CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 gennaio 2019, n. 2902
Dichiarazioni fiscali – Imposte indirette – IVA – Pro-rata – Istanza di rimborso – Accertamento – Contenzioso tributario
Rilevato che
dall’esame degli atti difensivi delle parti (pagg. 1 e 2 del ricorso; pag. 2 e 3 del controricorso) si evince che nelle dichiarazioni Iva, relative ai periodi di imposta 1983 e 1984, la contribuente aveva computato nel calcolo del pro-rata, di cui all’art. 19 del d.P.R. n. 633/1972, anche le vendite di titoli dalla stessa amministrati ed effettuate su mandato dei fiducianti; successivamente, la contribuente aveva presentato istanza di rimborso per le somme versate in eccedenza, atteso che le suddette operazioni non costituivano oggetto dell’attività propria dell’impresa o accessoria ad operazioni imponibili, secondo quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 19, cit.; avverso il silenzio-rifiuto dell’amministrazione finanziaria la contribuente aveva proposto separati ricorsi; la Commissione tributaria di primo grado di Firenze, previa riunione, aveva accolto i ricorsi; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello l’Agenzia delle entrate; la Commissione tributaria di secondo grado di Firenze aveva rigettato l’appello; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto ricorso l’Agenzia delle entrate dinanzi alla Commissione tributaria centrale, sezione di Firenze;
la Commissione tributaria centrale, sezione di Firenze, ha rigettato il ricorso, in particolare ha ritenuto che, trattandosi di società fiduciaria, le operazioni erano state effettuate per conto terzi e correttamente contabilizzate nel bilancio, sicché, ai fini del calcolo della percentuale di riduzione delle operazioni esenti, trovava applicazione l’art. 19, ultimo comma, del d.P.R. n. 633/1972; avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte l’Agenzia delle entrate affidato ad un unico motivo di censura, cui ha resistito la contribuente depositando controricorso e successiva memoria; considerato che:
va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto dalla controricorrente per mancanza del requisito dell’autosufficienza, atteso che dall’esame del ricorso è chiaramente evincibile il fatto controverso, sì da consentire a questa Corte di intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo;
in particolare, parte ricorrente ha precisato espressamente quale era la ragione della richiesta di restituzione operata dalla contribuente ed ha evidenziato che la presente controversia aveva ad oggetto la corretta applicazione del meccanismo del pro-rata di cui all’art. 19, commi 3 e 5, del d.P.R. n. 633/1972, nel caso di società fiduciarie, riproducendo il contenuta della sentenza censurata, consentendo, quindi, a questa Corte di avere chiara conoscenza della questione sottesa alla ragione di censura prospettata;
con l’unico motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 19, commi 3 e 5, del d.P.R. n. 633/1972, per avere erroneamente ritenuto che, atteso che le operazioni erano state effettuate dalla società fiduciaria per conto terzi, le stesse non dovevano essere prese in considerazione per la determinazione dell’ammontare delle operazioni esenti ai fini del calcolo di riduzione della detrazione d’imposta di cui alla citata previsione normativa; il motivo è fondato;
la questione in esame è stata già affrontata da questa Corte (Cass. civ., Sez. V, 27 agosto 2001, n. 11267) che si è pronunciata sulla controversia relativa alle stesse parti ed avente ad oggetto la domanda proposta dalla controricorrente di restituzione dell’importo versata in eccesso rispetto all’Iva dovuta per l’anno 1985;
la pronuncia in esame, in particolare, ha precisato che:
la cessione dei titoli fiduciariamente intestati deve, ai fini dell’Iva, essere imputata alla società fiduciaria, in quanto, sebbene “effettivi proprietari” dei beni affidati alla società fiduciaria sono i fiducianti (art. 1, ultimo comma, del R.D. 29 marzo 1942, n. 239), rileva la circostanza che l’intestazione del titolo al nome della società fiduciaria ha carattere “formale”, estrinsecandosi nell’attribuzione della legittimazione all’esercizio di diritti altrui (Cass., 10 dicembre 1984, n. 6478; 21 maggio 1999, n. 4943; 14 ottobre 1997, n. 10031);
tale profilo assume particolare rilievo, in quanto l’applicazione delle previsioni normative in tema di IVA è legata a presupposti di carattere formale, che non consentono di distinguere tra la titolarità effettiva del fiduciante e quella formale del fiduciario, come si ricava dall’art. 2, secondo comma, n. 3, e dall’art. 13, secondo comma, lett. b), del D.P.R. n. 633 del 1972, che, ricomprendendo tra le operazioni imponibili anche “i passaggi dei beni dal committente al commissionario o dal commissionario al committente”, escludono che le vendite e gli acquisti effettuati in esecuzione di contratti di commissione possano essere imputati direttamente al committente. Tale principio non opera solo nei rapporti tra committente e commissionario, ma si estende ad ogni ipotesi in cui il soggetto passivo agisce in nome proprio ma nell’interesse di altro soggetto, come si desume dall’art. 3, terzo comma, e dall’art. 13, terzo comma, lett. b), dello stesso decreto che, in linea con quanto stabilito dal legislatore comunitario (art. 6, quarto paragrafo, Dir. 77/388/CEE del 17 maggio 1977) considerano il mandatario senza rappresentanza quale “operatore in proprio”;
l’attribuzione della qualifica di soggetto passivo dell’imposta al fiduciario è, quindi, applicabile anche alle operazioni effettuate dal fiduciario nell’interesse del fiduciante, posto che anche tali atti, pur nella loro peculiarità, debbono essere inquadrati nel più ampio schema della interposizione gestoria (Cass., 23 giugno 1998, n. 6246);
non rileva la tesi difensiva di parte controricorrente, secondo cui, essendo l’intestazione fiduciaria dei titoli finalizzata esclusivamente all’amministrazione dei titoli, l’acquisto e la vendita di tali beni sarebbe estranea all’attività tipica della società fiduciaria, sicché non potrebbero essere considerate ai fini della determinazione del volume di affari, in quanto il potere di disporre dei beni affidati non può essere considerato incompatibile con l’incarico conferito alla società fiduciaria, purché esso non sia tale da comportare l’affidamento dei beni consegnati alla sua libera disponibilità, al di fuori di ogni possibilità di intervento da parte dei fiducianti;
il potere di disposizione non può dirsi, infatti, estraneo all’attività di amministrazione, dal momento che quest’ultima, anche quando non sia riferita all’esercizio di un’attività d’impresa, non è limitata al godimento e alla conservazione dei singoli beni “amministrati” ma si estende, sia pure con alcune limitazioni, al compimento di atti che comportano una modifica patrimoniale di carattere permanente e che, in quanto tali, vanno qualificati come atti di disposizione (arg. ex artt. 54, 320, 371, 394 c.c.);
la suddetta ricostruzione interpretativa, peraltro, trova conforto nel successivo intervento normativo del legislatore che, nel disciplinare l’attività di intermediazione mobiliare, ha riconosciuto espressamente che le società fiduciarie potessero (continuare a) svolgere, fino all’entrata in vigore della legge di riforma, “attività di, gestione di patrimoni mediante operazioni aventi per oggetto valori mobiliari in nome proprio e per conto di terzi” (art. 17, legge 2 gennaio 1991, n. 1; art. 60, quarto comma, D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415; art. 199, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58);
non rileva, pertanto, la considerazione espressa dalla contribuente nel controricorso, ribadita in memoria, della necessità di distinguere tra società fiduciaria “c.d. statica” (la cui attività è limitata all’amministrazione e custodia dei beni) e società fiduciaria “c.d. dinamica” (la cui attività, in virtù di un mandato generale, si estende alla gestione dei beni ad essa fiduciariamente intestata, con potere di acquisto e di vendita di titoli e delle altre attività ricevute, al fine di massimizzare il valore del patrimonio ricevuto in gestione), posto che, come detto, il potere di gestione non può dirsi estraneo all’attività di amministrazione;
in questo contesto, peraltro, concernente la verifica se una determinata operazione attiva rientri o non nell’attività propria di una società, ai fini dell’inclusione nel calcolo della percentuale detraibile in relazione al compimento di operazioni esenti, questa Corte (Cass. civ. Sez. V, Sent., 24 marzo 2017, n. 7654; conf. Cass. civ. 16 marzo 2018, n. 6486) ha precisato che occorre avere riguardo non già all’attività previamente definita dall’atto costitutivo come oggetto sociale, ma a quella effettivamente svolta dall’impresa, in quanto, ai fini dell’imposta, rileva il volume d’affari del contribuente, costituito dall’ammontare complessivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi compiute, e, quindi, l’attività in concreto esercitata (Cass. 9 marzo 2016, n. 4613; 14 marzo 2014, n. 5970; 13 novembre 2013, n. 25475); sulla medesima linea interpretativa, si è precisato (Cass. civ. Sez. V, 16 marzo 2018, n. 6486) che, «per verificare se una determinata operazione attiva rientri o meno nell’attività propria di una società, ai fini dell’inclusione nel calcolo della percentuale d’imposta detraibile in relazione al compimento di operazioni esenti (cosiddetto “prò rata”), occorre avere riguardo non già all’attività previamente definita dall’atto costitutivo come oggetto sociale, ma a quella effettivamente svolta dall’impresa: ai fini dell’imposta, rileva infatti il volume d’affari del contribuente, costituito dall’ammontare complessivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi dallo stesso effettuate, e quindi l’attività in concreto esercitata.” (Cass. n.6574/2008; cfr. anche nn. 912/2006, 17226/2006, 19484/2009, 22243/2009) e che, pertanto, oltre agli atti che tipicamente esprimono il raggiungimento del fine produttivo enunciato nell’atto costitutivo dell’ente, occorre avere riguardo anche a quelle attività ulteriori che si raccordino con detto fine secondo parametri di regolarità causale, o che siano comunque ad esso legate da un nesso di carattere funzionale non meramente occasionale (Cass. 6194/01, 9762/03, 11073/06, 6574/08, 5970/2014) (precedenti specifici Cass. n. 4613/2016, 7654/2017); il suddetto orientamento risulta in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 14 dicembre 2016, causa C-378/15, Mercedes Benz) che ha chiarito che la disposizione di cui all’art. 17, paragrafo quinto, comma 3, della sesta direttiva, (che consente agli Stati membri di ricorrere a metodi di determinazione del diritto di detrazione specifici, di carattere derogatorio) là dove si riferisce alla cifra d’affari, ha riguardo al complesso dei beni e dei servizi utilizzati dal soggetto passivo, senza che sia necessario che tali beni e servizi servano ad effettuare sia le operazioni che conferiscono il diritto di detrazione, sia quelle che non lo conferiscono;
In base, quindi, al regime derogatorio applicato dal legislatore interno, non occorre che i beni ed i servizi siano utilizzati dal soggetto passivo per il compimento sia delle operazioni che conferiscono il diritto di detrazione, sia di quelle che non lo conferiscono, ma diviene decisiva, ai fini del calcolo della percentuale di detraibilità dell’iva sugli acquisti, la composizione della cifra d’affari del soggetto passivo: a tal fine si deve tener conto del rapporto tra le operazioni accessorie e le attività imponibili di tale soggetto passivo e soltanto eventualmente dell’impiego che esse implicano dei beni e dei servizi per i quali l’iva è dovuta (Corte giust. in causa C-378/15, punto 49);
con il suddetto arresto, la Corte di giustizia ha quindi precisato che la normativa comunitaria non osta a una normativa e a una prassi nazionali, come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, che impongono a un soggetto passivo: – di applicare alla totalità dei beni e dei servizi da esso acquistati un prorata di detrazione basato sulla cifra d’affari, senza prevedere un metodo di calcolo che sia fondato sulla natura e sulla destinazione effettiva di ciascun bene e servizio acquistato e che rifletta oggettivamente la quota di imputazione reale delle spese sostenute a ciascuna delle attività tassate e non tassate; e – di riferirsi alla composizione della sua cifra d’affari per l’individuazione delle operazioni qualificabili come «accessorie», a condizione che la valutazione condotta a tal fine tenga conto altresì del rapporto tra dette operazioni e le attività imponibili di tale soggetto passivo nonché, eventualmente, dell’impiego che esse implicano dei beni e dei servizi per i quali l’imposta sul valore aggiunto è dovuta;
né può assumere rilevanza la linea difensiva della controricorrente, che si fonda sull’orientamento espresso dall’Amministrazione finanziaria con la risoluzione 11 novembre 2002, n. 352, tenuto conto che lo stesso è stato espresso alla luce del mutato quadro normativo di riferimento relativo all’attività delle società fiduciarie, già definito dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966, e poi modificato con la legge 2 gennaio 1991, n. 1, che ha provveduto a riformare i mercati finanziari attribuendo, in esclusiva, ad un nuovo soggetto, la società di intermediazione mobiliare (in breve SIM), l’esercizio professionale di attività come la negoziazione di titoli, il collocamento e la distribuzione dei medesimi, nonché la gestione di portafogli;
è infatti in considerazione del fatto che il parere è stato espresso alla luce del mutato quadro normativo di riferimento che la stessa Amministrazione finanziaria ha in esso precisato che è da rilevare che l’interpretazione appena enunciata non contraddice la sentenza della Corte di Cassazione n. 11267 del 27 agosto 2001, nella quale si conclude a favore della concorrenza delle operazioni in questione alla formazione del pro-rata. Tale sentenza, infatti, si riferisce ad una fattispecie risalente al 1985, quindi ad un’epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 1 del 1991, e affronta la questione alla luce della normativa in vigore a quel tempo (legge n. 1966 del 1939), la quale, come sopra illustrato, permetteva a tutte le società fiduciarie di esercitare un’attività di gestione di portafogli titoli sulla base di un mandato generale di disposizione sui patrimoni dei clienti;
la sentenza in esame, pertanto, pronunciandosi relativamente ad una richiesta di rimborso Iva relativa agli anni 1983 e 1984, quindi su una controversia anteriore alla modifica normativa sopra indicata, non è in linea con l’interpretazione delle norme di riferimento sopra illustrata, sicché la stessa è viziata per violazione di legge;
deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: «Nel caso di operazioni di disposizione di titoli eseguite da una società fiduciaria su mandato dei propri clienti, per verificare se le suddette operazioni rientrino o non nel calcolo della percentuale detraibile, occorre avere riguardo non già all’attività previamente definita dall’atto costitutivo come oggetto sociale, ma a quella effettivamente svolta dall’impresa, dovendosi avere riguardo al volume d’affari della contribuente»;
ne consegue l’accoglimento del motivo di ricorso e la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso proposto dalla contribuente dinanzi al giudice di primo grado e compensazione delle spese di lite per i giudizi di merito e condanna della controricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della ricorrente per il presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso proposto dalla contribuente dinanzi al giudice di primo grado, compensa le spese di lite relative ai giudizi di merito e condanna la controricorrente al pagamento in favore della ricorrente delle spese di lite del presente giudizio che si liquidano in complessive euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.
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