CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 dicembre 2021, n. 42097
Rapporto di lavoro – Illegittima disapplicazione del contratto integrativo interaziendale – Pagamento della parte variabile del premio di partecipazione
Rilevato che
1. Con sentenza n. 1542 depositata il 14/6/2019 la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia del Tribunale di Viterbo, ha dichiarato – nell’ambito di una procedura di opposizione a decreto ingiuntivo – l’illegittima disapplicazione del contratto integrativo interaziendale della società Ceramica A. nei confronti di D. V. C., con conseguente condanna al pagamento della parte variabile del premio di partecipazione per i mesi di luglio e ottobre 2013 nonché di gennaio 2014.
2. La Corte territoriale ha ritenuto che gli elementi istruttori, di fonte documentale, dimostravano che la società – anche dopo l’anno 2010 e, comunque, successivamente all’atto di disdetta di adesione all’associazione nazionale di rappresentanza delle imprese manifatturiere e di servizi – Confindustria – aveva continuato ad erogare ai lavoratori diverse voci retributive e/o incentivanti e/o indennitarie previste dal contratto integrativo interaziendale, sicché risultava illegittimo il rifiuto di pagare l’ulteriore voce; inoltre, il contratto integrativo interaziendale aveva termine annuale di efficacia (con clausola di rinnovo anno per anno, salvo disdetta), contratto a tempo determinato avverso il quale non era configurabile la libera recedibilità.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre la società affidandosi a tre motivi di ricorso. Resiste il lavoratore con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1372, 1373, 1375 cod.civ. e 36 Cost. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che i contratti collettivi sono contratti di diritto comune e che la formale disdetta all’iscrizione a Confindustria comportava una legittima disapplicazione del contratto integrativo interaziendale del 17/11/2004 che la società non aveva mai sottoscritto; né la continua applicazione di alcune voci retributive (elementi fissi) previste dal suddetto contratto integrativo interaziendale non legittimava il lavoratore ad avere aspettative sull’applicazione di tutte le clausole del contratto. L’erogazione della componente variabile del premio di partecipazione rappresentava esclusivamente un’adesione obbligata quale società iscritta a Confindustria, né può ritenersi che tale componente costituisse la retribuzione minima sufficiente garantita dalla Costituzione.
2. Con il secondo motivo di ricorso la società denuncia nullità della sentenza ai sensi degli artt. 132 cod.proc.civ. e 111 Cost. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato di fornire la motivazione relativamente alla statuizione di accoglimento del motivo di appello del lavoratore in base alla quale la libera recedibilità dal contratto collettivo è configurabile solo se questo è a tempo indeterminato, non anche se è a tempo determinato.
3. Con il terzo motivo di ricorso la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1322, 1363, 1372, 1373, 1375, 2070 cod.civ., 2 e 36 Cost. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che, nel regime dei contratti di diritto comune (come ampiamente esposto nel primo motivo), era sufficiente – al fine della disapplicazione del contratto integrativo – la disdetta data a Confindustria il 19/11/2008, non essendo intervenuta alcuna adesione tacita o clausola d’uso né era rinvenibile nei contratti di assunzione alcun richiamo al contratto integrativo, con conseguente esplicita volontà di non voler più riconoscere la parte variabile del premio di produzione da giugno 2013. La Corte territoriale, inoltre, ha erroneamente ritenuto di applicare l’art. 2070 cod.civ. considerando la parte variabile del premio di partecipazione un elemento minimo retributivo stabilito dalla contrattazione collettiva, trascurando che trattasi invece di un compenso aggiuntivo della retribuzione (che non rientra dunque nei minimi retributivi di cui all’art. 36 Cost.).
4. Le questioni esposte nel ricorso sono state decise da questa Corte, nei confronti della medesima società ricorrente, con le sentenze nn. 27922 e 27923 del 2021, che questo Collegio condivide e ritiene di confermare, non essendo stati avanzati motivi diversi da quelli già esaminati.
5. Deve, pertanto ritenersi che il primo ed il terzo motivo, che vanno trattati congiuntamente per stretta connessione, non sono fondati.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che i contratti collettivi postcorporativi di lavoro, che non siano stati dichiarati efficaci erga omnes ai sensi della L. 14 luglio 1959, n. 741, costituiscono atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole al singolo rapporto. Ne consegue che, ove una delle parti faccia riferimento, per la decisione della causa, ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, non efficace erga omnes, in base al rilievo che a tale contratto entrambe le parti si erano sempre ispirate per la disciplina del loro rapporto, il giudice del merito ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata (Cass. n. 10213 de 2000; Cass. n. 10375 del 2001; da ultimo, Cass. n. 24336 del 2013; Cass. n. 14944 del 2014; Cass. n. 18408 del 2015; Cass., Sezioni Unite, n. 2665 del 1997)
Ebbene, la Corte di merito ha affermato che la società, anche dopo l’anno 2010, “ha continuato ad erogare tante e significative voci retributive e/o incentivanti e/o indennitarie, previste proprio dal contratto integrativo interaziendale (come “ex ristrutturazione salariale”, “premio di produzione”, “premio di produttività e qualità”, “premio di partecipazione – parte fissa”, “buoni pasto”)”. Dalla costante e prolungata applicazione di tali istituti ha desunto che la ricorrente, pur avendo dato la disdetta dall’associazione sindacale dei datori di lavoro (Confindustria), implicitamente avesse mantenuto l’applicazione della contrattazione collettiva.
Tale decisione è rispettosa dei principi sopra richiamati e resiste alla censura della società ricorrente, tenuto pure conto che, come più volte affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 24336 del 2013, 10213 del 2000, 10375 del 2001) la valutazione che porta a ritenere sussistente l’implicito recepimento di un contratto collettivo attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole al singolo rapporto costituisce un accertamento di fatto spettante al giudice di merito, insindacabile in questa sede.
Nel caso in esame, la Corte di merito ha compiuto siffatta valutazione, pervenendo alla conclusione della adesione implicita, da parte della società Ceramica A., alla contrattazione collettiva.
Peraltro, la società ricorrente nemmeno indica ulteriori istituti contrattuali (del contrato integrativo interaziendale) dalla medesima non applicati (oltre al premio di partecipazione – parte variabile) al fine di escludere tale adesione, limitandosi ad affermare che per conseguire tale effetto fosse necessaria una costante e prolungata applicazione di “tutte” le clausole pattizie.
6. Il secondo motivo, che attiene alla seconda ratio decidendi, è assorbito.
7. In conclusione, il ricorso va respinto e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
8. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 1.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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