CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2022, n. 35234
Lavoro – CCNL imprese esercenti servizi di telecomunicazione – Appalto di manodopera – Genuinità – Esclusione – Rapporto di lavoro subordinato – Licenziamento orale – Illegittimità – Tutela reintegratoria
Fatti di causa
1. Con ricorso depositato il 4.6.2008, C. M. conveniva davanti al Tribunale di Lecce la E. s.r.l. e la M. s.p.a., chiedendo che venisse dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra lui e la seconda società, o, in via gradata, in solido con E., ovvero, in via ulteriormente subordinata, con la sola E., sin dall’inizio del rapporto di collaborazione a progetto con quest’ultima società; chiedeva, inoltre, previa declaratoria di annullamento del licenziamento orale dalla stessa intimato in data 31.12.2007, che venisse ordinata la sua reintegrazione nelle proprie mansioni; in via alternativa, e previa declaratoria di inesistenza/inefficacia del provvedimento espulsivo, che venissero ordinati il ripristino del rapporto di lavoro e la reintegrazione nelle proprie mansioni al fine di consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato in applicazione del CCNL di settore, con condanna delle società resistenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese di causa.
2. Costituitesi entrambe le convenute, contestando tali domande, con sentenza resa il 10.3.2016, il Tribunale adito così provvedeva: a) dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra C. M. e M. s.p.a. dal
3.1.2005 con mansioni di III livello CCNL per le imprese esercenti servizi di telecomunicazione; b) condannava la M. s.p.a. a ripristinare il rapporto medesimo e a corrispondere al ricorrente il risarcimento del danno per l’importo pari alla retribuzione globale di fatto del III livello di detto CCNL, maturata dal 18.1.2008 fino all’effettivo ripristino del rapporto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo; c) condannava la M. alla rifusione delle spese processuali, in favore del ricorrente.
3. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Lecce rigettava l’appello che la sola M. aveva interposto contro la decisione di primo grado; condannava l’appellante al pagamento delle spese del secondo grado, come liquidate e distratte in favore del difensore dell’appellato; dichiarava, inoltre, che sussistevano i presupposti per il versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione.
4. Per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale, nel respingere tutti i sette motivi d’appello di M. s.p.a., confermava che le prove assunte in primo grado portavano ad escludere che il rapporto fra M. e E. fosse inquadrabile nell’ambito di un appalto genuino di manodopera, come invece sostenuto dall’appellante, nonché l’insussistenza di validi contratti a progetto apparentemente intercorsi tra l’attore e la E.; confermava, infine, essersi in presenza di un licenziamento orale del C..
5. Avverso tale decisione, la M. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
6. L’intimato C. M. ha resistito con controricorso.
7. Entrambe le parti hanno prodotto memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo articolato motivo, la ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione degli articoli 27 e 29, D.Igs. n. 276/2003, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3) c.p.c.”. Deduce di ravvisare nella sentenza impugnata <l’errata applicazione dell’art. 29, D.Igs. n. 276/2003 ove il Giudice erroneamente esclude la genuinità dell’appalto, in particolare stravolgendo il significato giuridicoeconomico del concetto di “rischio d’impresa”>.
2. Col secondo motivo, denuncia, in via subordinata, “Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010, dell’art. 18, L. n. 300/70 e dell’art. 1227, c. 2 c.c. (in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3) c.p.c.”. Ivi “contesta la decisione del Giudice d’Appello di confermare la sentenza di primo grado nel punto in cui riconosce al C., in violazione delle norme citate, il pagamento di tutte le mensilità maturate dalla data del licenziamento a quella della decisione”, e “lamenta, altresì, il mancato accoglimento dell’eccezione di aliunde perceptum”.
3. Con il terzo, sempre subordinato, motivo, deduce: “Omessa pronuncia sulle istanze istruttorie relative all’attività lavorativa svolta dal C.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1 n. 4) c.p.c.”. Sostiene la ricorrente che la sentenza sarebbe “nulla nella parte in cui il giudice di secondo grado ha omesso ogni pronuncia in ordine alle richieste di prova avanzate da M. S.p.a. in sede di appello, finalizzate a dimostrare l’attività lavorativa svolta da C. (e i relativi proventi) a far data dal 1° gennaio 2008, al fine di poter tenere in conto “l’aliunde perceptum”.
4. Il primo motivo è inammissibile per difetto della specificità richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c., segnatamente in termini di pertinenza rispetto a quanto ritenuto e deciso nella pronuncia gravata.
4.1. La Corte di merito, nel respingere il terzo, ma principale motivo d’appello dell’attuale ricorrente (con il quale veniva censurato l’inquadramento della fattispecie esaminata nell’ambito di un somministrazione irregolare di prestazioni lavorative, trattandosi invece, secondo la stessa, di un appalto di manodopera genuino), aveva anzitutto premesso che: “Nell’esaminare la natura del contratto intercorso fra le due predette società e fra le medesime e i lavoratori – e, in particolare, con l’appellato – occorre tener conto della peculiarità del servizio oggetto di appalto, caratterizzato da un’alta intensità di manodopera, nel quale l’apporto di attrezzature (che, peraltro, come vedremo vengono in concreto apportate dalla stessa committente) risulta marginale rispetto alla fornitura di prestazioni lavorative. E’ di tutta evidenza che in ipotesi come quella in esame è richiesto un accertamento molto più intenso in ordine alla sussistenza dei requisiti dell’organizzazione dei mezzi necessari per l’attuazione del contratto e della sussistenza del potere direttivo, gerarchico e disciplinare sui dipendenti in capo all’appaltatore piuttosto che al committente”.
4.2. Indi, dopo aver richiamato ulteriori principi ritenuti applicabili in subjecta materia, la Corte aveva scritto: “nel caso concreto, dall’istruttoria di primo grado è emerso che il potere gerarchico sul dipendente, in quella che era un vera e propria organizzazione piramidale, era esercitato da M. e dal suo amministratore delegato, S. G.. Era allo stesso che competevano la determinazione dei premi di produttività, nonché degli orari di lavoro e delle pause che erano consentite ai lavoratori, o le modalità di giustificazione delle assenze; era ancora il G. che, attraverso comunicazione via email ovvero anche in videoconferenza, oppure ancora durante le sue visite alla sede lavorativa di San Cassiano, impartiva direttive in ordine alle campagne promozionali o di sondaggi da realizzare e le modalità con le quali il lavoro doveva essere concretamente svolto. Le direttive venivano comunicate ai team leader (alcuni dei quali dipendenti della stessa M.) che, a loro volta, le trasferivano ai dipendenti, il tutto in una struttura piramidale.
Importanti funzioni organizzative del personale erano svolte da un dipendente di M., A. M., che aveva la responsabilità dell’intero personale di E., compresi i team leader, e controllava gli orari di lavoro svolti quali ricavabili dai badges marcatempo in dotazione dei dipendenti. Era lo stesso A. che consegnava le buste paga ed al quale i dipendenti dovevano consegnare i certificati medici, allorché si assentavano. La funzione dell’amministratore di E., L. M., era limitata all’esecuzione delle direttive di S. G., oltre che a fungere da mero tramite fra lo stesso amministratore delegato di M. e gli operatori, riversando su questi ultimi le direttive che riceveva dal vertice della committente. Era ancora un’altra dipendente di M., P. S., che curava la contabilità di entrambe le società, eseguiva gli acquisti anche per conto dell’appaltatore controllava l’operato dei team leader.
Da tale premessa risulta evidente che l’organizzazione dell’attività lavorativa e l’esercizio dell’attività lavorativa e l’esercizio del potere gerarchico e direttivo sui dipendenti erano in capo a M.. Non a diverse conclusioni deve pervenirsi in ordine alla disponibilità delle attrezzature utilizzate per l’esecuzione dell’appalto, dal momento che sia il capannone industriale, sia le attrezzature, ben compresi gli impianti telefonici e i computer, elementi imprescindibili per lo svolgimento dell’attività degli operatori di call center, erano, come è pacifico, di proprietà dell’appellante.
Quanto al rischio di impresa, la circostanza che E. fosse fortemente indebitata, lungi dal costituire un elemento a favore della genuinità dell’appalto, costituisce elemento che deve far riflettere, in quanto rende evidente che il corrispettivo convenuto fra le due società per il contratto di appalto non era adeguatamente commisurato all’effettivo rischio di impresa, il che denota, quanto meno, una negligenza dell’appaltatrice e, soprattutto, rafforza il convincimento che l’appalto di manodopera fosse preordinato a trasferire fittiziamente sulla società meno solida e di cui l’appellante era la socia di maggioranza (nell’ambito tuttavia di una società di capitale a responsabilità limitata) l’onere economico più rilevante e cioè il pagamento di un elevato numero di dipendenti, laddove l’incasso delle commesse rimaneva in capo alla committente. Con la conseguenza che eventuali rivendicazioni economiche dei lavoratori avrebbero concretamente rischiato di non trovare capienza nel patrimonio della formale datrice di lavoro”.
4.3. Tale essendo la parte motiva espressiva della ratio decidendi della Corte d’appello circa i temi toccati dal primo motivo di ricorso (in una parte successiva la stessa ha riesaminato le dichiarazioni salienti delle persone ascoltate in prime cure: cfr. facciate 10-12 della sua sentenza), lo sviluppo della censura in esame consta, oltre che di richiami giurisprudenziali e dottrinali, di deduzioni essenzialmente volte a proporre un’autonoma rilettura delle risultanze processuali da parte della ricorrente, tra l’altro, riguardante i temi del rischio d’impresa, della mancanza della qualifica di imprenditore del soggetto appaltatore, dell’esercizio del potere direttivo del committente, dei mezzi e strumenti del committente, della qualificazione dell’attività lavorativa, della quantificazione ed attribuzione del corrispettivo (cfr. in particolare, pagg. 9-19 dell’impugnata sentenza).
4.4. Nello svolgimento del primo motivo, inoltre, l’impugnante prende direttamente in considerazione solo i su riportati passi di motivazione dell’impugnata sentenza, che riguardano l’aspetto del rischio d’impresa (cfr. pag. 12 del ricorso per cassazione), trascurando, peraltro, di considerare che in essi la Corte distrettuale ha espresso anzitutto delle deduzioni in punto di fatto (il forte indebitamento della società appaltatrice, apparente datrice di lavoro dell’attore), in base alle quali è giunta alla conclusione che il rischio d’impresa in sintesi fosse artatamente scaricato su detta società, della quale la M. era socia di maggioranza. Trattasi, perciò, di valutazione di natura probatoria, che si sottrae al controllo di legittimità con il mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., unicamente fatto valere dalla ricorrente con il primo motivo.
4.5. Come anticipato, la ricorrente circa tutti gli altri aspetti sui quali la Corte di merito ha principalmente fondato il proprio convincimento del non ricorrere un appalto genuino tra la E. e la M. nei passi di motivazione pure in precedenza riportati, si limita a proporre una propria alternativa ricostruzione della fattispecie sul piano fattuale e probatorio; ricostruzione che ovviamente non può essere qui presa in considerazione.
4.6. La ricorrente sottolinea che: “I giudici di merito non hanno rilevato che nessuno dei requisiti, che la consolidata e ripetuta giurisprudenza della Suprema Corte, considera necessari perché possa venir meno l’autonomia delle singole società, ricorre nel caso di cui ci occupiamo”.
Qui la stessa trascura del tutto di considerare che il giudice d’appello su questo tema si era soffermato, nel respingere il sesto motivo d’appello dell’attuale ricorrente (con il quale M. sosteneva che il collegamento economico-funzionale esistente fra la stessa appellante e la E. non farebbe venir meno l’autonomia delle due imprese).
In particolare, la Corte d’appello aveva creduto “preliminarmente che il motivo appare privo di rilevanza, perché la decisione di primo grado ha ritenuto la sussistenza del rapporto di lavoro fra il C. e M., avendo rinvenuto i caratteri tipici della subordinazione nell’esercizio del potere organizzativo, gerarchico, direttivo e disciplinare direttamente in capo all’appellante e ciò indipendentemente dai rapporti economici intercorrenti fra le due società resistenti”.
Pertanto aveva completato tale rilievo scrivendo che: “Argomenti come la preponderante presenza di M. nel capitale sociale di E., la proprietà in capo a M. del capannone industriale di San Cassiano e delle altre attrezzature utilizzate da E., il continuo passaggio di dipendenti e/o collaboratori dall’una all’altra società, sono stati utilizzati dal Tribunale di Lecce per rafforzare il proprio convincimento in ordine all’individuazione dell’effettiva datrice di lavoro dell’appellato, senza assurgere tuttavia ad elemento determinante della decisione, che, come detto, si fonda su altri e ben più rilevanti argomenti adeguatamente supportati sul piano probatorio”.
E tale parte dell’impugnata sentenza neppure è autonomamente censurata dalla ricorrente.
4.7. Resta, in definitiva, confermato che le deduzioni della ricorrente, per un verso, neanche tengono conto completamente di quanto effettivamente accertato in punto di fatto e considerato in diritto dalla Corte distrettuale, e, per altro verso, prospettano una ricostruzione e una valutazione differenti di numerosi dati fattuali, che non sono ovviamente consentite in questa sede di legittimità.
5. Anche il secondo motivo è inammissibile per difetto di specificità, mancando del tutto di confrontarsi con la ratio decidendi effettiva del giudice di secondo grado sui punti investiti dalla censura.
5.1. Quest’ultimo, nel respingere l’ultimo motivo d’appello (con il quale l’allora appellante si doleva della decisione del primo giudice di riconoscere al C. il pagamento di tutte le mensilità maturate dalla data del licenziamento a quella della decisione, in violazione di quanto previsto dall’art. 32, comma 5, della L. 183/2010, che limita l’indennità onnicomprensiva in misura ricompresa fra 2,5 e 12 mensilità, e, sotto altro profilo e in subordine, chiedeva di tenersi conto dell’aliunde percept-um), aveva reputato infondato il primo profilo di censura “in considerazione del fatto che il primo Giudice ha ritenuto che il rapporto di lavoro avrebbe avuto sin dall’origine natura di rapporto di lavoro subordinato e che, quindi, trattandosi di licenziamento orale, lo stesso deve essere considerato giuridicamente inesistente, di tal che il rapporto di lavoro non si è mai interrotto. Ne consegue l’onere per la datrice di lavoro di corrispondere tutte le mensilità maturate nel periodo intercorso fra la data del licenziamento e quella di prosecuzione del rapporto”.
5.2. Il secondo motivo, invece, muove anzitutto dall’assunto che “non vi è mai stato alcun licenziamento orale”, negando, cioè, un dato in fatto e in diritto, ossia, l’essersi in presenza di un licenziamento orale, confermato dalla Corte d’appello, senza peraltro censurare assolutamente, in modo ammissibile in questa sede, tale accertamento.
Analogamente, l’impugnante asserisce che siamo “di fronte ad un rapporto di lavoro a termine, comunque spirato alla sua naturale e prefissata scadenza”, laddove, come si è visto, la Corte di merito ha confermato essersi in presenza, non già di più contratti di lavoro a progetto (come sostenuto dall’originaria ulteriore resistente E.), ma di un unico rapporto di comune lavoro subordinato; ed è questa la ragione per la quale la stessa Corte ha ritenuto che “non può farsi applicazione della previsione di cui all’art. 32 comma 5 della L. 183/2010, che riguarda le ipotesi di conversione di contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, che qui non ricorre”.
La ricorrente, perciò, nell’assumere la violazione o falsa applicazione anzitutto dell’ora cit. art. 32, comma 5, L. n. 183/2010, neppure tiene conto dell’accertamento in base al quale la Corte territoriale ha escluso l’applicabilità al caso di tale disposizione.
5.3. Meramente assertive, infine, sono le considerazioni della ricorrente circa l’aliunde perceptum, avendo la Corte distrettuale concluso che: “l’appellante, a tanto onerata, non ha fornito nessuna prova del fatto che l’appellato nel periodo successivo al licenziamento abbia prestato attività lavorative altrove ed abbia, quindi, conseguito salari o altre utilità, sicché, anche sotto questo aspetto, la censura non merita accoglimento”.
Nota, peraltro, il Collegio che il tema della prova dell’attività lavorativa svolta dal C. forma oggetto del terzo motivo di ricorso (qui di seguito dichiarato inammissibile ex se).
6. Parimenti inammissibile è il terzo ed ultimo motivo.
6.1. Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. rilevante ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4), dello stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (così Cass. civ., sez. VI, 5.7.2016, n. 13716; e in termini, tra le altre, id., sez. lav., 18.3.2013, n. 6715; id., sez. III, 19.1.2010, n. 709; id., sez. III, 11.2.2009, n. 3357; id., sez. un., 18.12.2001, n. 15982).
6.2. Ebbene, nel caso che ci occupa, la ricorrente ha formulato la censura in esame esclusivamente in chiave appunto di omessa pronuncia della Corte d’appello sulle istanze istruttorie specificate a pag. 22 del ricorso, asseritamente decisive, e avanzate con il ricorso in appello.
Anche nello svolgimento dell’ultimo motivo, infatti, neppure si duole di un difetto di motivazione a riguardo, men che meno negli stretti limiti in cui le anomalie motivazionali sono deducibili in sede di legittimità.
7. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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