CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 agosto 2022, n. 25682
Tributi – IRPEF – Prestazione in forma capitale erogata dal Fondo pensione integrativa – Regime di tassazione
Rilevato che
1. F.A., in qualità di dirigente dell’E. s.p.a. iscritto al Fondo Pensione Integrativa (P.I.A.), presentava istanza di rimborso IRPEF alla competente Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Asti, al fine di vedersi riconosciuto il rimborso (totale o parziale) di una ritenuta subita dal sostituto d’imposta, in quanto ritenuta erronea.
Esponeva che l’E., quale sostituto d’imposta, aveva indebitamente operato la ritenuta alla fonte IRPEF applicando la ritenuta prevista per il trattamento di fine rapporto sulla somma (pari ad € 892.704,58) erogatogli nell’anno d’imposta 2004 a titolo di previdenza integrativa sulla base dell’accordo E. – FNDAI del 16 aprile 1986 (con riferimento all’importo maturato fino al 31 marzo 1998), anziché nella misura del 12,50% sul capitale determinato al netto dei premi riscossi, ridotto del 2% per ogni anno successivo al decimo dall’accordo.
Formatosi sull’istanza in questione il silenzio-rifiuto, il sig. F. adìva la Commissione tributaria provinciale di Asti, chiedendo l’annullamento di tale silenzio-rifiuto e riproponendo la domanda di rimborso.
2. Con sentenza n. 56/21/2006 la Commissione tributaria provinciale di Asti accoglieva il ricorso proposto da F.A. avverso il silenzio-rifiuto sulla domanda di rimborso di somme indebitamente trattenute dall’E., in qualità di sostituto d’imposta, dichiarando sussistente il diritto al rimborso.
3. Proposto gravame dall’Ufficio, la Commissione tributaria regionale del Piemonte, con sentenza n. 24/26/2008, depositata il 30 luglio 2008, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle entrate, compensando le spese di giudizio.
4. Proposto ricorso per cassazione dal contribuente, la S.C., con ordinanza n. 2454 del 20 febbraio 2012, accoglieva il ricorso per quanto di ragione e rinviava per nuovo giudizio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte. La Corte, infatti, rilevava che «per gli importi di cui qui trattasi, maturati a favore del ricorrente fino al 31.12.2000, compete l’assoggettamento al regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, co. 1, lett. a), e 17 del TUIR, solo per quanto riguarda la sorte capitale corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dall’art. 6 della legge n. 482 del 1985»; rinviava, pertanto, alla C.T.R. del Piemonte, in diversa composizione, affinché accertasse anno per anno la reale natura dell’attribuzione su cui doveva essere applicata la tassazione.
5. Riassunto quindi il giudizio nell’interesse del contribuente, la C.T.R. del Piemonte, con sentenza n. 851/36/2014, pronunciata il 1° aprile 2014 e depositata il 2 luglio 2014, rigettava l’appello proposto dall’Ufficio, confermava la decisione di primo grado impugnata, rideterminando l’ammontare delle somme da rimborsare in € 144.486,98, oltre interessi come per legge, con compensazione integrale delle spese di lite.
6. Avverso tale ultima sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso F.A..
7. La discussione del ricorso è stata quindi fissata per la camera di consiglio del 9 giugno 2022, ai sensi degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1 cod. proc. civ., come introdotti dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Il controricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
8. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nonché degli artt. 384 e 115 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4), cod. proc. civ., per non essersi la C.T.R. conformata al principio di diritto espresso dalla precedente pronuncia di questa Corte n. 2454 del 20 febbraio 2012, ed in particolare per non avere effettuato l’accertamento richiesto dal S.C., riguardante l’esistenza di una quota di “rendimento netto”, derivante dalla gestione sul mercato finanziario del capitale accantonato da parte del fondo, in quanto solo a quest’ultima era applicabile l’aliquota agevolata del 12,50%.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 5) cod. proc. civ., per essersi basata, la C.T.R., per la quantificazione del rendimento, su una perizia di parte e su un documento contenente i criteri per la ricostruzione del rendimento, che tuttavia indicavano soltanto un rendimento ipotetico, e non effettivamente realizzato.
9. I due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono fondati.
9.1. L’ordinanza di questa Corte n. 2545 del 20 febbraio 2012 ha cassato la precedente sentenza della C.T.R. del Piemonte, stabilendo che la ritenuta del 12,50%, prevista dall’art. 6 della legge 26 settembre 1985, n. 482, debba essere applicata solo sulle somme rivenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento, per tale dovendo intendersi – secondo quanto stabilito dalla sentenza delle sezioni unite di questa Corte del 22 giugno 2011, n. 13642 – il “rendimento netto” imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato.
Orbene, ciò posto, il problema che si pone, nella specie, è quello relativo alla individuazione di tale rendimento netto.
La elaborazione pretoria di questa Corte ha ritenuto che tale nozione debba essere individuata negli importi rivenienti dall’effettivo investimento sul mercato, da parte del fondo, del capitale accantonato (ex aliis, Cass. 29 dicembre 2011, n. 29583; Cass. 12 gennaio 2012, n. 280; Cass. 04 aprile 2012, n. 5376; Cass. 25 maggio 2012, n. 8320; Cass. 27 marzo 2013, nn. 7724-7728; Cass. 22 maggio 2013, nn. 12491-12496; Cass. 2 ottobre 2013, n. 22492; Cass. 9 ottobre 2013, n. 22950; Cass. 12 febbraio 2014, n. 3132; Cass. 12 febbraio 2014, n. 3136; Cass. 19 marzo 2014, n. 6380; Cass. 9 aprile 2014, n. 8310; Cass. 4 febbraio 2015, n. 1977; Cass. 22 maggio 2015, n. 10604; Cass. 13 gennaio 2017, n. 720).
Con la precisazione che l’assoggettamento di detto “rendimento” al più favorevole trattamento impositivo, previsto dall’art. 6 della legge n. 482/1985, non discende da una diretta riconduzione a detta norma della fattispecie, ma è giustificato dalla equiparazione tra i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e (quelli corrisposti in dipendenza di contratti) di capitalizzazione sancita dall’art. 41 (ora 44, comma 1, lett. g-quater), e art. 42 (ora 45), comma 4, del T.U.I.R. (Cass. 26 aprile 2017, n. 10285; Cass. 18 ottobre 2017, n. 24525; Cass. 2 marzo 2018, n. 4941; Cass. 7 marzo 2018, n. 5436).
Più specificamente, si è ritenuto che integrino il c.d. rendimento netto «le somme derivanti dall’effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato, non anche quelle calcolate attraverso l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate» (così, oltre alle citate Cass. n. 10285 del 2017 e Cass. n. 24525 del 2017, Cass. 2 aprile 2018 n. 4943; Cass. 19 giugno 2018 n. 16116; Cass. 24 luglio 2018 n. 19621; Cass. 30 ottobre 2018 n. 27585).
Di recente, poi, si è altresì puntualizzato che, da un lato, il “rendimento” è configurabile pure in relazione ai capitali maturati ed agli investimenti effettuati anteriormente alla trasformazione (avvenuta nell’anno 1998) del fondo da P.I.A. a F. e che, dall’altro, il requisito del “rendimento” non va circoscritto ai soli (eventuali) investimenti nel mercato finanziario (valori mobiliari, strumenti finanziari), potendo assumere rilievo a tale scopo anche altri tipi di mercato, quale quello immobiliare. (Cass. 18 aprile 2019, n. 10907; Cass. 3 maggio 2019, n. 11637; Cass. 7 novembre 2019, n. 28688).
Resta in ogni caso esclusa l’operatività della minore tassazione rispetto alle somme versate dal contribuente a fondi previdenziali che non abbiano mai investito sul mercato; del pari, non può qualificarsi come “rendimento” quello corrispondente alla redditività sul mercato dell’intero patrimonio E. (rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito), poiché tale coerenza rappresenta il risultato di un predeterminato calcolo di matematica attuariale e non già il frutto dell’investimento di accantonamenti sul libero mercato (Cass. 19 giugno 2018, n. 16116-16117-16118 che, in motivazione, richiamano la relazione n. 32/1999 della Corte dei Conti – sezione del controllo sugli enti – proprio sul bilancio consuntivo dell’E. relativo all’esercizio finanziario 1997; Cass. 15 giugno 2018, n. 15853; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27610; Cass. 12 novembre 2019, n. 29205).
9.2. Ora, dal punto di vista processuale, il contribuente che impugna il rigetto dell’istanza di rimborso è attore in senso sostanziale, come tale onerato di provare il fondamento della pretesa azionata, cioè a dire tenuto a dimostrare: i) se il fondo abbia impiegato sul mercato il capitale accantonato; ii) quale (e quanto) sia stato il rendimento di gestione conseguito da tale impiego; iii) in qual modo sia stata determinata l’assegnazione delle eventuali plusvalenze alle singole quote individuali del fondo attribuite al dipendente, onde individuare la parte dell’indennità ricevuta da ascrivere a rendimenti da investimenti sul mercato (oltre alle pronunce citate sopra, vedi Cass. 2 aprile 2020, n. 7660; Cass. 28 febbraio 2020, n. 5494; Cass. 18 novembre 2020, n. 26198; Cass. 23 novembre 2020, n. 26543).
E, come ha espressamente precisato questa Corte, siffatto onere probatorio non può ritenersi sufficientemente assolto tramite il mero rinvio al conteggio proveniente dall’E., prodotto dal contribuente, che non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per la quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass. 15 marzo 2017, n. 13278; Cass. 16 marzo 2017, n. 13281; Cass. 26 marzo 2019, n. 8429; Cass. 20 ottobre 2020, n. 22847).
Nella specie, la stessa deduzione del contribuente, che pone a fondamento dell’istanza il c.d. rendimento di polizza, esclude in radice la prova che il rendimento ottenuto sulle somme accantonate nel fondo di previdenza integrativa sia stato ricavato dal loro investimento sul mercato.
9.3. Così tratteggiato il perimetro della causa, è evidente che la sentenza impugnata non si è attenuta ai princìpi di diritto enunciati dalla precedente sentenza di questa Corte, poiché, in sostanza, senza spiegarne la ragione, ha ritenuto provato tout court il diritto al rimborso, mentre questo aspetto cruciale avrebbe dovuto essere oggetto di puntuale dimostrazione, nel giudizio di merito, con onere della prova a carico del contribuente. In altri termini, l’errore commesso dalla C.T.R. sta nell’avere dato per non contestato, in aderenza alla tesi dell’attore sostanziale, che esistesse un rendimento del capitale accantonato nel Fondo P.I.A., senza verificare, da un lato, l’an dell’investimento, ossia l’effettivo impiego sul mercato (finanziario o dei valori mobiliari) del capitale accantonato (nel Fondo PIA); dall’altro, ove appurata una simile destinazione del capitale, il quantum del rendimento, visto che soltanto tale importo era assoggettabile alla tassazione agevolata del 12,50%.
9.4. Proprio con riferimento al tema della prova, del tutto negletto dal giudice d’appello, merita ricordare l’ormai consolidato indirizzo sezionale, del quale in parte si è dato conto in precedenza, che esclude che la prova del rendimento del capitale accantonato possa consistere nella certificazione E. della redditività, sul mercato, dell’intero patrimonio netto dell’impresa, poiché tale evidenza esprime una mera operazione matematica e non è il frutto dell’investimento di quegli accantonamenti sul libero mercato. In particolare, nel solco della giurisprudenza di questa Corte, si rileva che dalla certificazione E. non è possibile trarre elementi probatori idonei a dimostrare che il capitale accantonato del contribuente ha costituito una “posizione individuale” ed è stato investito sul mercato di riferimento (finanziario, mobiliare, o altro mercato).
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente precisato che né la certificazione E. né la consulenza di parte assolvono all’onere probatorio, spettante al contribuente che agisca per vedere riconosciuto il suo diritto al rimborso, poiché non recano alcuna specificazione dei criteri utilizzati per la quantificazione della voce “rendimento”, sì da chiarire se si tratti effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass. 4 maggio 2021, nn. 11611, 11612; Cass. 28 aprile 2021, n. 11171; Cass. 19 luglio 2021, n. 20617). Il prospetto E. certifica esclusivamente la differenza tra il totale del capitale lordo da liquidare e la somma di dotazione iniziale. Quello indicato nella certificazione E., allora, è il rendimento ottenuto corrispondente alla redditività conseguita sul mercato dell’intero patrimonio dell’E.. In relazione a questo aspetto della lite, è decisiva la sottolineatura di Cass. 21 ottobre 2021, n. 29479, che ricorda, con estrema chiarezza, come «nella nota del 28 aprile 2014 dell’E. si afferma che la P.I.A. “non ha potuto né, tantomeno, avrebbe potuto svolgere – quale Fondo interno con accantonamento a bilancio E. – un’attività di investimento sui mercati finanziari. Pertanto, nessun rendimento derivante dall’investimento, da parte del Fondo P.I.A., sui mercati finanziari è ipotizzabile”. La configurabilità di un “rendimento netto”, imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato risulta incompatibile con il tenore letterale dell’accordo E./FNDAI del 16 aprile 1986, in quanto l’importo della prestazione spettante al dirigente era predeterminato in anticipo sulla base del rapporto tra l’ultima retribuzione e la pensione. Il rendimento altro non è che la mera differenza da quanto affluito nel Fondo PIA e quanto erogato in concreto ai dirigenti». Simili conclusioni, del resto, sono asseverate dalla relazione n. 32/1999 della Corte dei conti – sezione del controllo sugli enti – proprio sul bilancio consuntivo di E., relativo all’esercizio finanziario 1997 (Cass. 19 giugno 2018, n. 16116; Cass. 13 novembre 2019, n. 29396; Cass. 23 novembre 2020, n. 26543).
9.5. In conclusione, deve ritenersi che la C.T.R., in sede di rinvio, non abbia fatto corretta applicazione del principio di diritto formulato da questa Corte. Infatti, ha affermato, in modo del tutto contraddittorio, che il rendimento netto derivante dalla gestione sul mercato del capitale accantonato fosse da identificare con il rendimento della polizza. In particolare, la Commissione regionale ha ritenuto che «lo specifico riferimento al rendimento di polizza e la provenienza di tale affermazione dalla corte di legittimità non lascia dubbi di alcun genere circa l’individuazione di tale forma di rendimento con quello che i capitali raccolti dal fondo pensionistico possano avere avuto dall’investimento sul mercato finanziario. E’ dunque chiara l’identificazione del rendimento netto, imputabile alla gestione sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato con le somme corrispondenti a rendimento di polizza (nella fattispecie P.IA.)». A tal proposito, va rilevato che è del tutto contraddittorio affermare che vi sarebbe stata una gestione del capitale accantonato nei fondi sul mercato finanziario, per poi determinare tale rendimento facendo una equiparazione al rendimento di polizza, posto che non risultano effettuati investimenti nel mercato finanziario, mentre il “rendimento” è stato determinato con la tecnica attuariale propria del regime assicurativo. Pertanto, il giudice del rinvio, non si è attenuto al principio di diritto enucleato da questa Corte, limitandosi ad affermare che l’importo corrisposto al contribuente avesse natura di “rendimento”, senza però specificare le ragioni per cui vi sarebbe stata la prova che parte del capitale accantonato era stato investito nei “mercati finanziari”.
9.6. In particolare, la Commissione regionale, in sede di rinvio, ha affermato apoditticamente che, nel caso in esame, «il rendimento netto sopra richiamato va determinato, come specificato da parte contribuente nella documentazione prodotta (allegato 3), nella somma pari ad € 706.537,80 e, conseguentemente, la medesima va assoggettata all’aliquota del 12,50%», identificando, quindi, il capitale liquidato con il rendimento netto.
La Commissione regionale, in sede di giudizio di rinvio, non ha, dunque, provveduto, in alcun modo, all’esame degli elementi di fatto, idonei a verificare se gli accantonamenti del fondo fossero stati investiti nel mercato finanziario o in quello di “riferimento”, né nei mercati mobiliari o immobiliari. E’, però, certo da escludere che tale requisito possa considerarsi soddisfatto dall’essere il rendimento ottenuto corrispondente alla redditività ottenuta sul mercato dell’intero patrimonio dell’E., poiché tale valore costituisce il risultato di una mera operazione matematica e non effettivamente il frutto dell’investimento di quegli accantonamenti nel libero mercato.
9.7. La Commissione tributaria, inoltre, non ha tenuto conto del fatto che grava sul contribuente che impugna una istanza di rimborso l’onere di provare quale sia la parte dell’indennità ricevuta ascrivibile a rendimenti frutto d’investimento sui mercati di riferimento, senza che detto onere probatorio possa ritenersi sufficientemente assolto tramite il mero rinvio al conteggio proveniente dall’E., prodotto dal contribuente, che non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per la quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass. n. 16116/2018).
Inoltre, effettivamente il contribuente, sin dal ricorso introduttivo, non ha neppure allegato che i contribuiti affluiti nel fondo P.I.A. fossero stati investiti nel mercato finanziario o di riferimento. Peraltro, non risulta che, nella vigenza della P.I.A., l’E. abbia impiegato i contributi sul mercato finanziario, ma essa si è limitata ad accantonare in bilancio, secondo le tecniche assicurative, la somma presumibilmente necessaria per far fronte agli obblighi derivanti dall’accordo del 16 aprile 1986. Il rendimento, quindi, non discende da uno specifico investimento sul mercato dei capitali affluiti del fondo P.I.A., in relazione alla singola e specifica posizione del contribuente, ma la redditività della riserva matematica deriva dal risultato della complessiva attività produttiva svolta dall’E..
10. In conclusione, i due motivi di ricorso devono essere accolti.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, poiché la vicenda fiscale è stata sviscerata anche sul piano dell’apprezzamento del materiale probatorio da parte dei giudici di merito, e in ossequio al principio della ragionevole durata del processo, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con il rigetto del ricorso introduttivo.
11. In ragione dell’epoca di formazione dell’indirizzo giurisprudenziale di riferimento, debbono essere compensate, tra le parti, le spese dei gradi di merito e quelle del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso proposto in primo grado da F.A..
Compensa integralmente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio.