CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 gennaio 2022, n. 2870
Licenziamento per giusta causa – Svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro – Grave atto di insubordinazione – Lesione del vincolo fiduciario
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 4617 pubblicata il 13.12.2018, giudicando in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 13613/2017) ha respinto la domanda di G. S. D.V., di impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli da F. spa in data 19.12.2008;
2. la sentenza rescindente (Cass. n. 13613/17) ha dato atto che al ricorrente, impiegato di VII livello con mansioni di Area Manager, erano stati contestati, oltre a un calo di produttività, fatti di rilievo disciplinare consistiti: nell’avere portato sul luogo di lavoro per commercializzarli capi di biancheria intima; nell’essersi recato in due occasioni durante l’orario di lavoro presso l’esercizio commerciale gestito dalla s.r.l. M., della quale era socio; nell’avere timbrato in entrata il cartellino marcatempo oltre le ore 9.30 in 13 giorni, compresi tra l’11 e il 28 novembre 2008, nell’avere risposto ad una e-mail di un superiore gerarchico compiendo un grave atto di insubordinazione;
3. 3. la sentenza di legittimità ha rilevato che la Corte territoriale (sentenza n. 7443/2014), escluso che fosse stato provato l’addebito relativo alla vendita di capi di abbigliamento sul luogo di lavoro, aveva tuttavia accertato che il ricorrente, amministratore unico della s.r.l. M., società che gestiva un esercizio commerciale di vendita al minuto di biancheria intima, durante l’orario di lavoro, utilizzando l’autovettura aziendale, aveva raggiunto per due volte detto esercizio commerciale, dove si era trattenuto per circa 40 minuti;
4. i giudici di appello avevano quindi “ritenuto provato lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, come tale integrante illecito disciplinare, ma (avevano) escluso che la condotta fosse di gravità tale da giustificare il recesso perché occorreva tener conto della «ridotta portata temporale della violazione accertata, da rapportarsi all’orario flessibile e alle mansioni mobili di impiegato direttivo», che richiedevano la «regolare presenza presso agenzie e sedi della società dislocate sul territorio, con conseguente frequente e necessitata mobilità»;
4. questa Corte, con la sentenza 13613/17, ha ritenuto integrato il vizio di violazione di legge, sub specie di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, osservando che la Corte territoriale aveva errato nel sostenere che «un comportamento illecito ridotto temporalmente», dal quale non era derivato un pregiudizio concreto per il datore di lavoro, fosse per ciò solo inidoneo a ledere il vincolo fiduciario, potendo tale effetto ricondursi a qualsiasi condotta capace di porre in dubbio il corretto futuro adempimento della prestazione, dovendo ulteriormente esigersi il rispetto dei canoni di correttezza e buona fede da parte di chi, in ragione della qualifica posseduta, svolge la prestazione al di fuori della diretta sfera di controllo di parte datoriale;
5. la S.C. ha poi puntualizzato che l’obbligo di fedeltà impone al dipendente di astenersi anche da qualsiasi condotta astrattamente idonea a ledere gli interessi del datore di lavoro e che “lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, seppure in un settore non interferente con quello curato dal datore, è astrattamente idoneo a ledere gli interessi di quest’ultimo, se non altro perché le energie lavorative del prestatore vengono distolte ad altri fini e, quindi, finisce per essere non giustificata la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata alla attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il lavoratore un profitto ingiusto”;
6. la Corte d’appello in sede di rinvio, uniformandosi ai principi di diritto riaffermati dalla sentenza rescindente e sulla base delle circostanze di fatto pacificamente accertate, ha ritenuto che “l’avere svolto attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, seppure in un settore estraneo a quello del datore di lavoro, avuto riguardo al ruolo posseduto e all’affidamento richiesto per l’espletamento di tale ruolo, costituisce comportamento grave, idoneo a ledere gli interessi del datore”. Ha tenuto conto anche del danno economico cagionato al datore dalla corresponsione della retribuzione pure per il periodo in cui il dipendente aveva svolto attività lavorativa per conto proprio ed ha concluso che tutti gli elementi considerati fossero idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario ed a sorreggere la giusta causa di recesso;
7. per la cassazione della sentenza propone ricorso G. S. D.V., affidandolo a due motivi;
8. resiste, con controricorso F.. S.p.A.
9. entrambe le parti hanno presentato memorie.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la omessa c/o apparente motivazione circa l’applicazione del principio di diritto alla fattispecie concreta: si assume, in particolare, come manchi nella motivazione della sentenza l’esplicitazione del nesso causale tra la condotta, cioè l’esercizio di attività in proprio con utilizzo della macchina aziendale, ed il venir meno del rapporto fiduciario tra le parti nonché il nocumento economico per l’azienda datrice di lavoro,
2. Con il secondo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 363 cod. proc. civ. e 2015, 1376, 1176 cod.civ
3. Il primo motivo è infondato.
4. Questa Corte ha affermato che in caso di censura per motivazione mancante, apparente o perplessa, spetta al ricorrente allegare in modo non generico il “fatto storico” non valutato, il “dato” testuale o extratestuale dal quale esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale e la sua “decisività” per la definizione della vertenza (Cass. n. 13578 del 02/02/2020) e, d’altra parte, per aversi motivazione apparente occorre che la stessa, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost. (sul punto, fra le altre, Cass. n. 13248 del 30/06/2020).
Nel caso di specie non si è in presenza di un vizio così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione, dal momento che la motivazione non solo è formalmente esistente come parte del documento, ma le argomentazioni sono svolte in modo assolutamente coerente, sì da consentire di individuare con chiarezza l’iter motivazionale seguito.
5. Tenendo conto dei principi enunciati dal giudice di legittimità, la Corte d’appello ha valorizzato, da un lato, il maggior onere di correttezza e buona fede connesso al ruolo manageriale svolto dal ricorrente e quindi l’affidamento riposto dal datore attraverso l’ampio margine di autonomia al medesimo concesso nello svolgimento della prestazione; dall’altro, il tradimento di tale fiducia attraverso la condotta tenuta dal dipendente di uso dell’auto aziendale e del tempo di lavoro per soddisfare interessi privati, legati alla gestione del negozio di biancheria intima tramite società di cui era amministratore unico; da tali elementi ha logicamente tratto la conseguenza della lesione del rapporto fiduciario;
6. Con il secondo motivo, in particolare, si deduce che il vizio di motivazione comporti la violazione delle disposizioni normative sottese ai principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione; si censura come illegittima l’attività investigativa svolta dall’investigatore incaricato dalla società, e come inattendibile la testimonianza dal medesimo resa e relativa alla presenza dell’attuale ricorrente presso il negozio L. Lingerie; si allega, altresì, che la sentenza impugnata non ha analizzato la condotta addebitata al dipendente secondo i criteri indicati nella sentenza rescindente; si afferma che la posizione contrattuale non imponeva al predetto orari predeterminati e che era autorizzato l’uso personale del veicolo aziendale; inoltre che il rapporto fiduciario non può ritenersi condizionato solo dalla circostanza che il dipendente, in due giorni, abbia sostato presso un’attività commerciale per pochissimo tempo e che la società non ha neppure dimostrato alcun pregiudizio economico a ciò connesso, risultando pertanto non valutato e motivato il giudizio di proporzionalità tra condotta e sanzione irrogata;
7. Il motivo è inammissibile nella parte in cui fa riferimento alla valutazione delle prove raccolte nel giudizio di merito (testimonianza di A.) oppure solleva questioni (illegittimità delle indagini investigative) che risultano del tutto nuove e di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata e in quella rescindente; il ricorrente omette di indicare se, in che termini e in quali atti processuali del giudizio di merito, che avrebbe dovuto trascrivere, tali questioni erano state poste;
8. nella restante parte, le critiche mosse sono dirette a proporre un diverso apprezzamento dei dati fattuali, e come tali rimangono confinate nell’ambito del merito, non suscettibile di revisione in questa sede di legittimità, se non nel perimetro segnato dal nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n 5 c.p.c.
9. deve, quindi, concludersi che parte ricorrente non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn.3 e 5 e cioè che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 14476 del 2021);
10. per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto;
11. le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
12. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali dì cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in curo 4.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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