziendale. Ciò esclude che trovi applicazione nella fattispecie la disciplina specifica dettata per gli studi di settore circa il contraddittorio finalizzato all’adesione, invocato ad abundantiam dall’Agenzia. Nella fattispecie pacificamente vi è stato un accesso istantaneo, in data 13.5.2008 e, dunque, benché esso sia stato diretto alla mera acquisizione di documentazione, l’art.12, comma settimo, dello Statuto trova applicazione. Infatti, la Corte ha già chiarito anche di recente che «Il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma settimo, della l. n. 212 del 2000 decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo.» (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 1497 del 23/01/2020, Rv. 656674 – 01). La fattispecie dev’essere dunque sussunta nella disciplina generale in materia di contraddittorio endoprocedimentale preventivo dettata dall’art.12, l. n. 212 del 2000, governata dall’autorevole interpretazione datane dalle sentenze delle Sez. UU, n. 24823 del 09/12/2015 e n. 18184 del 29/07/2013. Il precipitato di tali principi giurisprudenziali è nel senso che va escluso un obbligo generalizzato e indiscriminato di contraddittorio endoprocedimentale» (Cfr. Cass., V, n. 1156/2021, Cass., V, n. 7584/2020).

I due motivi sono dunque infondati e vanno disattesi.

5. Con il terzo motivo, svolto in via subordinata, il contribuente avanza censura ex art. 360 primo comma, n. 3 c.p.c. per violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 53 Cost., 7 e 10 I. 27.07.2000 n. 212. Sostiene che l’obbligo del contraddittorio preventivo, già riconosciuto a livello unionale, avrebbe trovato conferma anche nella giurisprudenza di questa Corte, in primis nella pronuncia a Sezioni Unite n. 19667/2014.

Anche il terzo motivo è infondato.

6. L’orientamento di questa Corte richiamato dal contribuente ha invero trovato a sua volta riforma nella successiva pronuncia di questo Giudice, parimenti resa a Sezioni Unite n. 24823/2015, con cui è stato affermato il seguente principio di diritto «Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto». Tale principio è ormai divenuto ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che «Occorre precisare che il contradditorio endoprocedimentale preventivo non è principio generale dell’azione amministrativa tributaria, bensì adempimento procedurale da esperire ove testualmente previsto dal legislatore sotto comminatoria di particolare sanzione invalidante. Più in particolare, va ricordato che le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24823), premesso che l’art. 12, comma settimo, della l. n. 212/2000 si applica ai soli casi di accesso ed ispezioni e verifiche nei tributi armonizzati, questi ultimi soggetti al diritto dell’Unione europea, hanno chiarito che «in tema di tributi c.d. non armonizzati, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi cd. armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto» (tra la successiva giurisprudenza conforme si vedano, tra le altre, Cass. sez. 5, 3 febbraio 2017, n. 2875; Cass. sez. 6-5, ord. 20 aprile 2017, n. 10030; Cass. sez. 6-5, ord. 5 settembre 2017, n. 20799; Cass. sez. 6-5, ord. 11 settembre 2017, n. 21071; Cass. sez. 6-5, ord. 14 novembre 2017, n. 26943).» (Cf. Cass., V, n. 20597/2021).

Anche il terzo motivo va pertanto disatteso.

7. In conclusione il ricorso deve essere respinto.

8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle Entrate, che liquida in €-quattromilacento/00, oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 115/2002 la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.