CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 maggio 2019, n. 14990
Tributi erariali diretti – Tributi doganali – Diritti di confine – Dazi doganali all’importazione – Valore delle merci importate – Royalties – Modalità di calcolo – Incidenza – Esclusione – Condizione di vendita delle merci da valutare – Identificazione – Pagamento
Fatti di causa
In esito ad attività di controllo sia documentale che ispettiva eseguita ai sensi dell’art. 11 D. Lgs. N.374/1990 e conclusa con p.v. del 10.07.2012 l’Agenzia delle Dogane, Ufficio di Como procedeva alla revisione delle bollette di accertamento ed emetteva nei confronti della GRUPPO C. s.r.l., quale importatrice, avviso di rettifica N.41211 RU/2012 e provvedimento di irrogazione sanzioni N.275100-216-2012, con i quali veniva contestata, per l’anno 2009, la mancata inclusione nel valore delle merci (articoli di cancelleria, oggetti da regalo e similari), acquistate da produttori operanti in paesi extra UE (Repubblica Popolare Cinese), dell’importo delle royalties dovute dalla società importatrice licenziataria alle imprese licenzianti titolari dei rispettivi marchi (NiFra s.n.c. per il marchio “Anima Gemella” e M.R. s.r.l. per il marchio “Papeete”), con conseguente applicazione delle sanzioni ex art.303 co.3° TULD.
La CTP di Como accogliendo parzialmente il ricorso proposto dalla Gruppo C., confermava l’avviso di rettifica, ma annullava il provvedimento di irrogazione sanzioni, compensando le spese di lite. La decisione veniva poi riformata, in seguito ad appello proposto dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, dalla CTR della Lombardia con la sentenza oggetto del presente giudizio. In particolare i Giudici d’appello, premessa una sintetica ma puntuale disamina delle norme regolatrici della fattispecie negli artt.32 par.1 lett.c e par.5 lett.b CDC, 157 par.2 e 160 delle Disposizioni di Applicazione del Codice Doganale Comunitario (d’ora in avanti DAC e CDC), anche alla luce del Commento TAXUD 800/2002 e della Circolare n.21/D del 30.11.2012, nonché della fondamentale definizione di “persona ad esso legata” contenuto nell’art.143 DAC, hanno poi individuato tale legame soltanto nei “casi in cui un soggetto è in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento nei confronti di un altro soggetto”. Hanno quindi concluso che “Nel caso in esame il solo controllo di qualità dei beni oggetto di accordo di licenza non implica l’esistenza di una forma di costrizione e orientamento, in quanto si tratta di una verifica ex post possibile sulla conformità del marchio e non un vincolo preventivo e codificato di divieti imposti dalla licenziataria al produttore su qualsivoglia elemento produttivo. Gli elementi addotti dall’Ufficio invece si riferiscono solo a controlli sui prodotti e non sul produttore o sulla scelta dello stesso da parte della licenziataria”. Ad integrare l’insussistenza di uno dei due presupposti di assoggettabilità a dazio delle royalties, aggiungono poi, “a conferma della peculiarità del caso in esame”, che l’espressa pattuizione contrattuale parametra il computo dei diritti di licenza al fatturato di vendita da parte dell’importatore e non già al prezzo delle merci corrisposto al fornitore-produttore, rendendo così di fatto impossibile una quantificazione della base imponibile al momento della denuncia dell’ammontare delle royalties al momento dell’importazione, per la sua incertezza “sia nell’an (vendita del bene) sia nel quantum (prezzo di vendita dello stesso al cliente)”.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ricorre per cassazione sulla base di tre motivi
L’intimata non si è costituita.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce, in unico contesto, violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art.360 co. l° n.3 c.p.c., degli artt.29 e 32 par.1 lett.c e par.5 Reg. CEE n.2913/1992 e degli artt.160 e 143 DAC, nonché ai sensi dell’art.360 c.l° n.4 c.p.c., nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 co.2° n.4 c.p.c. e dell’art.36 D. Lgs. N.546/1992, nonché degli artt.115 e 116 c.p.c., poiché l’assenza di argomenti per escludere il controverso rapporto di controllo di licenziante sul produttore-venditore determinerebbe una motivazione del tutto apparente, avendo la CTR trascurato di considerare gli elementi sintomatici analiticamente descritti nell’atto di appello, ed in generale in tutte le difese dell’Agenzia, tutti individuati nelle pur citate TAXUD; la medesima lacuna integrerebbe poi anche violazione dell’art.115 c.p.c. per la mancanza di collegamento tra motivazione ed atti di causa, in particolare le clausole che prevedono controllo sulla produzione, approvazione scritta dei prodotti, poteri di esame della contabilità, rispetto del codice etico di condotta.
Con il secondo motivo, l’Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione ex art. 360 co. l° n.3 c.p.c. degli artt.29 e 32 Reg. CEE n.2913/1992 nonché degli artt.157-160-143 Reg. CEE n.2454/1993: premesso che i rilievi svolti con il primo mezzo sarebbero sufficienti ad evidenziare che il pagamento delle royalties costituisse un’effettiva condizione di vendita, ancorché non oggettivata esplicitamente, si duole del fatto che la CTR ne abbia escluso la configurabilità soprattutto sulla scorta del rilievo che la base di computo delle stesse fosse individuato nell’ammontare del fatturato delle vendite da parte dell’importatore: invero, sostiene la ricorrente, qualsiasi metodo d’individuazione della base di computo delle royalties si adotti, esso attiene esclusivamente all’individuazione di una base di computo e, diversamente opinando, basterebbe modificare il metodo di computo dei diritti medesimi per eludere l’art.32 del CDC.
Infine con il terzo motivo deduce, sempre ai sensi dell’art.360 co.l° n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.303 co.l° e 2° DPR n.43/1973 e 70 DPR n.633/1972 in relazione all’ingiusto annullamento delle sanzioni, conseguito all’erronea applicazione delle norme poste a fondamento degli avvisi di rettifica impugnati.
2. Il primo motivo è infondato. E’ principio noto ed espresso ripetutamente nella giurisprudenza di questa Corte, anche dopo la modifica legislativa dell’art.360 c.p.c. operata dall’art.54 D.L. n.83 del 2012, che la violazione dell’art.132 n.4 del c.p.c. per carenza dei requisiti minimi garantiti costituzionalmente ricorre soltanto quando la carenza motivazionale sia tale da non consentire in alcun modo di verificare l’esattezza e la logicità del ragionamento giudiziale (da ultimo cfr. Cass. Sez.L ord. 17.05.2018 n.12096; Cass. Sez.VI-V ord. 7.04.2017 n.9105), ovvero quando sussistano contraddizioni di tale evidenza da rendere impossibile la ricostruzione di una chiara ratio decidendi (cfr. Cass. SU 7.04.2014 n.8053); in altri termini “nelle ipotesi di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass. Sez.III 23.10.2017 n.23940); ove, appare opportuno chiarire, la contraddittorietà deve riguardare la compatibilità logica intrinseca tra più affermazioni logicamente contrastanti che si elidono reciprocamente, rendendo impossibile individuare quale sia il principio di diritto applicato nel caso concreto.
Orbene, nella specie la CTR non solo ha espresso, sia pure sinteticamente, la conclusione delle proprie valutazioni circa l’insussistenza del controllo del licenziante sull’impresa estera produttrice (recte, del legame ai sensi dell’art.143 DAC tra le due imprese), ma ha anche dimostrato di aver considerato e valutato come insufficienti in senso contrario gli indici di controllo offerti e valorizzati dall’Agenzia appellante e ritenuti invece sufficienti dalla CTP, spiegando che gli stessi, riferendosi sempre a forme di controllo, successive e non preventive, sul prodotto e mai sul produttore, che non codificavano divieti tassativi imposti dalla licenziataria al produttore, rappresentavano esclusivamente strumenti convenzionali per garantire la qualità del prodotto finale che avrebbe circolato con il marchio e la reputazione commerciale delle titolari dei singoli marchi utilizzati per la sua commercializzazione.
Peraltro la valutazione di incompatibilità delle clausole contrattuali esaminate con la libertà organizzativa ed operativa del contractor estero e della libertà della scelta dello stesso da parte non già del licenziante ma dell’importatore è quaestio facti rimessa all’apprezzamento del Giudice, circa la quale la CTR ha espresso una valutazione esplicitamente negativa (alla quale implicitamente la ricorrente intende sostituire la propria valutazione di senso contrario), ma non già insanabilmente contraddittoria con la premessa astratta contenuta nell’enunciato generale, se non per il mezzo di una interpretazione delle clausole contrattuali difformi da quella postulata dal Giudice d’appello, che è invece censurabile ai sensi del n.5 art.360 c.p.c. soltanto nei limiti nei quali tal genere di motivo è ancora proponibile; interpretazione peraltro sulla quale il motivo è totalmente carente, siccome privo di specifici argomenti a sostegno dell’individuazione della funzione delle singole clausole rispetto alla finalità di condizionare od orientare il produttore- venditore estero.
3. Il 2° motivo, così come formulato, deve essere dichiarato assorbito in conseguenza del rigetto del primo, ancorché appaia fondato nella parte in cui censura l’affermazione da parte della CTR secondo cui, poiché “per espressa pattuizione contrattuale l’importo in percentuale del diritto di licenza era ragguagliato non già al valore delle merci importate (e quindi al prezzo pagato al fornitore), ma bensì all’importo delle vendite nette, e cioè al prezzo dei prodotti. al momento della vendita da parte di C.”, “secondo l’impostazione dell’Agenzia delle Dogane, al momento dell’importazione C. avrebbe dovuto dichiarare anticipatamente un valore dei diritti di licenza ancora del tutto incerto sia nell’an che nel quantum…”.
3.1. Invero in relazione a tale questione la Corte di giustizia (con sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Dijsseldorf) ha stabilito che l’art.32, par. 1, lettera c), del codice doganale non prevede che, al fine di valutare se i corrispettivi o i diritti di licenza siano componenti del valore delle merci importate, l’importo degli stessi sia determinato o determinabile al momento della conclusione del contratto di licenza o al momento dell’insorgenza dell’obbligazione doganale. Difatti, l’art. 161 del reg. n. 2454/93 fissa sì la presunzione relativa che il pagamento del corrispettivo o diritto di licenza si riferisca alle merci oggetto di valutazione quando il metodo di calcolo di esso si basa sul prezzo delle merci importate; ma aggiunge che «Tuttavia, il pagamento del corrispettivo o del diritto di licenza, può riferirsi alle merci oggetto della valutazione quando l’ammontare di tale corrispettivo o diritto di licenza venga calcolato senza tener conto del prezzo delle merci importate». Tali principi, che qui s’intende ribadire, sono stati già recepiti da Cass. Sez.V 6.04.2018 n.8473.
Infatti, in una situazione simile, in cui «…l’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza dipende dalla percentuale del volume d’affari generato con la vendita a terzi delle merci importate in base al contratto di licenza» (punto 49 della sentenza in causa C-173/15), la Corte di giustizia ha appunto stabilito che il versamento di tali corrispettivi o diritti «si riferisce» alle merci da valutare. In altri termini, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d’appello, le modalità di calcolo delle royalties non incidono sulla necessità della loro inclusione nel valore doganale, come ha successivamente esplicitato il paragrafo 1, secondo nucleo normativo, dell’art. 136 del regolamento di esecuzione n.2015/2447/UE, a norma del quale «Il metodo di calcolo dell’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza non è determinante».
3.2. Al fine di valutare l’assorbimento del motivo, occorre prendere le mosse dal regolamento n.2454/93, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario, che stabilisce che «…quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell’articolo 29 del codice [doganale] si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento:
– si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e – costituisce una condizione di vendita delle merci in causa» (art. 157, paragrafo 2).
Occorre dunque che ricorrano tre condizioni cumulative:
– in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare;
– in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare e, – in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.
In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, il regolamento di attuazione specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare «soltanto se: -il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondane successivamente all’importazione, -le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e – l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore (art. 159).
Ancora in particolare, per il caso in cui l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo (come nel caso di specie, nel quale non sono indicati né dedotti rapporti di immedesimazione o controllo tra licenziante e licenziataria), il regolamento prescrive che «…le condizioni previste dall’articolo 157, paragrafo 2 si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento» (art. 160).
La disciplina generale fissata dal paragrafo 2 dell’art. 157, dunque, trova specificazione in quelle particolari, rispettivamente concernenti il caso in cui il diritto di licenza riguardi un marchio di fabbrica e quello in cui il corrispettivo del diritto debba essere versato ad un terzo; ne consegue che le «condizioni di vendita delle merci in causa» devono rispondere ai presupposti rispettivamente richiesti dagli artt. 159 e 160, in relazione alle ipotesi da essi contemplate.
Orbene, né l’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale («…c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare…»), né l’art. 157, paragrafo 2, del regolamento n.2454/93 precisano cosa si debba intendere per «condizione di vendita» delle merci da valutare. Tuttavia la Corte di giustizia, con la sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Dijsseldorf, ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del commento n.3 del comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana) relativo all’incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l’identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza. In generale, dunque, il pagamento in questione è una «condizione di vendita» delle merci da valutare qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore -o la persona ad esso legata- e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere.
3.2. Nel caso in esame la CTR ha di fatto adeguato le proprie valutazioni ai parametri normativi offerti da entrambe le discipline particolari contemplate dagli artt. 159 e 160 del reg. n. 2454/93. Per un verso, i diritti di licenza si riferiscono difatti anche ai marchi di fabbrica; per altro verso, la loro corresponsione spetta ad un soggetto diverso dal venditore. Ed è irrilevante che tale soggetto non sia qualificato come terzo: è difatti sufficiente, com’è specificato nel punto 67 della sentenza della CGE già indicata, per l’identificazione delle “condizioni di vendita” che il pagamento dei corrispettivi dei diritti di licenza sia richiesto all’acquirente da «una persona legata al venditore».
Occorreva pertanto verificare in concreto la sussistenza di un legame, diretto o indiretto, tra il fornitore asiatico della licenziataria C. e le titolari dei diritti di licenza, ed apprezzare la sua forza. Occorreva cioè, come ha chiarito la Corte di giustizia (in causa C-173/15, punto 68), «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente».
Sul punto, l’allegato 23 delle DAC – Note interpretative in materia di valore in dogana all’articolo 143, paragrafo 1, lettera e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra), stabilisce che «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda».
Pertanto, una volta che, come già esposto in relazione al precedente motivo, la CTR ha espresso una sua valutazione di segno negativo circa la significatività delle clausole contrattuali al fine di ritenere o meno la sussistenza di siffatto controllo, e che tale valutazione, respinto il precedente motivo, deve considerarsi punto fermo ed intangibile dell’indagine circa la sussistenza della condizione di vendita, è evidente che l’accertamento dell’esistenza di un eventuale errore interpretativo delle medesime norme circa l’altro presupposto normativo (cioè la riferibilità del pagamento delle royalties alla vendita delle merci importate) non potrebbe condurre ad alcun risultato utile per l’Agenzia, poiché mancherebbe pur sempre un presupposto essenziale per ritenere sussistente la condizione di vendita, e cioè il rapporto di legame e/o controllo delle licenziane rispetto alla venditrice.
4. Anche l’ultimo motivo appare assorbito, siccome investente un capo della sentenza totalmente dipendente, logicamente e giuridicamente, dai capi afferenti la fondatezza della pretesa circa la determinazione delle maggiori basi imponibili, e la cui decisione, in caso di accoglimento del ricorso, non potrebbe che essere rimessa al Giudice di rinvio (Cass. Sez.V 5.11.2014 n.23558).
5. In sintesi, il ricorso, essendo infondato il 1° motivo ed assorbiti gli altri due, deve essere rigettato, con la conseguente conferma dell’impugnata sentenza.
Non essendosi costituita la Società intimata, non deve farsi luogo a pronuncia sulle spese.
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Nulla per le spese.
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