CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 ottobre 2018, n. 27623
Dichiarazioni fiscali – Accertamento – Agevolazioni tributarie – Credito d’imposta – Compensazione
Ritenuto in fatto
1.L’Agenzia delle entrate emetteva il 23-12-2008 avviso di accertamento notificato alla D. s.p.a. (già D. s.r.I.) il 29-12-2008, dopo un accesso del 23-12-2008, con riferimento all’anno 2003 (dichiarazione del 2004), disconoscendo un credito di imposta, in relazione a dividendi distribuiti dalla P. alla D., pari ad € 4.016.805, in due occasioni, il 29-4-2003 (dividendo ordinario) ed il 24-9-2003 (dividendo straordinario), con crediti di imposta nella percentuale del 56,25 % dei dividendi distribuiti (dividendi pari a complessivi € 7.140.986,98). Gli utili, in realtà, non erano stati percepiti dalla D., in quanto non vi era stata compensazione di tale credito con l’asserito credito della P. per l’apertura di credito concessa dalla D. ex art. 1842 c.c., non essendo sorto tale ultimo credito con la mera messa a disposizione delle somme, senza prelievo.
2.Proponeva ricorso la D. s.p.a. evidenziando che ravviso era stato emesso prima della scadenza del termine di sessanta giorni dal rilascio al contribuente del verbale di chiusura delle operazioni, ribadendo la spettanza del credito di imposta sui dividendi distribuiti dalla P. ai sensi dell’art. 14 commi 1 e 4 del d.p.r. 917/1986.
3.La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso per il mancato rispetto del termine di sessanta giorni di cui all’art. 12 comma 7 della legge 212/2000.
4.Proponeva appello l’Agenzia delle entrate riproponendo le questioni di merito non affrontate dalla Commissione provinciale perché assorbite dall’accoglimento del motivo relativo al mancato rispetto del termine di sessanta giorni.
5.La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello della Agenzia delle entrate, evidenziando che il mancato rispetto del termine di sessanta giorni era privo di sanzione, che la D. era creditrice dei dividendi da parte della P., che la D. aveva stipulato con la P. un contratto di apertura di credito, mettendo a disposizione di questa la somma di 140.000.000 di euro, che la P., quindi, a seguito di tale contratto, era titolare di un diritto di credito verso la D., che il debito della P. per il pagamento dei dividendi alla D. si era estinto con la compensazione con il credito della P. sorgente dal contratto di apertura di credito, che il debito di P. era stato registrato nell’ambito della movimentazione del credito vantato in base al contratto di apertura di credito, come da registrazioni contabili eseguite dalla D..
6.Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.
7. Resisteva la contribuente con controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato.
7.Depositavano memoria scritta sia l’Agenzia delle entrate che la D. s.p.a.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia deduce “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1482 c.c. e dell’art. 14 commi 1 e 5 del TUIR (nel testo vigente nel 2003) in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.”, in quanto tra le parti è stato stipulato un contratto di apertura di credito ai sensi dell’art. 1842 c.c., per cui non è vero che la P., in cui favore era stato stipulato il contratto, era titolare di un diritto (potestativo) di credito verso la D., da compensare con il debito della P. verso la D. per il pagamento dei dividendi. Al contrario, tale credito non sussisteva, in quanto ai sensi dell’art. 1482 c.c., con l’apertura di credito la D. si era obbligata a mettere a disposizione della P. una somma di denaro. Semmai, la P. aveva la facoltà di rendersi debitrice della D., ove avesse prelevato o utilizzato le somme messe a sua disposizione. Non vantando alcun credito la P. verso la D. da apertura di credito, in assenza di qualsiasi prelievo, non poteva operare la richiamata compensazione. Con l’eventuale utilizzo delle somme, poi, sarebbe nato un diritto di credito, ma non in capo alla P., che sarebbe divenuta debitrice, della restituzione delle somme prelevate, ma in capo alla D., che aveva erogato il denaro. Non essendovi stata compensazione, non era sorto il diritto al credito di imposta. I dividendi sono rimasti nella disponibilità di P., che non ha distribuito i dividendi a D..
2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “Motivazione insufficiente e contraddittoria su un fatto decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”, in quanto la Commissione regionale non ha considerato che il conto intercompany P.H.10.01 non aveva alcun riscontro a livello bancario. Inoltre, l’esercizio 2003 si apre con un credito di D. verso P. e si chiude allo stesso modo, mentre l’unica differenza è solo l’ammontare del denaro di cui P. è debitrice a fine 2003, non essendo in alcun modo indicati crediti di P. verso D., ma solo, appunto, debiti da sommare tra loro. La natura del contratto di apertura di credito esclude l’esistenza di crediti in favore di P..
2.1.Tali motivi, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.
2.2.Anzitutto, si rileva che, essendo intervenuta una pronuncia espressa della Commissione tributaria regionale sulla questione preliminare di merito, relativa al mancato rispetto del termine di dilazione di sessanta giorni ai sensi dell’art. 12 comma 7 della legge 212/2000 prima della notifica dell’avviso di accertamento (con espressa decisione di esclusione delle sanzione della nullità dell’avviso), deve essere affrontato prioritariamente il ricorso principale articolato dalla Agenzia delle entrate (Cass.Civ., Sez.Un., 25 marzo 2013, n. 7381; Cass.Civ., Sez.Un.,6 marzo 2009, n. 5456; Cass.Civ., 14 marzo 2018, n. 6138; Cass.Civ., 6 marzo 2015, n. 4619). L’esame del ricorso incidentale condizionato è ammesso con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice del merito. Il ricorso incidentale condizionato, dunque, in caso di decisione espressa del giudice di merito sulla questione preliminare o pregiudiziale, va esaminato dalla Corte solo in presenza dell’attualità dell’interesse, ovvero unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale.
2.3.Quanto al merito, l’art. 14 comma 1 d.p.r. 917/1986, nella versione vigente ratione tempor temporis, con riferimento all’anno di imposta 2003, prevede che “se alla formazione del reddito complessivo concorrono utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società o dagli enti indicati nelle lettere a e b del comma 1 dell’art. 87, al contribuente è attribuito un credito di imposta pari al 56,25 % , per le distribuzioni deliberate a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 10-1-2001…dell’ammontare degli utili stessi nei limiti in cui trova copertura nell’ammontare delle imposte di cui alle lettere a e b del comma 1 dell’art. 105”.
Nel comma 5 dell’art. 14 suddetto si legge che “La detrazione del credito di imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta in cui gli utili sono stati percepiti e non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione degli utili nella dichiarazione presentata”.
È pacifico tra le parti che la P. abbia deliberato la distribuzione di utili in favore della D. s.p.a., con due successive delibere del 29-4-2003 e del 24-9-2003, la prima per € 865.574,18 (dividendo ordinario) e la seconda per € 6.275.412,80 (dividendo straordinario), con attribuzione di un credito di imposta nella misura, quindi, del 52,25 % degli utili, pari ad € 4.016.805 (dal 30-9-2003 il credito di imposta è ridotto in base al d.l. 269/2003, convertito in legge 326 del 2003, dovendosi avere riguardo alla data di registrazione della delibera di distribuzione degli utili, come da Cass.Civ., 19 gennaio 2017, n. 1411).
Vi era, dunque, un credito di D. nei confronti di P. per la distribuzione dei dividendi. Il credito di imposta sarebbe sorto solo in caso di effettiva percezione dei dividendi da parte di D..
Tra le due società, inoltre, è stato stipulato un contratto di apertura di credito tra D. e P., con il quale la prima ha messo a disposizione della seconda la somma di € 140.000.000.
Ai sensi dell’art. 1842 c.c., dunque, se P. avesse prelevato le somme di cui al contratto, messe a sua disposizione da D., P. sarebbe divenuta “debitrice” nei confronti di D.. Il prelievo è l’esercizio del diritto potestativo di P. di acquisite le somme messe a disposizione, con obbligo di restituzione.
La Commissione regionale, invece, erroneamente, per dimostrare la avvenuta percezione dei dividendi da parte di D., ha ritenuto che “tra i due soggetti esisteva sia una posizione creditoria di P. verso D. sulla base del contratto di apertura di credito ancora in vigore al 31.12.2003 fino a 140 milioni sia una posizione debitoria della stessa P. per il dovuto pagamento di dividendi per C 7.140.987”.
In realtà, non vi era alcuna posizione “creditoria” di P. in base al contratto di apertura di credito.
Infatti, l’eventuale credito (ma della società che mette a disposizione la somma non di quella che preleva) origina solo dal prelievo delle somme messe a disposizione (Cass.Civ., 22 marzo 1994, n. 2742, in motivazione; Cass.Civ., 11 novembre 2010, n. 22915).
Prima del prelievo effettivo delle somme, vi è solo il diritto potestativo della società in cui favore sono messe a disposizione le somme di divenire “debitrice” dell’altra, non creditrice.
Inoltre, una volta prelevate le somme origina un debito di restituzione in capo alla società che ha effettuato il prelievo. Il vero rapporto obbligatorio, in regione del quale l’accreditante può dirsi creditore dell’accreditato, sorge soltanto nel momento ed a causa del prelievo della somma messa a disposizione (Cass.Civ., 9 settembre 2004, n. 18182).
Pertanto, non vi è un credito della P. risultante dal contratto di apertura di credito.
Ciò non consente alcuna compensazione tra le parti, in quanto P. ha in realtà due debiti nei confronti di D., uno per il pagamento degli utili, l’altro (una volta effettuato il prelievo delle somme messe a disposizione) per la restituzione di tali somme.
2.4.La motivazione della sentenza della Commissione regionale è, poi, anche insufficiente e contraddittoria. Infatti, non tiene conto che le registrazioni contabili eseguite dalle società, dalle quali risulta l’avvenuta compensazione, in realtà non hanno riscontro nei movimenti bancari.
La Commissione ritiene che “attraverso il conto P.H.10.01 è stato registrato questo debito di P. verso D. nell’ambito della movimentazione del credito in base al contratto relativo e ciò risulta dalle registrazioni contabili eseguite dalla società ricorrente in data 7.05. e 26.9.2003 nonché dalla certificazione relativa agli utili corrisposti trasmessa dalla P. a D.”.
In tal modo, per la Commissione “è indubbio …che sia avvenuta la compensazione tra gli utili percepiti e regolarmente esposti nella dichiarazione relativa al periodo di imposta nel quale sono stati contabilizzati e la posizione debitoria esistente sulla scorta della movimentazione del contratto di apertura del credito…”.
In realtà, però, da un lato, alla registrazione contabile delle società non corrispondono movimenti bancari di identico tenore, non avendo P. prelevato le somme messe a disposizione da D., e dall’altro, non vi è alcun debito di D. da compensare con il credito di questa ad ottenere i dividendi, in quanto non v’è stato il prelievo delle somme e se vi fosse stato la D. sarebbe stata creditrice della restituzione delle somme e non certo debitrice.
Inoltre, risulta che l’esercizio 2003 si è aperto con un credito di D. verso P. che è aumentato sino alla chiusura, senza alcuna riduzione per eventuali crediti di P..
2.5.Né può richiamarsi quanto affermato da questa Corte nelle ordinanze 13933 del 2018 e 15477 del 2018, come invece ritenuto dalla società D. s.p.a. nella memoria scritta depositata. Infatti, in quella fattispecie, era stato “stipulato il contratto di cash pooling, da intendersi come un contratto di tesoreria accentrata che costituisce uno strumento per la gestione dei flussi finanziari…” ed era stato anche accertato che “vi era stata effettiva corresponsione da parte della società italiana dei dividendi che risultavano essere stati incassati dalla società francese, come risultava dall’estratto delle scritture contabili certificato dalla società di revisione”.
Pertanto, vistose sono le differenze con il caso in esame, in cui non v’è stata la stipulazione del contratto di cash pooling tra le due società, né risulta l’incasso effettivo delle somme da parte della D. s.p.a.
3.Con il ricorso incidentale condizionato la società deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 7, comma 1, e 12, comma 7, della legge 212/2000, dell’art. 42 del d.p.r. 600/1973 e degli artt. 3 e 21 septies della legge 241/1990, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto la Commissione regionale ha errato nel ritenere che il mancato rispetto del termine di sessanta giorni, tra il rilascio al contribuente del verbale dell’avvenuto accesso e l’emissione dell’avviso di accertamento, fosse privo di sanzione.
3.1.Tale motivo è fondato.
3.2.La fondatezza del ricorso principale rende, ora, attuale l’interesse alla decisione sul ricorso incidentale condizionato predisposto dalla società.
3.3. Anzitutto, si chiarisce che non è contestato tra le parti che vi sia stato un “accesso” presso l’azienda il 23-12-2008 e che non sia stato rispettato il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 12 comma 7 della legge 212/2000, in quanto l’avviso di accertamento è stato emesso sempre il 23-12-2008 e notificato il 29-12-2008.
Tuttavia, per giurisprudenza di legittimità consolidata, confortata anche da una decisione delle sezioni unite, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio (Cass.Civ., Sez.Un., 29 luglio 2013, n. 18184).
Va anche considerato che, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la scadenza del termine di decadenza dell’azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell’inosservanza del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 (Cass.Civ., 10 aprile 2018, n. 8749), ben potendo, invece, l’amministrazione offrire la come giustificazione dell’urgenza la prova che l’esercizio nell’imminenza della scadenza del termine sia dipeso da fattori ad essa non imputabili che hanno inciso sull’attività accertativa fino al punto da rendere comunque neessaria l’attivazione dell’accertamento, a pena di vedere dissolta la finalità di recupero delle imposte ritenute non versate dal contribuente. Non è, quindi, l’imminenza della scadenza del termine ad integrare l’urgenza, ma, semmai, l’insorgenza di fatti concreti e precisi che possono rendere giustificata l’attivazione dell’ufficio quando non può più essere rispettato il termine dilatorio a pena di vedere decaduta l’amministrazione (per esempio in caso di reiterate violazioni delle leggi tributarie aventi rilevanza penale oppure per la partecipazione del contribuente ad una frode fiscale come da Cass.Civ., sez. 6-5, 2 luglio 2018, n. 17211).
Peraltro, nella specie, l’avviso di accertamento emesso nel 2008 aveva ad oggetto l’anno 2003, sicché l’Agenzia avrebbe dovuto indicare fatti concreti e precisi che non le avevano consentito di procedere con l’accertamento tempestivamente per evitare la decadenza. La contribuente, peraltro, aveva sollecitato negli anni il recupero del credito di imposta.
Né la sanzione della illegittimità dell’avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni può essere irrogata solo qualora il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva, come invece affermato dall’Agenzia delle entrate nella memoria scritta depositata. Tale termine deve essere, infatti, rispettato a prescindere dalla allegazione da parte del contribuente di avere subito uno specifico nocumento alla propria difesa, non avendo potuto produrre nel ristretto lasso temporale concesso, osservazioni, memorie e documenti. Il termine è infatti stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede.
L’art. 12 comma 7 della legge 212/2000, dunque, non prevede, per le verifiche svolte nei locali del contribuente, la c.d. prova di resistenza al fine di rendere operante l’invalidità dell’atto emesso senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni. Né tale interpretazione contrasta con il diritto comunitario, in quanto il maggior grado di tutela previsto a livello interno per i tributi non armonizzati dalla legge 212/2000, articolo 12, comma 7, per come interpretato dal diritto vivente di questa Corte, si muove in armonia piena con il principio di massimizzazione delle tutele, che consente ad un singolo ordinamento di apprestare livelli di protezione di un diritto fondamentale, quale è sicuramente quello al contraddittorio, più ampi rispetto a quelli garantiti dal sistema eurounitario per i tributi non armonizzati.
4.In accoglimento del ricorso incidentale condizionato, con il conseguente rigetto del ricorso principale, l’avviso di accertamento, quindi, deve essere dichiarato illegittimo, in quanto il dispositivo della sentenza della Commissione regionale, che ha respinto l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate, è conforme a diritto, dovendo solo essere corretta la motivazione ai sensi dell’art. 384 comma 4 c.p.c..
5.Le spese dell’intero giudizio devono essere interamente compensate tra le parti, in quanto la questione in ordine alla natura della sanzione applicabile per il mancato rispetto del termine dei sessanta giorni è stata risolta solo con la pronuncia delle Sezioni Unite del 2013.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso incidentale condizionato, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese dell’intero giudizio.
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