CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 ottobre 2020, n. 24046
Tributi – Accertamento – Esercente distributore di carburanti – Evasione di imposta conseguente al comportamento illecito di dipendenti infedeli – Responsabilità tributaria del datore di lavoro
Fatti di causa
Il 7.3.2011 era notificato alla società S. Srl, l’avviso di accertamento n. TF5030901115, attinente ad Ires, Iva ed Irap, per un valore di Euro 36.530,00 oltre accessori, in relazione all’anno 2007, a seguito di verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza, le quali avevano indotto l’Ente impositore a ritenere dimostrato che, a fronte di un reddito percepito dichiarato come pari ad Euro 43.495,00, il reddito effettivamente conseguito dall’impresa, esercente un distributore di carburanti, fosse risultato, in realtà, di Euro 170.500,00.
In particolare, i rilievi dei Militari attenevano alla contabilizzazione sul registro giornaliero di un incasso ridotto, per ogni litro di carburante erogato, di Euro 0,02. Era pure rilevata la presenza di lavoratori non registrati (“in nero”), ed altre irregolarità.
La parte impugnava l’avviso di accertamento innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli e contestava, tra l’altro, che l’alterazione della contabilità e l’evasione contributiva risultavano ascrivibili alla condotta di due dipendenti infedeli, che erano stati pure denunciati. La CTP rigettava il ricorso introdotto dalla contribuente.
La S. Srl proponeva appello avverso la decisione di primo grado, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania. Quest’ultima osservava che le gravi irregolarità registrate dai finanzieri, e poste a base dell’avviso di accertamento notificato dall’Amministrazione finanziaria: la presenza di personale dipendente non inquadratici termini di legge, con conseguente evasione contributiva ed alterazione dei libri paga e matricola, l’anomalia delle scritture contabili con annotazione di una somma riscossa inferiore a quella effettivamente percepita, conseguendone l’evasione sia ai fini delle imposte dirette che dell’Iva, sono dati di fatto acquisiti e neppure contestati dalla società. La difesa di quest’ultima, che insisteva nell’affermare la responsabilità esclusiva di due dipendenti infedeli per i fatti di evasione contributiva, non risultava efficace, perchè il datore di lavoro è comunque responsabile dell’operato dei suoi dipendenti. In conseguenza rigettava il ricorso.
Avverso la decisione assunta dalla CTR della Campania ha proposto ricorso per cassazione la S. Srl, affidandosi ad un unico, articolato, motivo di impugnazione. Resiste mediante controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
1.1. – Mediante il suo motivo di ricorso la società S. contesta, ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3 e 5 (ed anche 4), cod. proc. civ., la decisione adottata dalla CTR per essere incorsa nella violazione degli artt. 3, 24, 53 e 97 Cost., nonché 6, co. 4, e 10, co. 1, della legge n. 212 del 2000, ed ancora dell’art. 18 della legge n. 241 del 1990, e dell’art. 112 cod. proc. civ., non avendo rispettato l’essenziale principio della “capacità contributiva” (ric., p. 7).
La società ricorrente contesta, in relazione ad ogni possibile vizio della decisione, la sentenza adottata dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania per aver trascurato la necessità di assicurare concreta attuazione al principio costituzionale della capacità contributiva. Il giudice dell’appello non avrebbe tenuto conto, infatti, dello svolgimento dei fatti, e pertanto neppure delle denunce sporte nei confronti dei dipendenti infedeli, che soli avrebbero potuto avvantaggiarsi delle irregolarità riscontrate dai Militari, mentre gli effetti dell’evasione si pretendeva dovessero ricadere sull’esercente del distributore di carburanti, il quale però nessuna somma aveva percepito oltre il dichiarato, e non doveva quindi essere richiesto del pagamento dei tributi in relazione ad un reddito che non aveva in realtà conseguito, trincerandosi il giudice “con la semplice schermatura della ‘responsabilità oggettiva’” (ric., p. 8). Afferma ancora la contribuente, invocando anche l’applicazione del principio della vicinanza della prova, che “la P.A. avrebbe dovuto accertare (e se del caso produrre), documenti atti a consentire una corretta e doverosa applicazione dei tre principi costituzionali: capacità contributiva, correttezza ed imparzialità nell’operato della P.A., e soprattutto, il pacifico esercizio del diritto di difesa” (ric., p. 11).
Le ragioni di contestazione proposte dalla società ricorrente non colgono appieno la ratio decidendi adottata dalla CTR, e si limitano a riproporre per larga parte argomenti già sottoposti ai giudici del merito; il ricorso risulta pertanto in larga parte inammissibile, e per il resto appare infondato. Neppure può trascurarsi che la contestazione del vizio di motivazione è stata effettuata dalla ricorrente rifacendosi alla precedente formulazione dell’art. 360, comma primo, n. 5, censurando la motivazione adottata dalla CTR perché “omessa, insufficiente e contraddittoria”. Tenuto conto che la sentenza impugnata è stata depositata l’11.11.2013, e pertanto in data successiva alla entrata in vigore del testo riformulato (11.9.2012), la contestazione del vizio di motivazione risulta anch’essa inammissibile.
In ogni caso, la CTR ha osservato che nella gestione societaria della S. Srl sono state accertate numerose irregolarità, non solo quelle rilevanti nel presente giudizio. In questo processo è ascritto alla società di avere annotato per mesi, nelle scritture contabili ufficiali, l’avvenuta vendita del carburante ad un prezzo inferiore rispetto a quello effettivamente percepito, discendendone un maggior reddito sia ai fini delle imposte dirette sia delle imposte indirette. Questa chiara ragione della decisione non è affatto contrastata dalla odierna ricorrente, che neppure aveva contestato l’argomento, decisivo, nelle precedenti fasi del merito. La contribuente pretenderebbe piuttosto, invocando alti principi costituzionali, di non essere assoggettata al pagamento dei tributi perché del reddito aggiuntivo si sarebbero appropriati dipendenti infedeli. Ora, a parte ogni considerazione, che attiene peraltro al merito del giudizio, circa il fatto che l’affermazione della contribuente risulti provata, o meno, rimane il fatto che, per regola generale, il datore di lavoro risponde dell’operato degli ausiliari non avendo peraltro neanche allegato di essere stato impedito nello svolgimento della doverosa attività di vigilanza. Neppure la ricorrente chiarisce specificamente in qual modo sarebbe risultato limitato nel corso del giudizio il suo diritto di difesa.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza, e sono liquidate in dispositivo, in considerazione della complessità del giudizio e delle ragioni della decisione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso introdotto dalla S. Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, che condanna al pagamento delle spese di lite in favore della costituita controricorrente, e le liquida in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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