CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2022, n. 28549

Lavoro – Art. 10 CCNL settore commercio 2004 – Premio aziendale individuale ad personam – Natura collettiva – Recesso dall’accordo integrativo aziendale – Caducazione

Rilevato che

1. Con sentenza n. 13 del 2019 la Corte di appello di Brescia, confermando la pronuncia del Tribunale della medesima sede, ha respinto la domanda degli originari ricorrenti-lavoratori nei confronti di M.D. s.p.a. (già A. s.p.a.) per l’accertamento del diritto a percepire, anche dopo la disdetta da parte della società dell’accordo integrativo aziendale A. 2007, la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam”;

2. la Corte territoriale, dopo un ampio excursus delle fonti contrattuali di natura collettiva (nazionale e aziendale) applicate, nel tempo, ai rapporti di lavoro, ha escluso che la suddetta voce retributiva costituisse, per effetto di novazione, un premio di carattere individuale, incorporato nei singoli contratti individuali e come tale insensibile a modifiche non consensuali, richiamando la giurisprudenza di legittimità consolidata circa la natura di fonte eteronoma delle disposizioni dei contratti collettivi, che dunque, in linea generale, non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali; ha, in ogni caso, ritenuto che il tenore testuale dell’art. 22 del contratto aziendale A. 2007 non consentisse di ravvisare la volontà delle parti di mutare la natura collettiva del premio aziendale fisso in emolumento di natura individuale, considerata la sintonia lessicale con l’art. 10 del CCNL 2004 che dettava la disciplina (delegandola a livello aziendale) della materia delle erogazioni economiche strettamente correlate ai risultati conseguiti, prevedendo che i compensi a tal fine già percepiti dai lavoratori fossero – per la parte fissa – conservati in “cifra”; tale dizione, anzi, consentiva di spiegare l’utilizzo del termine “ad personam” in quanto riferito al diverso importo che ciascun lavoratore percepiva (in considerazione della provenienza da diverse società o punti vendita, confluiti nella società A. a seguito di distinti accordi commerciali o fusioni); la natura collettiva della suddetta voce retributiva non era smentita dalla circostanza che fosse limitata ad una precisa categoria di lavoratori, considerate le complesse e varie vicende societarie – che avevano determinato la confluenza presso la A. s.p.a., di lavoratori del G.L.R. i quali a loro volta provenivano da diverse realtà societarie caratterizzate da una disciplina collettiva differenziata per cui si era posta l’esigenza della relativa armonizzazione – ed era ancora confermata sia dall’ultimo comma del citato art. 22 ove le parti precisavano che tutti gli istituti retributivi “in ragione della loro origine di trattamenti contrattuali collettivi non sono assorbibili” (precisazione pleonastica ove il suddetto trattamento economico fosse effettivamente diventato individuale, quale elemento di miglior favore) sia dall’art. 23, punto 3, della Scheda 1 dell’accordo aziendale A. 2007 che, disciplinando un nuovo sistema di incentivazione a carattere variabile, tra cui il parametro del “Risultato aziendale”, prevedeva di ritenere assorbito questo valore per i lavoratori che percepivano l’elemento salariale fisso di cui in oggetto; la Corte territoriale ha, infine, escluso che si trattasse di diritto quesito, ossia già entrato a far parte del patrimonio dei lavoratori, trattandosi di mera pretesa alla stabilità nel tempo di normative collettive più favorevoli ed avendo, la società, erogato tale emolumento negli anni 2006 e 2007 (ossia nelle more della stipula dell’accordo integrativo 2007) “a titolo di acconto e/o anticipazione sui futuri trattamenti”; il recesso dall’accordo integrativo aziendale del 2007 da parte della società, nel luglio 2015, determinava legittimamente la caducazione della fonte dell’obbligazione di erogazione di detto premio fisso;

3. avverso tale sentenza alcuni degli originari ricorrenti ricorrono con quattro motivi, cui resiste la società con controricorso, illustrato da memoria;

Considerato che

1. Con il primo motivo del ricorso si denuncia violazione degli artt. 1462, 1363-1365 cod.civ. con riferimento all’art. 22 dell’accordo integrativo aziendale del 2007 in combinato disposto con l’art. 10 CCNL settore commercio 2004, avendo, la Corte territoriale, escluso il carattere di clausola di salvaguardia che ha incorporato nel contratto individuale il premio aziendale fisso, posto che la lettura delle disposizioni del contratto nazionale e di quello aziendale (conservazione “ad personam”, art. 22 cit. e conservazione della parte fissa in cifra, art. 10 cit.) rendono evidente che la parte fissa del salario riconosciuto al lavoratore è diventato indisponibile, anche dalla contrattazione di secondo livello, con conseguente consolidamento nel trattamento individuale per i soli lavoratori già in forza con contratto a tempo indeterminato che abbiano già maturato tale emolumento retributivo alla data del 31.12.2005.

2. Con il secondo motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1373, 1462, 1363, 1364, 2077 cod.civ. con riferimento agli effetti del recesso regolato dall’art. 1373 cod.civ. rispetto alla previsione dell’ 22 dell’accordo integrativo aziendale del 2007 in combinato disposto con l’art. 10 CCNL settore commercio 2004 avendo, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto che la disdetta del contratto aziendale determini la perdita di un beneficio al mantenimento dell’ex premio in misura fissa stabilita dall’art. 10 CCNL 2004 posto che il suddetto emolumento trovava la sua fonte nella contrattazione collettiva di livello nazionale del 2004 che la società non ha disdettato, emergendo, pertanto, la volontà delle parti sociali di conservare l’emolumento cristallizzato in cifra fissa.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1322, 1373, 1340, 2095, 2103 cod.civ., 36 e 39 Cost. avendo, la Corte territoriale, illegittimamente ritenuto che il corrispettivo della prestazione lavorativa potesse essere modificato unilateralmente dalla società sulla base della disdetta dell’accordo aziendale rimanendo inalterato il contenuto della prestazione lavorativa dei ricorrenti, non potendo, il datore lavoro, modificare unilateralmente emolumenti divenuti parte integrante della retribuzione del lavoratore.

4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1322, 1373, 2099 cod.civ., 35, 36, 39 , 117 Cost. con riferimento alle convenzioni OIL 154/1981, C 135, C 98 del 1949, C 87 del 1948, 6 della Carta sociale europea, 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo con riferimento agli effetti del recesso regolato dall’art. 1373 cod.civ. rispetto alla previsione dell’ 22 dell’accordo integrativo aziendale del 2007 in combinato disposto con l’art. 10 CCNL settore commercio 2004 avendo, la Corte territoriale, ritenuto che la disdetta unilaterale di un contratto aziendale che riconosce un trattamento retributivo ad personam legato alla prestazione-base determina la perdita dell’emolumento stesso disattendendo le convenzioni internazionali che impongono di riconoscere e promuovere sistemi contrattati di regolamentazione delle condizioni di lavoro; l’esistenza di un diritto al mantenimento delle condizioni economiche previste da una contrattazione discende dalla stretta correlazione tra prestazione lavorativa e controprestazione retributiva e sulla base degli obblighi positivi che scaturiscono dai Trattati che valorizzano la contrattazione come fonte di determinazione del salario e comunque in forza di un’interpretazione conforme; la cancellazione del contratto collettivo non può ritenersi consentita in una società democratica e la centralità della contrattazione collettiva è ribadita anche dalle convenzioni OIL.

Si assume che la Corte distrettuale, nell’attribuire alla disdetta comunicata da A. s.p.a. una capacità esclusiva di caducazione degli effetti retributivi di un contratto collettivo a prescindere dalla modifica dell’obbligazione lavorativa, da una rinegoziazione alternativa o in assenza di condivisione, aveva posto in essere una interpretazione che disapplicava la valorizzazione della contrattazione effettuata dalle convenzioni internazionali richiamate nel motivo di doglianza come mezzo a tutela delle condizioni di lavoro; si invoca la sentenza della Corte Europea 12 novembre 2008 Denya y Boykana in tema di diritto in capo ai lavoratori alla contrattazione collettiva e si richiama tra le altre fonti internazionali l’art. 6 della Carta Sociale Europea quale norma interposta che impone di promuovere le procedure di consultazione per disciplinare le condizioni di lavoro. Si prospetta, infine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2099 cod.civ., in combinato disposto con gli artt. 1322 e 1373 cod.civ. nella parte in cui, in violazone degli artt. 3, 4. 35, 36, 39, 117 Cost. consentono in capo al debitore dell’obbligazione retributiva di determinare ed incidere unilateralmente sul valore della controprestazione lavorativa recedendo, ad invarianza di prestazione richiedibile, da accordi collettivi che concorrono a stabilire il valore complessivo della retribuzione incidendo sugli obblighi internazionali ai quali aderisce l’Italia tesi a promuovere la contrattazione collettiva come strumento di emancipazione.

5. I primi due motivi del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per la loro stretta connessione in quanto ruotano intorno all’interpretazione dell’art.22 dell’accordo integrativo aziendale del 2007, non meritano accoglimento.

6. La Corte territoriale ha proceduto a ricostruire il significato e la portata dell’istituto retributivo in oggetto attraverso la disamina di più clausole contrattuali (gli artt. 10 del CCNL del 2004 e 22 del contratto integrativo del 2007 in tutte le loro complessive previsioni, oltre che l’art. 23 del medesimo contratto integrativo);

invero, l’art. 10 CCNL Commercio 2004 prevede:

“Nelle aziende che abbiano, anche in più unità decentrate nell’ambito di una stessa provincia, più di 30 dipendenti, potranno essere concordate particolari norme riguardanti: [….] – erogazioni economiche strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi aziendali, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità, altrimenti rilevanti ai fini del miglioramento della competitività, nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa.

Laddove a livello aziendale sussistano erogazioni economiche comunque denominate, anche parzialmente variabili, dovrà essere ricondotta nell’ambito delle nuove erogazioni sopra specificate la parte variabile, mentre la parte fissa sarà conservata in cifra”.

L’ultimo periodo trascritto, collegandosi espressamente al periodo precedente (essendo, fra l’altro, compreso nello stesso interlinea) non appare disporre di alcun diritto bensì pone una regola meramente applicativa, matematica, di scomposizione e di computo di erogazioni economiche già esistenti, prevedendo che la parte variabile di tale erogazioni sia assorbita nelle nuove erogazioni correlate ai risultati (la cui istituzione è demandata ai contratti aziendali) e che la parte fissa sia conservata in cifra.

In attuazione di tale previsione, l’art. 22 dell’accordo del 2007 prevede: “La voce retributiva denominata premio aziendale sarà conservata in cifra ad personam ai soli lavoratori già in forza con contratto a tempo indeterminato che abbiano già maturato tale emolumento retributivo alla data del 31 dicembre 2005 e confluirà nella voce retributiva “ex premio aziendale alle personam”. […]

La disposizione regola, poi, altri emolumenti di addetti a specifiche unità (lavoratori dell’Ipermercato di Torino c.so R., ove “la conservazione di tale elemento ad personam individualmente avverrà anche per quanto riguarda la seconda componente di detto premio aziendale…”), e prevede “la conservazione individuale ad personam, già definita dal vigente contratto del 7 febbraio 2003” di altri elementi (quali elemento salariale distinto, bonus periodare non variabile voce denominata AAAP, trattamenti economici previsti dalla contrattazione Rinascente, il maggiore importo previsto titolo di indennità di funzione dalla contrattazione Rinascente), concludendo che “Tali istituti in ragione della loro origine di trattamenti contrattuali collettivi non sono assorbibili”.

Quest’ultimo inciso ha reso evidente, secondo la Corte territoriale, la natura collettiva di tutte queste voci retributive poiché, come evidenziato dalla sentenza impugnata, ove tali elementi contrattuali fossero stati inglobati nei contratti individuali, si sarebbe trattato di precisazione pleonastica, posto che non sarebbero stati comunque assorbibili.

7. Questa Corte ha già affermato che l’interpretazione degli atti negoziali – che è riservata al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione esente dalle anomalie denunciabili ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis – va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale (Cass. n. 6484 del 1994; Cass. n. 701 del 2021); in particolare, è stato precisato che nell’interpretazione di un contratto collettivo, il principio “in claris non fit interpretatio” non trova applicazione quando le espressioni letterali utilizzate, benché chiare, non siano univocamente intellegibili, sicché in detta ipotesi dovrà ricercarsi la comune intenzione delle parti facendo ricorso a tutti i criteri ermeneutici rivelatori della volontà dei contraenti (Cass. n. 4189 del 2020).

8. Invero, nell’interpretazione del contratto collettivo, è necessario procedere, ai sensi dell’art. 1363 cod.civ., al coordinamento delle varie clausole contrattuali, anche quando l’interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poiché l’espressione “senso letterale delle parole” deve intendersi come riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale e non già limitata ad una parte soltanto, qual è una singola clausola del contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi parole al fine di chiarirne il significato, tenendo altresì conto del comportamento, anche successivo, delle parti (Cass. n. 18969 del 2015; nello stesso senso, Cass. n. 19779 del 2014, Cass. 9755 del 2011, Cass. n. 3685 del 2010).

9. Ebbene, la Corte territoriale, ha escluso che la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam” costituisse, per effetto di novazione, un premio incorporato nei singoli contratti individuali e come tale insensibile a modifiche non consensuali, ed ha confermato la natura collettiva di detto emolumento, ricostruendo la volontà delle parti collettive non solo alla luce del criterio letterale evincibile dal tenore lessicale della disposizione segnalata dai lavoratori (primo comma dell’art. 22 del contratto integrativo) ma anche delle altre disposizioni del medesimo e di altri strumenti negoziali (l’intero disposto dell’art. 22 citato, il successivo art. 23, l’art. 10 del CCNL di settore), e verificando la coerenza del significato attribuito al testo con gli scopi perseguiti dalle parti, consistenti nella riconduzione ad uniformità di multiformi erogazioni economiche (correlate ai risultati) percepite da lavoratori che provenivano da diverse realtà aziendali. Il percorso logico di ricostruzione della comune volontà delle parti effettuato dalla Corte territoriale è rispettoso dei criteri ermeneutici dettati dall’ordinamento.

10. La Corte territoriale si è, altresì, conformata all’orientamento più volte affermato da questa Corte secondo cui, nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod.civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale (Cass. nn. 36923, 36708, 36228 del 2021; nello stesso senso, oltre alla giurisprudenza citata dalla sentenza impugnata, Cass, .n. 13960 del 2014). Il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva.

Invero, come sottolineato dalla sentenza impugnata, nessun contratto individuale (compresi quelli dei ricorrenti) ha previsto e disciplinato il premio aziendale fisso né risulta allegato (provato) che i lavoratori ricorrenti abbiano trattato (o abbia dato incarico specifico all’organizzazione sindacale di trattare) con la società il diritto a percepire tale voce retributiva.

11. Il terzo motivo del ricorso principale presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte i trattamenti retributivi accessori, come la retribuzione di risultato e più in generale i trattamenti accessori non rientrano nella sfera di garanzia dettata dall’art. 36 Cost., comprendendo la tutela costituzionale, non tutto il complessivo trattamento contrattuale, bensì solo quello che è stato definito il c.d. minimo costituzionale (Cass. n. 944 del 2021, Cass. n. 20922 del 2018, Cass. n. 27138 del 2013, Cass. n. 162 del 2009, Cass. n. 15148 del 2008, Cass. n. 10465 del 2000, Cass. n. 3362 del 1992).

Da tanto deriva che venendo in rilievo un trattamento accessorio di derivazione collettiva alcuna lesione al principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. può ritenersi consumata per il solo fatto della soppressione del premio in oggetto con riferimento ai lavoratori ai quali era stato erogato fino al momento della disdetta dell’accordo aziendale.

Infine, non vi è spazio per l’applicazione dell’invocato principio di irriducibilità della retribuzione, che trova fondamento normativo nell’art. 2103 cod. civ., il quale implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non sia riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto, salvo che, in caso di legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello “ius variandi” (Cass. n. 19092 del 2017, Cass. n. 4055 del 2008, Cass. n. 16106 del 2003, ed anche Cass. 08/05/2008 n. 11362, in motivazione). Una volta esclusa, infatti, in ragione di quanto sopra osservato, la “incorporazione” nel contratto individuale del premio in questione, le relative vicende ed in particolare la questione della legittimità della sua soppressione per effetto della disdetta di una delle parti stipulanti, si colloca sul diverso piano della disciplina che regola le pattuizioni collettive e della facoltà di disdetta da un contratto collettivo riconosciuta alle parti firmatarie.

Ebbene, pur si si accogliesse la premessa – sostenuta dai lavoratori – che l’AIA 2007 non prevedeva alcuna facoltà di disdetta individuale a favore di ciascuna delle Parti contraenti e stabiliva che il rinnovo sarebbe stato oggetto di iniziative contrattuali, va tuttavia rilevato che i ricorrenti non hanno dimostrato, in conformità del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, di avere già ritualmente proposto nel giudizio di merito la problematica relativa alla legittimità della disdetta individuale della parte datoriale del contratto aziendale in oggetto, richiamando anche la specifica normativa di cui al d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 25 (Attuazione della direttiva 2002/14/CE che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori), ove l’informazione e la consultazione tra le Parti sociali sono configurate come metodo ordinario per le imprese con più di cinquanta dipendenti.

Ne consegue che la suddetta censura − proposta sia nel terzo sia nel quarto motivo – è inammissibile perché nel giudizio di cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito (vedi, per tutte: cass. SU 26 luglio 2018, n. 19874).

12. In altri termini, il tema – sviluppato in particolare nel quarto motivo – della possibile lesione del diritto dei lavoratori derivante dalle norme, anche internazionali e sovranazionali, che valorizzano la contrattazione collettiva come strumento di regolazione delle condizioni di lavoro, e impongono a tal fine la promozione di procedure di consultazione, non è stato affrontato dal giudice di appello e la relativa trattazione implicava la necessità di un accertamento di fatto in ordine alle condotte tenute da A. s.p.a., di coinvolgimento o meno delle organizzazioni sindacali e di altre eventuali iniziative, prima di disdettare l’accordo aziendale; pertanto, come già precisato al paragrafo 13, per evitare la sanzione di inammissibilità per violazione del divieto di novum si richiedeva la allegazione e dimostrazione che la questione era già stata ritualmente dedotta nelle fasi di merito denunziando rispetto alla stessa la omessa pronunzia, come viceversa non avvenuto.

Le considerazioni che precedono in punto di inammissibilità delle censure formulate con il quarto motivo escludono in radice la rilevanza della prospettata questione di costituzionalità.

13. D’altra parte, le modalità di deduzione del quarto motivo di ricorso non risultano coerenti con il criterio di specificità anche perché, a fronte della evocazione in rubrica non solo di singole disposizioni ma anche di interi e complessi testi normativi, articolati in più disposizioni (come per le Convenzioni OIL), delle quali alcune di valenza programmatica, costituiva onere dei ricorrenti chiarire in relazione a quale specifica previsione, si riteneva consumata la violazione denunziata, ritenuta per il solo fatto che era stata riconosciuta al soggetto datore di lavoro la facoltà di disdettare un accordo aziendale, non prevedente alcun termine di durata; in tale contesto, il riferimento alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in data 12 novembre 2008 tra Denya y Boykana contro Repubblica Turca, non appare pertinente posto che, in estrema sintesi, in quel giudizio, veniva in rilievo la questione del diritto dei dipendenti pubblici alla regolazione del rapporto attraverso contratto collettivo, possibilità giuridica che non è in alcun modo negata dalla sentenza qui impugnata.

Le considerazioni che precedono in punto di inammissibilità delle censure formulate con il quarto motivo escludono in radice la rilevanza della prospettata questione di costituzionalità.

14. In conclusione, va rigettato il ricorso principale e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. e sono liquidate come in dispositivo.

15. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 3.000,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.